Antologia critica

Antologia critica

Ora che l’ha fatto, sembra incredibile che Greta Garbo non sia apparsa in una commedia prima di Ninotchka. In questo brillante burlesque di Bolscevichi all’estero, la grande attrice rivela una padronanza del registro comico che si combina perfettamente con la profondità emotiva o la potenza drammatica dei suoi primi successi. È una gioioso, leggermente adombrato e incantevole ritratto quello che crea, per illuminare una altrimenti scarsa satira e farne la più accattivante commedia cinematografica dell’anno.
Ernst Lubitsch ha messo il suo noto tocco direttivo sul film, reso leggero da battute pungenti e riuscite caratterizzazioni, ma che resta memorabile quanto piacevole per aver rivelato nuove capacità della Prima Attrice dei nostri giorni.
Per vedere Garbo interpretare una severa compagna che devia rapidamente e oltre misura dalla dottrina del partito a una storia d’amore durante una missione a Parigi, qualcuno può pensare che lei abbia consacrato la sua carriera al classico ‘far credere’. Che sia l’impassibile buffoneria o la difficoltà di cimentarsi in una divertente scena di ubriacatura; che stia scambiandosi insulti con la Gran Duchessa o provandosi di nascosto uno di quei cappellini alla moda, è una grande signora della commedia.
Allo stesso tempo, ha inondato la produzione con la sua smisurata e ineffabile bellezza, dando una ricca e ricercata qualità alle scene romantiche e intensità ai pochi passaggi di duro dramma.
È stata aggiunta nuova verve e colore alla sua personalità con un ruolo come questo che la rende ancora più adorabile che in passato.

Howard Barnes, Ninotchka, “New York Herald Tribune”, 7 ottobre 1939



La Ninotchka di Garbo è una delle più brillanti commedia dell’anno, un allegro, impertinente e malizioso spettacolo che non forza mai le battute (non importa quanto efficaci) e trova l’austera prima donna del dramma recitare in una commedia buffonesca con la disinvoltura di Buster Keaton... Può apparire monotona, questa grande adeguatezza del ruolo di Garbo. Speriamo padroneggi poco almeno una scena giusto per darci l’occasione di dimostrare di non far parte del suo fan club. Ma resta infallibile e Garbo, sempre esattamente come richiede la situazione, brava come la sua parte e il regista le permettono di essere.

Frank S. Nugent, 'Ninotchka, an Impious Soviet Satire Directed by Lubitsch, Opens at the Music Hall - New Films Are Shown at Capitol and Palace, “The New York Times”, 10 novembre 1939



È lecito parlare di Ninotchka senza cadere nelle trivialità della polemica di parte? Non solo si può, ma ‘si deve’. Guai alle civiltà che non sanno, nella libera lotta civile, salvare una zona di quiete disinteressata, dove sia possibile la serena contemplazione e l’equilibrato giudizio degli eterni veri!
È bello o brutto film Ninotchka? Piuttosto bello che brutto, diremmo, e certamente assai divertente. È inutile cercarvi una realtà obiettiva. Son tanto ridicoli i sinistri che discutono una farsa come se fosse un libro di Croce come i destri che si sbellicano dalle risa, affidando al povero Lubitsch cui, evidentemente, queste cose importavano né punto né poco, la ritorsione dei ‘babau’. Come era brava la Garbo! Ora ha quarantaquattro anni, i produttori non si curano più di lei, persi nella scia, profumata di giovinezza, di Ingrid o di Alida; nel ‘39 essa era nel suo fiore. ‘O donne di trent’anni!’, ha invocato Balzac. Ma il tempo, ha aggiunto Huxley, non si deve fermare.

Pietro Bianchi, Garbo sorride, “Candido”, 4 aprile 1948.



È a Ninotchka, certo più vivo nella memoria degli spettatori, che dovremo rifarci per meglio comprendere i conflitti e le sintesi che Lubitsch ci propone, magari senza nessuna ambizione definitiva. Va notato anzitutto che Ninotchka, proibito in qualche paese nell'immediato dopoguerra per timore di turbamenti dell'ordine pubblico, non è certo un film anticomunista. S'iscrive se mai nella lunga serie di film hollywoodiani che verso la fine degli anni Trenta, magari in vista della prossima alleanza, tentano maldestri approcci con l'Unione sovietica e al tempo stesso ne prendono le distanze: fra Tovarich, insomma, e i film filorussi del decennio successivo (Song of Russia, Days of Glory, The North Star, ecc.). a ben vedere il fatto che Ninotchka sia comunista non è poi determinante: potrebbe trattarsi benissimo di una donna d'affari americana, convertita da un viveur parigino alle delizie del dolcefarniente. Quello che conta è il modo della 'conversione', che non si basa di una scoperta della sessualità (Ninotchka, chiaramente, non ha nulla da imparare su questo piano) e nemmeno sulle insidie della haute couture (anche se l'acquisto del cappellino è importante). Nella scena della trattoria, che è il vero cardine o 'spartiacque' della vicenda, Léon costringe finalmente Ninotchka a ridere. 'Di che cosa', chiede Ninotchka. Di niente, risponde Léon: 'Dell'intero, ridicolo spettacolo della vita. Della gente che è così seria. Che si dà tanta importanza. Se non riesce a pensare a nient'altro, può sempre ridere Lei di me'.
[…] La molteplicità di registri di Ninotchka è parzialmente unificata dal ritmo su cui poggia il film, che è un ritmo, al solito, binario. Non tanto basato sulle opposizioni (capitalismo e comunismo, vecchia e nuova Russia, Mosca e Parigi, uomo e donna, amore e dovere) quanto sulla ripresa e sul riecheggiamento: tutto, a ben vedere, ricorre due volte nel film, e la prima volta viene generalmente respinto o criticato,la seconda accettato con gratitudine: così il cappellino, che all'inizio appare mostruoso alla protagonista, o le barzellette di Léon, a cui ricorrerà poi, in un momento di disperazione; così, persino, la Tour Eiffel, che Ninotchka non ha mai trovato e di cui, sull'aereo che la porta via da Parigi per sempre, ripeterà a Iranoff, Buljanoff e Kopalski misure e caratteristiche tecniche. Tutto dunque viene rovesciato (Léon che suggestionato da Ninotchka vuole dividere le sue sostanze con il vecchio maggiordomo Gaston, e Gaston terrorizzato all'idea di dovergli dare metà dei suoi risparmi) o corretto ('Dice un proverbio russo: il gatto colto coi baffi sporchi di panna farà meglio a trovare una scusa'; 'Beh, con la qualità della nostra panna, è la Russia che dovrebbe scusarsi coi gatti').La filosofia del capitalismo, che Ninotchka finisce per far sua, ha in sé l'idea dello spreco, del consumo e dell'effimero: di qui la coscienza della labilità di ogni soluzione, e la tendenza a riassaporare ogni frammento d'esperienza prima che si cancelli. 'Compagni!', grida Ninotchka, incoronata 'Gran Duchessa del Popolo' e ubriaca di champagne. 'Compagni, la rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma per favore, non adesso'. Allo stesso modo, Madeleine de Beaupré dimostrava la perfetta legittimità di una stagione al di fuori della legge prima di trasformarsi in una signora per bene, e Lady Barker si concedeva una vacanza come 'Angelo' nel quadro di una routine di moglie perfetta e squisita padrona di casa. Il denaro circola facilmente, passa da una mano all'altra, ritorna all'origine, come in Bluebeard's Eighth Wife: e la Garbo che ride (di se stessa, ma anche di noi) è una Garbo che, a differenza di Ninotchka ormai votata allo hic et nunc, guarda dal di fuori e dall'alto questi passaggi patetici, un po' buffi.

Guido Fink, Ernst Lubitsch, La Nuova Italia, Firenze 1977

 

Ninotchka è sia politico che satirico, e già questo tono potrebbe non essere adatto perché si lega al ribaltamento tipico del primo Lubitsch ma si dimostra incongruente con i toni più delicati dei film successivi. Non che i comunisti non siano oggetto di frecciate satiriche: i processi alla massa, l'assenza di riservatezza, e l'oppressione del regime di Stalin sono affrontati con spregiudicatezza e acume. Ninotchka tuttavia si colloca fuori dal cinema mainstream americano non chiedendo, o meglio senza permettendo, al pubblico di prendere posizione. Otis Ferguson riconosce questa diversità nella sua recensione di allora quando scrive: “È il primo film a rivelare con allegria che i comunisti sono persone e che come tali devono essere trattati” (pp. 274-75). Il fatto che il film tratti i comunisti con un atteggiamento positivo, ne fa uno dei rari titoli americani del periodo a proiettare qualcosa dello spirito del Fronte Popolare, anche se, per ironia della storia, al tempo della realizzazione del film il Fronte Popolare era già finito.
Che Ninotchka sia stato a livello critico il più grande successo del tardo Lubitsch è in parte dipeso, credo, dal fatto che in parte riprende strategie registiche dai primi film. Il 'Lubitsch touch' ha dato in Ninotchka poche occasioni a quei critici che amano scrivere dell'effetto 'ooh-la-la' del guardare dentro una porta chiusa mentre l'azione vi si svolge all'interno. Ma mentre il film recupera alcune formule dai primi lavori, condivide con il successivo Scrivimi fermo posta la cura stilistica per gli spazi e i movimenti di macchina. Su tutto l'ironica distanza dai primi film che può essere colta in momenti precisi di Ninotchka, è un nuovo e crescente senso di impegno.
Se lo stile dell'ultimo Lubitsch è tendenzialmente meno metaforico, Ninotchka è l'ultimo film a contenere una delle grandi metafore visive tanto comuni nei primi film. Un cappellino parigino alla moda che prima ripugna poi attrae Ninotchka, è usato come segnale del suo progressivo cambiamento. Come tale, si rivela una buona introduzione al ricco schema ideologico del film. È Ninotchka stessa ad attribuire un valore ideologico al cappellino quando afferma vedendolo per la prima volta “Quanto può sopravvivere una civiltà se permette alle sue donne di mettere cose come quelle sulla testa?” Ripensandoci aggiunge, con grande sicurezza “Non molto, compagni” come se il cappello fosse un elemento chiave nella battaglia tra capitalismo e comunismo.

William Paul
, Ernst Lubitsch's American Comedy, Columbia University Press, New York 1983.




Una brillante eco della scena della massa di donne in delirio erotico per il bel tenente Alexis di Die Bergkatze (1921) si ritrova in The Merry Widow (1934) quando il conte Danilo è salutato dalle sue 'fans'. Un'ultima scena di massa conclude, con un pizzico di pepe, questa predilezione lubitschiana: la parata del Primo Maggio a Mosca, alla fine di Ninotchka (1939), ricalcata, come indicava la sceneggiatura, sugli “stock shots” dei documentari staliniani, commentata da una voce off che esalta le migliaia di armi, di “servitori dello Stato uniti in un solo pensiero, un solo ideale”. Il giudizio degli autori è già esplicito nell'essenziale della descrizione della parata: “la macchina da presa scende fino ad un primo piano di Ninotchka che avanza con gli altri. Tutta la sua individualità è scomparsa. È come gli altri, un ingranaggio della macchina sovietica”. Lugubremente irregimentate, queste masse non hanno più questa forza trascinante, ribelle, che caratterizzava le folle possedute da follia, vitali, del primo periodo di Lubitsch. Secondo lui, il mondo si era trasformato così...

Lorenzo Codelli, Lubitsch der Massenregisseur, “Positif”, n. 292, giugno 1985.



L'universo di Lubitsch è quello del rituale, una sorta di pre-regia che informa la sua fino ad identificarvisi, e questo rituale – sociale o amoroso – è lo spettacolo altrettanto come il suo oggetto: grand hotel parigino e aristocrazia sognata, stanze immense e bianche dai soffitti inattingibili, balletto dei valletti in livrea che aprono e poi chiudono le porte, è il rituale stesso della sua messa in scena che Lubitsch filma e spesso, nello scarto del simulacro, la messa in derisione del rituale stesso. La porta: è da lì che inizia Ninotchka, dalla porta girevole di un grande hotel e i traffici dei tre russi che non smettono di entrare e uscire. E come potrebbe essere diversamente in Lubitsch?
Perché è la porta che istituisce il rituale, la teatralità come oggetto e natura del film, spazio di messinscena. La porta, la si spinge o la si varca, facendo di ogni entrata un'entrata in scena, come allo stesso tempo cortocircuita il susseguirsi delle scenografie. Fra due scenografie, più spesso nient'altro che questo passaggio: la porta li fa incontrare e mette in ellissi ogni tragitto (del viaggio in aereo fino a Mosca non si vedrà altro che un'inquadratura dell'aeroporto), apre solo su un'altra scena: la successiva. Ninotchka non sviluppa quindi, come del resto anche gli altri film di Lubitsch, i molteplici aspetti di una geografia referenziale ma rinchiude l'azione in un piccolo numero di luoghi (l'hotel dei russi, le dimore della duchessa e dell'eroe, il ristorante a Parigi; una camera fra due porte e un ufficio di Commissario del popolo a Mosca) che esistono solo come scenografie convocate sullo schermo secondo le esigenze del racconto, e senza altri rapporti di coesistenza. La finzione non investe un luogo preesistente: si gioca in una scenografia che esiste solo per essa.
Nient'altro quindi che la scena: non come unità di racconto, ma nel doppio senso di ciò che si recita e del luogo che ne è il teatro. Fra due scenografie, nient'altro che un'uscita (di scena) e un'entrata (in scena), una porta – o due: la quinta dell'ellissi e del fuori campo. […]
Ninotchka
sarebbe quindi la messinscena di un manicheismo ideologico: proiezione hollywoodiana di un mito, non quello del comunismo, ma del comunismo com'è percepito nel mondo capitalista (a Parigi), o piuttosto l'immagine che se ne forgia (a Hollywood, attraverso una Parigi metaforica che è giustamente il mito hollywoodiano di Parigi). […]
Il comunismo, in Ninotchka, non è detestabile, è anormale. E l'anormalità di Ninotchka è la sua non conformità al tipo e al comportamento dell'eroina hollywoodiana. Laddove qualsiasi sceneggiatore di Hollywood avrebbe previsto una vamp, oppure un'ingenua, Mosca invia una apparatchik ingessata, sergente di cavalleria nell'esercito sovietico, che resta e vuole rimanere di marmo, dato che un individuo disincarnato esiste, letteralmente, solo controvoglia, per la quale l'amore è solo un “processo biologico” e il suo spasimante “un interessante soggetto di studio”. La sua bizzarria staliniana (la sua comicità), deriva dalla sua ignoranza dei codici dello spettacolo hollywoodiano. La messa in spettacolo dell'antistalinismo da parte del film (i processi di Mosca non sono lontani) è naturalizzato di ritorno dalla norma hollywoodiana di cui partecipa di fatto la star che recita Ninotchka, incarnando metonicamente lo stalinismo in un personaggio che, teatralmente, vale per questo regime e la sua ideologia, riferita ad un dogma, quando il seduttore capitalista (Melvyn Douglas) rimanda al cinema hollywoodiano. E se Ninotchka vale per il comunismo è che, precisamente, l'URSS prigione lontana e tanto più mitica, è quasi totalmente lasciata fuori campo e che il teatro della finzione è Parigi tale quale la si scopre, città di piacere e divertimento, dell'aristocrazia e del lusso, che finisce per identificare il capitalismo a Parigi e Parigi alla sua immagine hollywoodiana e a tutto l'immaginario di Lubitsch.

Marc Chevrie, Ninotchka ou le parti d'en rire, in Ernst Lubitsch, Cahiers du Cinéma -Cinémathèque Française, Paris, 1985.



All'epoca come migliaia di altri spettatori, io ero rimasto affascinato, non tanto perché ci appariva una Garbo nuova, insospettata dal pubblico, ma ben di più perché trasponeva la sua grazia, la sua tenerezza, la sua gravità di vestale, nel registro della commedia leggera. Il che aveva l'effetto di purificare, di alleggerire, di rendere ancora più squisita una certa qualità d'espressione drammatica.In fin dei conti Ninotchka scoppiava a ridere solo in una sequenza (e aveva già riso almeno in La regina Cristina e in Margherita Gauthier). In tutto ciò che seguiva la sua conversione, noi possiamo assaporare il lato “romance” del cinema, la felicità ingenua e fiduciosa di una donna che, liberata dal suo blocco iniziale, ritornava ragazza, quella che non aveva potuto essere sotto un regime castrante, e che aveva fatto affiorare la scoperta di un amore sbocciato a Parigi. Il che non era nuovo in lei che confessava di avere sempre avuto questo aspetto da “ragazzina” e che nei momenti privilegiati di Il destino (A Woman of Affairs, 1928), di La donna divina (The Divine Woman, 1928) e Margherita Gauthier (Camille, 1936) ci aveva offerto questa attitudine infantile e abbandonata che personalmente avevo sempre considerato come l'accesso misterioso al suo segreto.
La mutazione del personaggio […] cominciava esplicitamente con la prova del cappello strampalato e provocante, il cui acquisto cristallizzava la metamorfosi frivola dell'Artemide sovietica. Con una cura tutta particolare, si chiudeva a doppia mandata, estraeva da un cassetto dove l'aveva nascosto la stravagante parure e rimaneva immobile davanti allo specchio, allo stesso tempo sopraffatta dall'evento, impressionata da tutto ciò che aveva intravisto e mossa da ben altre pulsioni... che l'immobilità stessa dell'interprete davanti allo specchio ci dava ad intendere. (…)
È questa insorgenza infantile o adolescenziale – eppure molto “femminile” - alla maniera delle ragazze di Francis Jammes o di Valéry Larbaud che emana da lei quando, oltrepassando con passo timido la soglia dello studio dove l'attende il conte di Agoult, si arresta con un sorriso per metà imbarazzato, di timore e speranza, ma soprattutto illuminato da una confessione che nessuno potrebbe contestare - “Non è così che desiderereste apparire?” - Nascita ancora esitante di una futura parigina, sorriso distaccato nei confronti di quella che era fino a ieri, per finire con un abbandono, un illanguidimento pudico accanto a Léon, e una pulsione irrefrenabile di gelosia, confessata, prima indirettamente, poi senza giri di parole, riguardo ad un acerta fotografia che aveva intravisto nella stanza, quella dell'amante del suo ospite.
[…] C'è un doppio gioco nel lavoro di Lubitsch. L'astuto e carezzevole amico ha compreso che la rivelazione che ci apporterebbe, sarebbe quella di una persona intruppata e resa ieratica da Hollywood altrettanto come la giovane Nina dalla deontologia sovietica, e che, meglio di Salomé nella danza dei sette veli, apparirebbe in una sorta di nudità gracile e trasparente nella verità affatto nuova della sua anima e del suo corpo.

Henri Agel, Greta Garbo, Librairie Séguier, Paris 1990.




Ninotchka sembra un'irriverente parodia dei film di propaganda in cui l'eroe dopo aver militato nell'errore (l'indifferenza politica o la fede sbagliata), giunge attraverso una peripezia ad abbracciare la giusta causa, perviene attraverso una mutazione umana e ideologica a una 'presa di coscienza'. Un itinerario seguito, in campi diversi e durante la guerra di Spagna, in Marco il ribelle di Wilhelm Dieterle (1938), da Madeleine Carroll che da spia franchista si redime nell'antifascismo, o da Mireille Balin che in L'assedio dell'Alcazar di Genina (1940) passa da una mondana superficialità alla comprensione della lotta del 'generalissimo'. Lubitsch descrive un percorso di redenzione femminile che da una plumbea mistica comunista conduce a una 'presa di coscienza' capitalista. Un viaggio che dalla 'pesantezza' della Russia dei piani quinquennali approda alla 'leggerezza' ammaliante di Parigi: dai trattori ai cappellini, dai monolocali moscoviti con lavabo in comune all'appartamento reale del Clarence, dai tempi lunghi e programmati dell'edificazione socialista a una temporalità effervescente come le bollicine di champagne. È vero che il collettivismo e la solidarietà migliorano le condizioni del popolo, e che da soli si ha un solo uovo mentre uniti si può fare un'omelette, come sentenzia (ironicamente) la compagna di stanza di Ninotchka, ma è anche vero che l'individualismo capitalista ha i suoi vantaggi, soprattutto perché fa tesoro (in senso letterale) delle debolezze umane più che delle virtù. Una sottoveste di seta è l'arma segreta del capitalismo e stenderla al sole dell'avvenire, in un cortile di Mosca, è giustamente considerato dai bolscevichi osservanti un atto sovversivo.
Attivando il contrasto di un umoristico ossimoro, Lubitsch concepisce la redenzione di Ninotchka come una corruzione progressiva, come cedimento alle tentazioni del capitalismo: moda, champagne, gastronomia, rossetto, décolleté, lingerie.
[…] Più che un'apologia del capitalismo, ricavata in negativo dalla sorridente polemica anticomunista, il film è un'apologia della debolezza umana, della vulnerabilità degli individui: dal trio degli emissari sovietici che subito si arrendono alle tentazioni del Clarence (sigaraie comprese) a Léon ricco di simpatica inconsistenza a Ninotchka che da un'algida fede nel 'dover essere' del mondo approda a una comprensione dell''essere' del mondo e di quanto sia amabile la 'decadenza' della società parigina. Da ferrea funzionaria dell'apparato sovietico, austera con se stessa e con gli altri, animata da nobili ideali di giustizia sociale (rifiuta il servizio del portabagagli dichiarando che è un'ingiustizia e il facchino risponde che dipende dalla mancia), da convinta stalinista che esalta le grandi purghe in Russia ('Siamo in meno, ma sono rimasti i migliori'), Ninotchka si trasforma in una donna che disgela il cuore attraverso una risata memorabile e si abbandona all'amore come a un'ebbrezza che sospende le leggi del dovere. Parigi è superiore a Mosca, non tanto per la douceur de vivre, ma perché concede agli individui la libertà di 'errare', con doppiezza semantica.
D'altra parte Ninotchka si innamora di Léon non in quanto seduttore che utilizza con consumata strategia il suo elegante nido art déco o perché è irresistibilmente 'correlativo', ma perché cade all'indietro con una seggiola dopo aver tentato senza successo di farla ridere raccontando barzellette. È la debolezza di Léon, rovinato goffamente a terra in una trattoria popolare, a generare la mutazione di Ninotchka: un'incontenibile risata, un prolungato lampo che illumina di una nuova umanità il viso della Garbo e squarcia la grigia cortina che avvolge il personaggio. E Lubitsch mette a disposizione di Ninotchka una classica occasione del riso secondo le teorie bergsoniane: la 'rigidità del meccanismo' applicata al corpo umano. Cadere da una seggiola interrompe il fluire normale (e quindi non comico) dei movimenti e conferisce al corpo un'artificialità meccanica che suscita ilarità. L'umanizzazione di Ninotchka è descritta da Lubitsch senza attivare nel personaggio una dinamica (troppo prematura) di sensibilità e di emozione. La Garbo ascolta con freddezza le barzellette di Léon e interviene per smontarne il procedimento comico attraverso osservazioni che spezzano la logica del racconto. È un sabotaggio che provoca in Léon il caparbio desiderio di far ridere a tutti i costi attraverso il contenuto di storielle più che attraverso la loro 'interpretazione'. Lubitsch costruisce la scena sul climax dei tentativi di Léon, sempre più irritato e pericolosamente dondolante sulla sedia, e sull'anticlimax dei gesti gelidi di Ninotchka che mangia lentamente, senza appetito, e con espressione di sfinge.

Marco Salotti, Ernst Lubitsch, Le Mani, Recco 1997.



Era inevitabile. Nell'instancabile ronde di classi sociali rimescolate e dislocate continuamente nel cinema di Lubitsch non poteva non comparire – e in tutta evidenza di protagonista – il Proletario, quello con la P maiuscola cioè quello sovietico. E se la cornice prescelta è Parigi, una tale apparizione non può incarnarsi che in vesti femminili, dopo essere stata annunziata, per la verità, da un terzetto tutto maschile la cui funzione gregaria non sarà mai messa in discussione: 'Non badate al mio sesso' afferma il Commissario Speciale Nina Ivanova Yakushova, sottolineando così, attraverso la negazione, la diversità che la rende davvero speciale. Inoltre, con sintesi fulminea, che lega i rappresentanti del governo bolscevico al macguffin costituito dei gioielli illecitamente esportati dalla fuoriuscita granduchessa Swana, il film – portavoce in questo modo di un'interpretazione storica della rivoluzione del '17 assolutamente legittima – mette a confronto il Proletario non con la Borghesia – come, marxianamente, sarebbe lecito aspettarsi – ma con l'Aristocrazia, quella vera. Questa volta non ci sono i borghesi che vivono come nobili d'altri tempi né, tanto meno, nobili degradati costretti a vivere da sottoproletari più o meno mascherati: Swana vive in un lusso apparentemente non fittizio per quanto forse non del tutto sicuro, legata sentimentalmente al conte francese Léon d'Algout. Ecco, in breve tutti gli elementi sono stati sciorinati sul tavolo (da gioco: e il gioco, come sempre, è quello dell'amore, inseparabile dalla circolazione della ricchezza). Il peccato del Commissario Nina Ivanova non è innamorarsi del conte Léon, bensì quello di non essere sufficientemente scaltra nel gestire una partita che non ha solo l'amore in palio: nella lotta di classe anche questo si può trasformare, da un momento all'altro, in merce di scambio e l'oro, alla fine, la vince su tutto, al di là di chi ne sia il destinatario.
[…] L'esotismo legato alla scelta di Costantinopoli come luogo del ricongiungimento fra Ninotchka e il conte Léon ha richiami interni al cinema di Lubitsch stesso (Trouble in Paradise), ma rimanda anche a una dimensione squisitamente fiabesca della fuga dal quotidiano verso luoghi che appaiono più legati all'immaginario nutrito di magie d'amore, misteri e, ça va sans dire, ricchezze incalcolabili. Mentre lo scambio amoroso finale dei due amanti ritrovati riesce a riconciliare l'inconciliabile (l'interesse personale e il bene del popolo russo) attraverso uno di quei capovolgimenti di senso che soltanto l'aspettativa dello spettatore ormai allenato ai tempi e ai modi della commedia, nonché assecondato dal ritmo interno del dialogo e dal ricorso all'iperbole consolatoria, può rendere credibile.»

Adriano Piccardi, Quell'incerto sentimento, in Ernst Lubitsch, a cura di Arturo Invernici e Angelo Signorelli, Edizioni Cineforum, Bergamo 2005.



Gran parte dell'incanto di Ninotchka sta appunto nel non capirsi, nella disfunzione comunicativa, nell'incontro, sul piano inclinato d'un discorso romantico, tra la retorica allusiva della proposta e la freddezza letterale della replica. 'Deve proprio flirtare?' chiede Nina a Léon d'Algout mentre, fermi a un semaforo parigino, lui l'aiuta a reggere la mappa della città. 'Non devo, ma mi viene naturale', sorride Léon, entrando nel terreno della confidenza galante. 'E allora si reprima', ordina lei, respingendolo fuori. Nina Yakusciova, solidamente refrattaria a qualsiasi finesse, è dunque la più antilubitschiana delle eroine di Lubitsch, in un film in cui le tracce d'autore sono più sommesse che altrove. Ninotchka è, per certi versi, la fine dell'allusione, il trasloco a un altro piano di elaborazione linguistica. È anche uno dei pochi film di Lubitsch che nascano da una scelta non sua: lo spunto però è di Melchior Lengyel, commediografo ungherese già autore di Angelo; ed è la stessa Garbo a pretendere Lubitsch (il quale, a sua volta, pretende di scegliere gli sceneggiatori, ovvero la brillante coppia Brackett-Wilder già sperimentata nell'Ottava moglie di Barbablù, e il sodale viennese Walter Reisch). Il risultato è un film dall'avvio in realtà assai classico, che ci introduce con agio squisito alla consueta famiglia di maîtres d'hotel, camerieri e maggiordomi, a quella lubitschiana aristocrazia della servitù che trova qui incarnazioni, ancora una volta, letterali: il capocameriere dell'hotel Clarence è un conte russo, già in fuga dalla rivoluzione, e alla 'famiglia' in fondo appartengono anche gli ispettori Bulianoff, Iranoff e Kopalski (non a caso finiranno con l'aprire un ristorante a Costantinopoli), trio la cui splendida circolazione comica è garantita soprattutto dal talento di Felix Bressart (Lubitsch lo vorrà ancora l'anno successivo, in Scrivimi fermo posta): esemplare la scena della loro rapida conversione ai piaceri del vivere occidentale, ben pilotata da Léon e solo intuita dietro una porta chiusa, da cui arrivano grida d'esultanza e da cui entrano ed escono bottiglie di champagne e cameriere dalla gonna corta.
Ma l'arrivo di Nina chiude in ogni senso i giochi, e fa ripartire tutto da capo. Garbo è, qui come sempre, irriducibile: volto di neve, bocca senza sorriso. È alla MGM, a casa, nel suo ambiente: Bill Daniels la fotografa, Adrian la veste, Cedric Gibbons arreda le sue stanze. Per metà del film, Garbo conduce Lubitsch a farla essere ciò che è sempre stata: una donna che arde d'esaltazione amorosa, e stavolta l'oggetto di passione è l'edificazione socialista. Nella sua piatta osservazione dell'Occidente, nel suo grado zero dell'interpretazione, Nina Yakusciova ha un candore voltairiano e una purezza francescana (ciò che più l'intenerisce, è il cielo azzurro di Parigi e le sue rondini). Brackett, Wilder e Reisch possono farle sfiorare il terribile ('ci sono meno russi, ma sono rimasti i migliori', fulminea evocazione delle purghe staliniane), mai il ridicolo: è la sua severa innocenza, semmai, a smontare la consueta frivolezza del discorso sofisticato.
Poi come si sa, Garbo laughs!, e quella risata, formidabile per potere pubblicitario, perfetta per la messinscena comica, è l'inizio della fine. Per la carriera di una star, e un poco anche per la vita di questo film. Una risata carica di presagi: perché Garbo poté esplodere, frangersi, accasciarsi in una mimica allegra e convulsa, ma il suono proprio non le veniva, e la questione fu risolta solo al montaggio, con la voce di un'altra. Segue l'aprirsi di Ninotchka al dolce delirio dell'amore e dello champagne, fatto anche di vignette argute (il Lenin austero della fotografia sul comodino d'improvviso sorride, come il gatto d'una striscia comica), perverse delizie (Ninotchka ubriaca, al muro le spalle orlate di chiffon, cade fucilata dal saltare di un tappo), grandi battute di voluttuosa ironia: 'Compagni! La rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma per favore, non adesso'.

Paola Cristalli, Ninotchka, in La commedia americana in cento film, Le Mani, Recco 2007