Lungo le strade perdute di Hollywood

Lungo le strade perdute di Hollywood

La strada di Fellini è uno dei miei film preferiti! A pensarci, ogni strada rappresenta un viaggio verso l’ignoto, e questo mi attira molto. Per i film è la stessa cosa: le luci si spengono, il sipario si apre e si parte, ma non si sa dove si sta andando.
David Lynch

 

Hai pensato molto a Viale del tramonto di Billy Wilder mentre scrivevi o giravi Mulholland Drive?

No. Sono sicuro che le cose che amiamo nuotino dentro di noi. E forse le amiamo proprio perché la nostra macchina è fatta in un certo modo, per cui è difficile stabilire quale delle due cose viene prima. Io amo Hollywood e l’Età dell’oro che Viale del tramonto ha immortalato così bene. Semplicemente, amo quel mondo. Lo amo. Amo la scena in cui William Holden e Nancy Olson passeggiano di notte per i set esterni dello studio cinematografico. Probabilmente nulla è mai accaduto esattamente in quel modo, ma avrebbe dovuto. Dovrebbe accadere in questo preciso momento! Lavorare tardi la notte in quelle stanze degli sceneggiatori. Dovrebbe accadere proprio ora! È semplicemente un mondo troppo bello, in ogni suo aspetto. Per cui quel film è sempre vivo, ma in realtà non ci pensavo.
Los Angeles è molto più della sola Hollywood, ma Hollywood ha un ruolo fondamentale. Ci sono un sacco di film ambientati a Los Angeles, perché è qui che lavora la gente del cinema, ma molti potrebbero svolgersi altrove. Viale del tramonto non poteva svolgersi che qui.

Nel tuo film hai inserito diverse allusioni e riferimenti specifici a quello di Wilder.

In Mulholland Drive c’è un’inquadratura del cartello stradale con la scritta “Sunset Boulevard”. Mi sarebbe piaciuto inserire un breve frammento della musica originale in quel punto. E ce n’è una del cancello d’ingresso della Paramount; ma la Paramount non permette più di mostrare il suo logo, puoi mostrare solo la parte di cancello sottostante. È una loro regola, e penso sia una regola molto stupida. Però la macchina che si vede nell’inquadratura è proprio quella utilizzata in Viale del tramonto. Credo l’abbiano trovata a Las Vegas.

Il film di Wilder è un attacco molto esplicito – anche se a volte affettuoso – a Hollywood e allo studio system con cui veniva identificato all’epoca. Mulholland Drive è stato concepito in qualche misura come una satira dell’industria cinematografica?

Mulholland Drive non parla solo di Hollywood, anche se tocca un aspetto di quel mondo. Alcune persone vi hanno trovato elementi satirici. In realtà non l’avevo pensato in questi termini, ma effettivamente c’è della satira che aleggia nell’insieme. Di sicuro non sono partito con l’idea di mettercela, ma da ogni idea si diramano molti fili.

David Lynch, La mia arte, il cinema, la vita, a cura di Chris Rodley, il Saggiatore, Milano 2016




Da Strade perdute a Mulholland Drive, il cinema di Lynch torna a produrre oggetti profondamente narrativi senza rinunciare alla sperimentazione […]. Sono di nuovo presenti, ormai come sistemi strutturali archetipici, il noir e il road movie, ma – invece di immergerli in un bagno di interruzioni, stranezze e diversioni – li si sconvolge anche da un punto di vista narrativo. È qui che Lynch, evento inedito, comincia a lavorare anche sulle convenzioni narrative classiche, non più ignorandole – come all’inizio – né mimetizzandosi – vedi The Elephant Man – bensì storcendole come nastri intricati e costituendo così un esempio di postmodernità hollywoodiana. Lo stile è elegantissimo e sempre più modellato sul cinema hollywoodiano anni Cinquanta.

Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002




Mulholland Drive
si colloca a conclusione di una ideale trilogia della strada, della connessione, forma ulteriore di una poetica dello spazio che da sempre accompagna – come interrogazione e sperimentazione – la possibilità stessa del cinema secondo Lynch. […]
Dopo la strada come detour infinito in Strade perdute, la strada come interrogazione dello sguardo in Una storia vera, la terza possibilità dell’errare filmico si concretizza in Mulholland Drive sotto la forma dello spazio dell’immaginazione come macchina creatrice di immagini. La poetica dello spazio di Lynch si sofferma ora sul set cinematografico, sulla molteplicità delle finzioni che il cinema (hollywoodiano) crea e alimenta come macchina industriale.
[…] La sequenza dei titoli di testa è in realtà composta da più blocchi. […] Mulholland Drive si annuncia dunque come film dalle molteplici dimensioni che mette in gioco gli elementi costitutivi del cinema: materialità, immaterialità, narrazione. È infatti un film sul cinema, un film che indaga il cinema in più direzioni: l’immagine-movimento come capacità di costituire (contemporaneamente) molteplici mondi che evocano allo stesso tempo il materiale e l’immateriale e il cinema come meccanismo economico, forma di potere capitalistico e straniante (una parte considerevole della narrazione ruota intorno al progetto di un film da fare). Le due dimensioni si intrecciano, si intersecano in profondità. La macchina-cinema hollywoodiana diviene il teatro, la tela dove il territorio del cinema lynchiano si dispiega come interrogazione profonda […].
Il dispiegamento di molteplici inizi rimanda dunque a una interrogazione sulle stratificazioni profonde della materia: del pensiero e dell’immagine come materialità e della sostanza delle cose. Tutto sembra dispiegarsi nel film (e nel cinema di Lynch) come produttività infinita. La realtà stessa produce incessantemente se stessa, biforcandosi, dividendosi, creando spazi, sezioni, stanze e strade.

Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004




Bisogna ulteriormente riflettere sull’espressione più vistosa della messa in scena di Lynch […]: il look dei protagonisti, le scenografie, la rappresentazione dello spazio, la scelta dei colori rimandano tutte al cinema degli anni Cinquanta. Di nuovo, ci troviamo di fronte a una scelta non dettata da sofisticate nostalgie cinefile. Mentre Steven Spielberg o Tim Burton hanno impostato e continuano a impostare il proprio cinema attraverso il confronto ludico con la storia del cinema, a David Lynch interessa più che altro la sostanza figurativa di quell’epoca, un’epoca di splendidi oggetti di design domestico, di tavole arredate da Russell Wright, di macchine cromate, di tavolini di formica, di diners con poltrone in pelle, di colori pastosi e forti, di architetture solide e sognanti, di case di provincia tutte uguali e misteriose. L’America rappresentata dal cinema americano degli anni Cinquanta, compreso quello delle commedie e dei melodrammi, costituisce un orizzonte ‘superficiale’ cui Lynch rimanda di continuo, almeno in Velluto blu, Cuore selvaggio, Twin Peaks, Fuoco cammina con me!, Strade perdute e Mulholland Drive. D’altra parte, la collocazione cronologica dei film di Lynch è sempre stata dubbia. A parte la coppia oppositiva Dune/The Elephant Man, ben definiti nel tempo (futuro e passato), le altre opere del regista rinunciano apertamente a dichiarare il periodo storico in cui si svolgono, il che porta lo spettatore a fluttuare – nel corso della stessa pellicola – dall’impressione di trovarsi negli anni Cinquanta, Sessanta o in epoca contemporanea. […]
Il rapporto tra David Lynch e la storia del cinema si costituisce attraverso elementi intuitivi di derivazione pittorica e figurativa prima che cinefila e storiografica. Questa verità, da molto tempo nota ai più attenti studiosi dell’opera del cineasta, è stata sottovalutata dalla critica istituzionale, che continua a vedere in Lynch un sagace manipolatore di memorie classiche e moderne, e ha portato a fraintendere anche Mulholland Drive, vero e proprio viaggio acefalo o a-cinefilo dentro il cuore di Hollywood e dentro le speranze segrete (e frustrate) di una giovane attrice. Come a dire: anche Hollywood, oltre che la soap opera, contiene un’anima onirica, non tanto il dream caramelloso delle starlette quanto il nightmare del lato oscuro dell’America.

Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002




Fisicamente, le due ragazze di Mulholland Drive si presentano come degli archetipi, figure senza profondità e dal fisico magnificamente disegnato che si ritrovano coinvolte in una vicenda improbabile. Betty, la bionda, potrebbe essere vista come un’eroina di serie televisive che gravita intorno a Hollywood e al mondo misterioso, per non dire perverso, del cinema. Tutto si svolge come se in un primo tempo fossimo immersi nella parte positiva del suo fantasma prima di scoprirne il rovescio terrificante e da incubo, anche se i segni dell’incubo sono già presenti allo stato latente nella prima parte. Da questo punto di vista, Betty è anche una spettatrice che vorrebbe penetrare direttamente nell’universo del suo fantasma, rompere la frontiera che la separa dallo schermo del mondo di Hollywood incarnato da Rita, la femme fatale, la reincarnazione di Gilda, l’eroina per eccellenza del film noir. Come in un’opera hitchcockiana, Betty è con tutta evidenza la nostra sostituta, quella per mezzo della quale il film accade e attinge, sulla scorta del suo svolgimento labirintico e sensuale, dalle zone più profonde del nostro cervello, dapprima innocente in un mondo virtualmente colpevole, e poi colpevole in un mondo corrotto.

Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, Parigi 2010




Se, nella letteratura critica, il noir è da sempre considerato uno dei generi che più facilmente ospitano una crisi delle coordinate spazio-temporali e una certa predisposizione all’onirico, il cinema di Lynch sembra il più adatto a dialogare con tali costanti. Ciò è ancor più vero considerando la caratteristica principale dell’onirismo del noir, che è quella di incrinare i piani dell’oggettività per segnalare che ciò cui assistiamo potrebbe non essere vero. In buona sostanza, il noir mette in dubbio, più di ogni altro genere, la credibilità del racconto cinematografico. […] Questo fertile humus, su cui poter impiantare la paradossale lezione surrealista in una nuova fusione narrativa, deve aver convinto Lynch che il noir potesse essere davvero il genere inglobante di una nuova svolta figurativa – dimostrata platealmente dagli ultimi film – e di un repertorio del quale enfatizzare l’aspetto del mistero e far giacere quello della soluzione. […]
Rimane, a seguito del discorso sul noir, un ultimo palinsesto da svelare, una presenza che sembra contagiare persino l’inscalfibile Lynch: Alfred Hitchcock. […] Lynch sembra anche in questo caso accoglierlo nel proprio mondo perché è naturale che sia così. In fondo, anche Hitchcock è un regista degli anni Cinquanta americani, e ha contribuito a costruire le forme di rappresentazione – stilistica e tecnica – cinematografica dell’epoca. Inoltre, nella poetica lynchana, dove lo sguardo, l’opacità o la trasparenza del vedere assumono una tale importanza, il canone hitchockiano sembra essere inevitabilmente presente. Lynch diventa uno dei più straordinari dissimulatori di Hitchcock del cinema moderno: a cominciare da Velluto blu, dove Jeffrey costituisce un anti-James Stewart che, parimenti portato al voyeurismo, abbatte però anche l’ostacolo che lo frappone al vero oggetto del desiderio, cioè una sessualità clandestina; per giungere ai film gemelli Strade perdute e Mulholland Drive, dove l’indeterminatezza della bionda e della mora, nel primo caso coincidenti, nel secondo drammaticamente lacerate, riportano platealmente a un immaginario noir e, più direttamente, a La donna che visse due volte. Non c’è nemmeno bisogno di ascoltare le parole di Lynch per capire che si tratta del film di Hitchcock prediletto dall’autore americano, sia perché imposta oniricamente un plot che viene subordinato al tema della necrofilia, sia perché è quello in cui la vertigine dei protagonisti, tematica e simbolica, si riflette più prepotentemente nella messa in scena.

Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002