La mente che cancella

La mente che cancella

Streets are uneven when you're down
The Doors. People are strange

 

Mulholland Drive, uno degli indiscussi capolavori della fase matura dell’arte di David Lynch, nonostante e forse proprio attraverso l’ormai celebre ‘enigmaticità’ della sua struttura, possiede tutti gli ingredienti del ‘romanzo dell’abbandono’, esaltati da un’atmosfera noir particolarmente in sintonia con un progetto narrativo così centrato sui sentimenti. Perché il noir non è solo un genere di narrazione che fa perno sul delitto, sulla colpa, sul mistero: al suo interno, si agita sempre Eros, con la sua cieca forza distruttiva e i suoi labirinti di passioni.
Comunque si voglia rendere conto della trama di Mulholland Drive, risulta sempre più chiaro, via via che film procede verso la sua conclusione (o retrocede, se si preferisce, verso il suo punto di partenza), che Lynch ha immaginato uno spazio onirico, o uno spazio immaginale, muovendo da una catastrofe sentimentale, dalla perdita di un Eden amoroso. Due donne bellissime si amavano, fino al giorno in cui una delle due ha messo fine alla storia, imboccando una strada nuova, e lasciando l’altra sulla sua spiaggia solitaria, nello strazio interminabile dei suoi giorni dell’abbandono. All’inermità e alla fragilità assolute dell’abbandonata corrisponde, all’altro polo del legame infranto, quella specie di onnipotenza divina e sublime indifferenza al dolore causato che sempre caratterizza (nella comune esperienza come nella rappresentazione artistica) colui, o colei, che si rende responsabile dell’abbandono – che volta le spalle.
Questo squilibrio dei poteri è probabilmente il nervo più sensibile di ogni storia d’abbandono. Non a caso sia Teseo sia Giasone, i grandi ‘abbandonatori’ del patrimonio mitologico, possiedono tutti i crismi del potere: sono eroi, uccisori di mostri e fondatori di città. Mentre Arianna e Medea, dopo aver contribuito in maniera decisiva alla loro affermazione, vengono ricacciate, come nemici sconfitti, nella solitudine e nello sconforto, ostaggi dolenti del loro desiderio di morte. Lynch manipola questo schema classico, per tutta la prima parte del film, raccontando una storia che altro non è che un rigoroso meccanismo di compensazione. Assistiamo, insomma, a una vicenda che è l’esatto contrario di quanto avviene nella realtà: l’illusione realizza l’impossibile e il potere torna completamente nelle mani della persona abbandonata.
A me sembra abbastanza ovvio che quello che vediamo nella prima parte di Mulholland Drive sia un sogno. E non per questa o quella ‘stranezza’ da identificare, abbastanza ingenuamente, con un vago ‘clima onirico’. Semmai, è il rigore geometrico del rovesciamento, l’infallibile simmetria del meccanismo di compensazione, a renderci certi che il racconto che seguiamo proviene dal regno dei sogni. Solo nel sogno, infatti, immagine speculare e rovesciata dell’esperienza, l’essere abbandonato perde l’aura della derelizione, e incontra di nuovo la persona amata, piena ancora di tutto il suo fascino, ma privata dell’esercizio del potere. [...]
Fra tutte le idee che formicolano in Mulholland Drive, questa mi sembra la più poetica. Il sogno che si svolge davanti ai nostri occhi sembra realizzare (e nella sua particolare dimensione, effettivamente realizza) il desiderio più acuto e struggente di ogni Arianna, di ogni essere abbandonato: l’apertura di una nuova possibilità, un borgesiano ‘sentiero che si biforca’ lungo il quale l’altro, colui che fugge e ci volta le spalle, ha di nuovo bisogno di noi, ha bisogno delle nostre cure, e dal cerchio di questa protezione, ovviamente, non vorrà né potrà più uscire.

Emanuele Trevi, Raccontare l’abbandono, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso ‘Mulholland Drive’, Il principe costante, Pozzuolo del Friuli 2004




In Mulholland Drive, la scissione dei corpi, la moltiplicazione dei personaggi assume diverse forme: dal passaggio continuo degli stessi corpi (o degli stessi nomi) in altri corpi (e altri nomi) – Rita diventa Camilla, Betty diventa Diane, ma Rita non si chiama Rita e Betty (non) è Diane –, al passaggio di diversi corpi che hanno la stessa voce. Nella sequenza del casting, in cui il regista deve far finta di scegliere la protagonista del film (che in realtà gli è stata imposta dalla produzione), differenti attrici interpretano in play-back la stessa canzone: i corpi vanno, la voce resta. Nella scena all’interno del club Silencio Rebekah del Rio interpreta in play-back la versione spagnola di Crying di Roy Orbison (Llorando); ad un certo punto crolla a terra sul palco, mentre la (sua?) voce continua a diffondersi nel teatro. Soprattutto, il circolo senza fine dei corpi permette a Betty/Diane di incontrare il (suo?) cadavere in decomposizione in una delle scene centrali del film. Paradosso logico, paradosso dell’unicità dei corpi e dei soggetti. Ed è in questo momento che Betty e Rita, fuggendo dalla casa dove hanno appena scoperto il cadavere corrono dritte verso la macchina da presa, urlando. L’immagine trema, i loro volti fremono per un effetto, dell’immagine e sembrano sdoppiarsi. Il piano illusoriamente lineare e distinto del reale inizia a frantumarsi, a mostrare una frattura. Lynch moltiplica iperbolicamente la possibilità per i corpi e i soggetti, non solo di generarsi, ma di frammentarsi e moltiplicarsi all’infinito.
Se questo può però essere visto (e lo è stato) come una resa cinematografica di un mondo onirico, c’è da dire che in Lynch il sogno non interviene come oggetto della narrazione filmica, ma come elemento espressivo. L’uso del mondo psichico in Lynch non costituisce un allontanamento dal reale, ma una possibilità in più di penetrare in esso: la potenza del cinema è quella di rendere concreti i sogni, afferma il regista.

Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004




In Mulholland Drive, il nesso interno/esterno è scollegato da molteplici espedienti: ad esempio, il sentire di un personaggio viene rappresentato spesso attraverso la percezione invisibile del suo corpo, come nelle soggettive ondeggianti che legano uno sguardo a una presenza corporea (una massa, un movimento), ma la lasciano fuori campo (Dan che si incammina fuori dal Winkie’s verso l’uomo che lo terrorizza, oppure Betty e Rita che si avviano verso l’appartamento di Diane) […].
Quanto a Rita, il suo esterno, a causa dell’amnesia, è completamente scollegato dal suo interno, che le è appunto ignoto. Rita si porta in giro un corpo che potrebbe appartenere a chiunque e che in quanto rappresentazione, immaginario, appartiene solo agli spettatori: la sua identità oscilla fra pittura e cinema, cioè fra l’ideale cinquecentesco della sensualità femminile (la Beatrice Cenci di Guido Reni, donna sospesa fra storia e leggenda, nel quadro che si intravede più volte alle pareti della casa di zia Ruth), e il mito hollywoodiano della femme fatale (il poster di Gilda, appeso in bagno, al quale si ispira per darsi un nome).
Ma il corpo di Rita non è propriamente falso, bensì neutro, è materia inerte ancora priva di una forma. La Hayworth è il primo modello che tenta di riempire questo vuoto di senso, Betty il secondo. Infatti, appena uscita dalla doccia, Rita si stende sul letto e Betty la copre con una vestaglia sulla quale è appuntato un vistoso biglietto di carta su cui si legge “Enjoy yourself, Bettie. Loves. Aunt Ruth” (“Divertiti Bettie, con amore, zia Ruth”; il dettaglio è abbastanza insistito). L’indumento è dunque destinato al corpo di Betty, ma a indossarlo sarà Rita in varie scene domestiche. Si insinua così l’idea che i due corpi siano intercambiabili, l’uno il riflesso speculare dell’altro, come del resto si evince da una ricorrente inquadratura del film, che affianca sempre le due attrici in primo piano o mezza figura: lo sguardo rivolto dalla stessa parte, le teste quasi unite a formare un leggero angolo, come se fosse il punto di rifrazione di un corpo a contatto con uno specchio

Barbara Grespi, Mulholland Drive, in David Lynch, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 2008