Doppio, impossibile, perturbante

Doppio, impossibile, perturbante

Come postmoderno o pornografico, lynchiano è una di quelle parole alla Potter Stewart che si possono definire solo ostensivamente, cioè lo capiamo quando lo vediamo.

David Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)



A scatenare il furore critico internazionale, è stata in primo luogo la struttura enigmatica del film in cui, come nel precedente Strade perdute, i personaggi possiedono identità multiple e il racconto si sviluppa su diversi piani non sempre ricomponibili. Mulholland Drive vi aggiunge una spiccata vocazione oggettuale (il tratto che più avvicina Lynch a Hitchcock), a rafforzare da un lato il carattere onirico della storia, in cui chiavi, lampade, borse, scatole blu, tazzine da caffè, barattoli di vernice fluttuano come sintomi di un altrove quantomeno psichico, dall’altro il suo carattere espositivo, vicino all’installazione d’arte contemporanea. La questione essenziale è che a un certo punto le due protagoniste, Betty Elms e Rita, due giovani donne legate da una relazione sentimentale sullo sfondo dello sfavillante e grottesco universo di Hollywood, diventano l’una Diane Selwyn e l’altra Camilla Rhodes; siamo ancora a Hollywood, ma il loro rapporto si è sostanzialmente rovesciato. Si tratta di due mondi diversi, qualunque cosa essi siano, e a collegarli è un piccolo cubo blu che Rita tiene in borsetta e che una volta aperto con una misteriosa chiave dissolve una realtà e conduce nell’altra.
[…] quasi tutte le analisi concludono che l’essenza del film, la sua qualità estetica, risiede in ciò che sfugge alla logica: un dettaglio, una percezione, un’incongruenza irriducibile che costringe a ricominciare tutto dapprincipio. […] È la dimensione del perturbante freudiano: il ritorno del familiare, del domestico e dell’intimo in una versione ignota, lugubre e sinistra. Un effetto che per Freud si produce attraverso la ripetizione, strategia chiave del film: scene che tornano (il viaggio in auto, il provino, il Winkie’s), immagini sdoppiate (il jitterbug iniziale, i volti delle donne all’uscita dalla casa di Diane), frasi che riecheggiano (“È lei la ragazza”), figure del doppio (i riflessi speculari, il travestimento di Rita in Betty). La ripetizione produce uno stato di insicurezza perenne, che appunto corrisponde all’indecisione strutturale dello spettatore di fronte a un mondo incerto fra la realtà e il suo doppio fantasmatico.

Barbara Grespi, Mulholland Drive, in David Lynch, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 2008




Per Unheimliche dobbiamo intendere “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare". In altre parole, perché si possa parlare di perturbante non basta che ci si trovi in presenza di qualcosa che ci appaia ignoto, e dunque non familiare; occorre anche che questo ‘non noto’ venga da noi percepito come appartenente ad un ambito che invece conosciamo benissimo, e che pertanto ci è del tutto familiare. […]
Lynch non mostra, ma al contrario nasconde; non dice, ma allude, non spiega, ma all’opposto propone enigmi, soprattutto, non fornisce risposte agli interrogativi dello spettatore, di fronte al quale, invece, riattiva costantemente problemi. Ne scaturisce un film che può essere descritto davvero come quella continua alternanza tra familiare e non familiare, della quale parla Freud con riferimento al perturbante. Un film nel quale non ci sentiamo mai definitivamente ‘a casa’ (heimisch) e ‘non a casa’ (unbeimische), nel quale riaffiora costantemente lo spaesamento di scoprire che ciò che credevamo essere del tutto chiaro e conosciuto, si rivela invece per essere oscuro e ignoto, nel quale nessuna conclusione ‘logica’ appare definitiva, nessun punto di approdo risulta essere davvero conclusivo, in un riaprirsi interminabile della vicenda, e del pathos che l’accompagna.

Umberto Curi, Il perturbante e l’enigma, in “Iride”, n. 3, 2002




Si tratta di due opere [Strade perdute e Mulholland Drive] chiaramente spaccate a metà, specie la prima, dove la ‘sostituzione’ del personaggio porta a un’inversione di tutte le caratteristiche figurative e narrative della pellicola. Come per Full Metal Jacket, come per The Blackout, tutte le volte che ci si trova di fronte a film bipartiti ci si chiede se una delle due parti abbia maggiore importanza o quale delle due, come nel caso di Ferrara, vada considerata autentica. Come abbiamo visto, quasi tutte le migliori letture dei film di Lynch ammettono la possibilità che una delle due sezioni dell’opera appartenga alla fantasia allucinata (pre-morte) del o della protagonista. In questo caso, a rigore, dovremmo ricostruire gli eventi del film nel loro svolgersi cronologico anche se essi prendono corpo dalla mente di un personaggio. Il momento in cui il personaggio ‘immagina’ è pur sempre temporalmente collocabile rispetto agli altri eventi della trama. Di qui l’importanza, almeno da un punto di vista analitico, di identificare per quanto è possibile la successione degli avvenimenti e, per ciò che concerne questi due film specifici decidere quale delle due parti sia da considerarsi reale e quale frutto di un delirio. […]
Strade perdute e Mulholland Drive possiedono, notoriamente, una struttura circolare, anche se i tasselli cronologici del racconto sono tutt’altro che disposti in una sfera perfetta. Strade perdute finisce dove comincia: tuttavia la fine potrebbe semplicemente essere interpretata come il delirio di un protagonista che arriva a rileggere tutti gli avvenimenti in modo ‘spersonalizzato’. […] Mulholland Drive, similmente, comincia dove finisce ma non può essere considerato un film circolare, neanche al modo postmoderno e consapevole di Pulp Fiction o Prima della pioggia. La circolarità è quindi frutto di un décalage piuttosto che di una tensione verso la simmetria e l’ordine. Il mistero e il caos ‘fruttano’ il ritorno al medesimo senza ordinare, né logicamente né strutturalmente, la storia e il mondo.

Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002




Mulholland Drive
è anche un nuovo avatar del nastro di Möbius caro a Lynch, una forma che troviamo abbozzata in Velluto blu e sviluppata una prima volta in Strade perdute. Le due parti del nastro girano su se stesse come le due facce interscambiabili di un’unica e medesima realtà, e la fine raggiunge l’inizio in una circolarità infinita. Qualcuno potrebbe dire che una delle due facce rappresenta il sogno e l’altra la realtà, ma anche il contrario potrebbe risultare vero. Di nuovo, la dualità dei personaggi femminili, che ritroviamo alle prese con altri ruoli all’interno dell’ultima parte del film, rimanda direttamente a questa forma affascinante come un cervello i cui due emisferi si rispondono incessantemente. Come già Strade perdute, ma questa volta in modo ancora più sottile, il film richiede allo spettatore un duplice approccio: da un lato lettore di immagini e interprete di segni; dall’altro sensore privilegiato di ambienti, atmosfere e di tutti gli altri flussi che la messa in scena non fa che costantemente evocare. C’è in Mulholland Drive un aspetto da film ambient, nel senso che è la creazione di ambientazioni incredibilmente sofisticate e la costante fluidità del loro concatenarsi a essere l’oggetto della percezione dello spettatore. Ciò che porta spesso a far credere che tutto è mistero, che nulla è razionale, esplicabile, e che si tratta solo di lasciarsi trasportare dalla pura sensorialità. In realtà questa dimensione sensoriale, per quanto fondamentale, non deve mai far dimenticare che il film è anche un testo che occorre leggere e interpretare. È proprio nell’ambivalenza tra questi due poli apparentemente contraddittori che si inabissa o scivola Mulholland Drive, oggetto al tempo stesso razionale e inafferrabile.
Tutta questa costruzione alambiccata, questo gioco di ruoli, non sortirebbe però alcun effetto se il film di Lynch non fosse, prima e soprattutto, una straordinaria riflessione su Hollywood, sul mestiere e la recitazione d’attore, e più di tutto, una bellissima storia d’amore tra due donne, di un lirismo che non trova praticamente eguali nel cinema contemporaneo.

Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, Parigi 2010