Antologia critica

Antologia critica

Il male è l’ossessione del cinema di David Lynch: ed è il male, il male d’America, il nodo che stringe l’enigmatico, impressionante Mulholland Drive, ultima fatica del regista di Cuore selvaggio. […] Barocco, magmatico, ricco di simboli sensuosi e sibillini, dominati da una mano che fin troppo sa dipingere ombre e chiarori, fantasmi e corpi caldi di passione, Mulholland Drive ha la ribalda evidenza di un racconto di Poe. Il male, segno di un inferno scaraventato nella vita di una comunità, è ossessione del tutto americana, appunto fin da Poe e da Hawthorne. Il paese del Destino Condiviso, dove tutti sono indirizzati a realizzare un bene dai riconoscibili e positivi contorni, è poi un paese dove il male può annidarsi persino nel sorriso d’una coppia di pensionati, marito e moglie, felici di dare il viatico a Betty raggiante d’essere arrivata, finalmente!, nella Mecca del Cinema. Il male è annidato nella medesima american way of life: e solo un americano lo può individuare con tanta sicurezza e così religioso terrore. Lynch cerca di scantonare dal rischio d’una personale ideologia: pare volersi fermare agli interrogativi dell’esistenza senza dare loro risposta. La vita, sembra dirci, è straordinariamente mutevole: non bisogna oltrepassarne la soglia sfuggente, ambigua. Ma poi ci porta oltre, in uno spazio di commossa, disperata, vera tragicità.

Enzo Siciliano, “La Repubblica”, 15 febbraio 2002




Mulholland Drive
è un giocattolo, niente di più, ma lo erano anche i romanzi di Dick. E d’altra parte è attraverso il gioco che si apprende. Ma cosa si apprende da Mulholland Drive? Semplicemente il limite stesso della comprensione. Mulholland Drive è un film che non vuole essere capito. Svelarlo e comprenderlo vuol dire, in nuce, tradirlo. La trama del film è semplicemente non riproducibile a parole. Chi ci si mettesse, si perderebbe nel labirinto di situazioni e immagini che collidono e che si contraddicono, immagini che seguendo un andamento temporale e logico, che nulla hanno a che fare con il tempo e la logica, quella degli esseri umani, quella svelata dalla ‘ratio’ umana. Questo, come gli altri film di Lynch del genere, non chiedono nulla alla umana comprensione. Sono bensì un appello a lasciare andare gli ormeggi e a dondolare su altre onde, ben più scure e ben più profonde. Non c’è nulla di reale in Mulholland Drive. Solo apparenze da un altro mondo, invisibile e impalpabile.

Dario Zonta, “Duel”, n. 94, febbraio 2002




Mulholland Drive
non è un film incomprensibile, come è stato detto, anzi la storia appare tutto sommato semplice e ricostruibile. La fabula, intendo. Una giovane donna di nome Diane, arrivata a Hollywood per tentare la carriera di attrice, si innamora di Camilla, che ha più fortuna di lei nell’ambiente e che in un primo momento la ricambia; quando poi quest’ultima si mette con un giovane regista di grido e ha tutta l’aria di volerla ormai scaricare, Diane, in preda a gelosia e disperazione furibonde, assolda un killer per ucciderla; a omicidio compiuto, travolta dal senso di colpa e dalla convinzione di essere già una fallita, ‘bruciata’, dopo un lungo sogno in cui ha rivissuto la storia con Camilla in un trionfo di sostituzioni, condensazioni, transfert, premonizioni e qualcosa d’altro, incalzata dai suoi fantasmi si uccide. Questi i fatti, ma naturalmente mi guardo bene dal dire che sia tutto qui, e dal ritenere che non ci siano elementi eccedenti a questa razionalità narrativa.

Adriano Piccardi, “Cineforum”, n. 413, aprile 2002




Rispetto a un Bergman – Mulholland Drive è evidentemente la versione XXI secolo di Persona e Il silenzio – Lynch se ne infischia esplicitamente della cultura intesa come giustificazione per l’arte. La cultura cinematografica ha regolarmente assolto Bergman perché il maestro, dentro i suoi incubi, intendeva alla fine del tunnel far brillare la luce dell’anima. Il viaggio intrapreso in Mulholland Drive non ha nulla a che fare con l’anima, è un viaggio nella mente.

Flavio De Bemardinis, “Segnocinema”, n. 114, marzo-aprile 2002




Mulholland Drive
è la storia di un amore impossibile, ambivalente, a un tempo vitale e mortale. Tutta la prima parte, che potremmo definire euforica, racconta come nasce e cresce questo amore, fino al punto culminante della dichiarazione notturna (il sublime “Sono innamorata di te” di Betty), prima che esso riveli il veleno che porta nel suo stesso seno, la sua parte d’ombra, d’incubo. Ogni elemento è ripreso con un movimento accelerato, ma in una tonalità morbosa. In questo imbroglio, il regista del film – che non va in nessun caso identificato con Lynch, che è piuttosto il suo opposto – svolge un ruolo decisivo, al tempo stesso specchio vanitoso di quell’industria del sogno nella quale Betty vorrebbe così intensamente immergersi e vittima egli stesso di quel sistema di cui è a un tempo riflesso derisorio e ingranaggio servile, vale a dire tutto l’opposto di un regista vero e proprio: qualunque sia la porta che si apre per entrare in Mulholland Drive, si ricade sempre nella dualità. Da questa dualità – insieme forma, sfondo, soggetto, oggetto del film di Lynch –, nasce una fascinazione che spiega inequivocabilmente l’influenza che Mulholland Drive ha esercitato sui suoi spettatori, aspiranti cineasti, internauti cinefili o semplice pubblico. Il film ha originato un’autentica passione per la sua decifrazione, per la sua interpretazione, una sorta di follia ermeneutica senza uguali nel cinema contemporaneo. Una prova ulteriore della potenza artistica di un cineasta che, pur mantenendo segreto il mistero della sua opera, ha saputo aprire una moltitudine di porte ai suoi spettatori, che si sono lasciati catturare con un evidente piacere.

Thierry Jousse, L'amour à mort, “Cahiers du cinéma”, n. 562, novembre 2001




Si tratta, per Lynch, in questo film che è il più en abyme che abbia mai fatto, di giocare con il cinema per constatare, come stupefatto, che esso continua a ‘funzionare’. Mulholland Drive abbonda in effetti di scene che, per come Lynch le ha realizzate, sembrano ogni volta ‘testare’ il potere continuamente rinnovato di un piano soggettivo – piani soggettivi sobbalzanti in un modo molto particolare, e che talvolta funzionano da soli, senza un personaggio che li motivi. Testare il potere di un controcampo, testare il fatto che il fuori campo al cinema permette di far sparire qualcuno in un secondo e che ciò funziona, ed è assoluto (la scena della sparizione di Betty e Rita nell'appartamento della zia, che mette paura); testare inoltre, evidentemente, il potere che hanno i suoni di scavare nell'immagine un vuoto, un'attesa, e di darle impulso [...].
Come un grande jeau de piste, Mulholland Drive abbonda di oggetti e segni misteriosi. Il cinema è una forma d'espressione tale che non importa che cosa, nell'opera, potrà costituirne la chiave definitiva, il dettaglio significante, il punto in cui le cose si chiarificano: qui, la ‘parola d'ordine’ del film è, di volta in volta, una misteriosa scatola cubica, una chiave blu triangolare, un'altra chiave blu ma piatta, il nome di una strada, il cartellino di una cameriera, una ripetizione, “This is the girl”, e così via. La proliferazione delle direzioni, come in Twin Peaks, si accompagna a una proliferazione delle figure di ‘passatori’, di ‘maestri’ (l'impagabile Cowboy, i due registi, il giovane e il vecchio), di ‘padrini’, ecc.
Non voglio suggerire, affermando questo, che si tratta di un film «ludico», per impiegare questo aggettivo alla moda. È un film dove si è sulla frontiera tra il ‘per gioco’ e il ‘per vero’, ed è molto serio.

Michel Chion, Mulholland Drive. Play It For Real, “Positif”, n. 490, dicembre 2001




Tre grandi tipi di interpretazione hanno prevalso. Prima di tutto, un'ipotesi pirandelliana, borghesiana o oulipiana, come si vedrà. Il film sarebbe un cubo di Rubik, una scatola popolata di marionette che si agiterebbero improvvisamente, come si fa con un caleidoscopio, riconfigurando elementi, corpi e ruoli. Questa tesi ha il vantaggio di essere la più elastica, ma conduce a due cul-de-sac. In un caso, assistiamo all'incoronazione di un Lynch illuminato: in questo caso, si regredisce nella religiosità del genio romantico (e della sua sopravvivenza moderna, il surrealismo), che dona troppo potere all'autore e ne toglie altrettanto all'opera. Il secondo cul-de-sac ha a che fare con la sempiterna mise en abyme e fa riferimento al nastro di Moebius – il culto è prima di tutto una mistica dell'hobby, in questo caso l'origami. L'incantesimo del doppio fondo riduce il film a un rompicapo cinese o alle coppie tipiche della ‘virtualizzazione’ – illusione/realtà, virtuale/reale: cerniere grossolane che non fanno che mantenere intatta la nevrosi del realismo.
La seconda grande famiglia di ipotesi è piuttosto d'ordine mentale o neurologico. La follia: il film dà a vedere il delirio schizofrenico di un personaggio, verosimilmente Betty/Diane (era già l'interpretazione più diffusa a proposito di Lost Highway). Il sogno: ipotesi maggioritaria e di fatto la più ‘coerente’. La prima parte sarebbe il sogno troppo luminoso di una Diane depressa, scaricata da Rita a vantaggio di Adam. Esso riconfigura tutte le tappe del dramma della separazione e dell'uccisione di Camilla, che Diane ha commissionato [...] L'ipotesi tiene, funziona, ma davvero non si può andare oltre?
Infine, terzo tipo di interpretazione: spiritica o esoterica. Il fenomeno che Mulholland Drive descrive s'apparenta all'apparizione spettrale (Rita e Betty potrebbero essere dei fantasmi, la prima morta durante l'incidente, la seconda in putrefazione sul suo letto), alla possessione (Betty ossessionata dall'uomo del Winkie's), o alla reincarnazione (lo spirito di Betty si proietterebbe nel cadavere del bungalow). Altre declinazioni possono ricondurre alla teoria della trasmigrazione, che designa la capacità di un'anima di passare da un corpo all'altro, senza obbligatoriamente passare per la fase della morte.

Hervé Aubron, Mulholland Drive. Dirt Walk With Me, Yellow Now, Crisnée 2006




La storia non è lineare in Mulholland Drive, ritorno convincente ma volutamente oscuro del ‘bizzarro’ David Lynch che farà felice lo zoccolo duro dei suoi fan anche se darà loro dei bei grattacapi. Dopo aver preso forma metodicamente per un’ora e tre quarti fino a livelli irresistibili di intensità emotiva e fascinazione narrativa, il film compie una svolta inaspettata e indesiderata in una strada perduta senza mai far ritorno sulla via principale. Tutto quello che possiamo fare è alzare le spalle e accettare perché questo è Lynch, non è uno che dà spiegazioni o collega tra loro le cose.

Todd McCarthy, “Variety”, 16 maggio 2001




È un sogno surrealista in forma di noir hollywoodiano, e meno capiamo più non riusciamo a smettere di guardarlo. Racconta la storia di… beh, non si può concludere questa frase. Ci sono due personaggi, Betty e Rita, che il film segue attraverso misteriosi passaggi narrativi, ma alla fine del film non siamo più nemmeno sicuri che si tratti di personaggi diversi […]. Il film è ipnotico; siamo trascinati come se una cosa conducesse a un’altra – ma nulla conduce da nessuna parte, e questo ancora prima che i personaggi inizino a scindersi e ricombinarsi come carne in un caleidoscopio. Mulholland Drive non è come Memento, dove se si guarda attentamente si può sperare di spiegare il mistero. Non c’è spiegazione. Forse non c’è nemmeno il mistero. Ci sono innumerevoli sequenze oniriche nel film […]. Mulholland Drive è tutto un sogno. Non c’è risveglio. Come nei sogni veri, non spiega, non completa le sequenze, si sofferma su ciò che è affascinante e scarta le linee narrative poco promettenti. […] Tutto questo funziona perché Lynch è assolutamente intransigente.

Roger Ebert, “Chicago Sun-Times”, 12 ottobre 2001




Dopo sedici anni, il macabro mistero di David Lynch s’impone ancora nella sua sinistra modernità senza tempo: non è invecchiato, nonostante o grazie al suo ambiguo status di film d’epoca ambientato in un’era di telefoni fissi e a gettoni (esistevano già i cellulari quando il film fu realizzato e dovrebbe svolgersi nel presente, ma potrebbe essere ambientato negli anni Quaranta).
Mulholland Drive è brillante e inquietante come nessun altro film di Lynch. È folle, lucido, strano, opprimente, ma con una potenza erotica e una dimensione umana che Lynch non ha mai trovato altrove. È una fantasia d’illusione e identità, una riflessione sul mistero dei ruoli nell’arte e nella vita: l’importanza fondamentale di trovare il ruolo giusto.

Peter Bradshaw, “The Guardian”, 14 aprile 2017