Antologia critica

Antologia critica

Mouchette non ha proprio, ab origine, la veste strutturale del “mistero”, e non stupisca l'ostinazione con cui la confrontiamo sistematicamente con Au hasard Balthazar: siamo indotti a farlo dalle dichiarazioni di Bresson, che ha parlato di un «dittico» indiscindibile, sia dall'obiettiva constatazione delle strettissime correlazioni interne che apparentano i due film. Alcune le abbiamo già indicate: il comune ambiente rurale; la quasi comune età anagrafica delle protagoniste; il dato comune della disgregazione socio-familiare. Un'altra è data dalla comunanza di un interprete, il non-attore (e lo è davvero, nella sua perfetta atonia, mentre Nadine Nortier è più “attrice” di quanto dovrebbe) Jean-Claude Guilbert. È l'unico caso in tutta la filmografia di Bresson, e avrà pure un significato: oltretutto Guilbert dà vita allo stesso “tipo” di personaggio, in Au hasard Balthazar l'alcolizzato ed emarginato Arnold, in Mouchette l'alcolizzato ed emarginato Arsène (persino i due nomi sono omofoni), entrambi circonfusi da un alone fascinoso, un alone di torbida grandezza.
Resta ora da valutare Mouchette in persona, Mouchette “prigioniera”, come tutti gli “automi” bressoniani, di quella sua persona (latinamente: maschera) sgraziata, che la rende così aliena, così antagonistica, così irriducibile, alla stregua di tutti i personaggi bressoniani. A meno che l'essere sgraziata, l'essere letteralmente senza grazia – la grazia delle movenze e delle attitudini e la Grazia tout court – non sia la causa ma l'effetto. Nel suo caso, infatti, l'essere una révoltée, l'essere una diversa, inconciliabile sia con le buone maniere sia con i codici di comportamento abituali, l'essere un'asociale e una selvaggia, sono tutti fattori riconducibili deterministicamente alla race e al milieu.

Sergio Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma, Le Mani, Genova 1998




Mouchette è un film che lascia lo spettatore ammutolito. Realizzato in co-produzione con l'ORTF, ha una struttura più compatta e lineare rispetto agli altri film di Bresson. Sembra un'illustrazione pura e semplice (a uso del pubblico televisivo) del racconto di Bernanos. Il dualismo parola-immagine (realtà muta-realtà che parla) così evidente negli altri film risulta qui attutito e quasi assorbito dall'aspetto disadorno delle cose che occupano per intero lo schermo e si impongono allo spettatore con la forza ineluttabile del loro esserci. Eppure, anche se nascosto, il dualismo c'è. Assomiglia a quello di Balthazar. Da una parte, l'asino, dall'altra, il mondo degli umani. Qui il raffronto procede alla stessa maniera. Solo che al posto dell'asino, che non reagisce, c'è una ragazzina che, in qualche modo reagisce. A differenza dell'asino, che arriva alla fine dei suoi giorni restando perfettamente uguale a se stesso nonostante le disavventure nelle quali si imbatte, Mouchette, non più bambina e non ancora donna, non può restare quella che è. Deve cambiare. Trasformarsi. Evolversi. Adattarsi alle regole della vita. Imparare ad attaccare e difendersi, a dissimulare e a nascondersi. I casi sono due: o si adatta a vivere in questo mondo, dominato dall'astuzia e dalla menzogna, o se ne va. Conserva la vita a prezzo di ciò che ha di più prezioso, la propria integrità personale, oppure lascia la vita per restare fedele a se stessa.

Virgilio Fantuzzi, L'anima nella prigione. Osservazioni sul cinema di Bresson, in Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovanni Spagnoletti e Sergio Toffetti, Lindau, Torino 1998




Di fatto, il suo lato infantile si manifesta attraverso alcuni dettagli tipici: il suo modo di versare il caffellatte nelle scodelle messe l'una vicino all'altra senza alzare la caffettiera; i suoi pianti a scuola quando non riesce a cantare correttamente; la sua felicità sull'autoscontro; quando va a messa, sguazza con gioia nelle pozzanghere infangate. Ma a casa sua sostituisce la madre ammalata accudendo il bambino e i due uomini ubriachi, mentre la domenica aiuta anche a servire all'osteria del villaggio. La prima volta che viene trattata da adulta, è la notte del temporale, quando Arsène ha fatto a botte con Mathieu. Chiedendole di non dire che lui e lei sono stati nel bosco ma che invece si sono incontrati sulla strada, Arsène le chiede insomma di essere sua complice: quindi non è più una bambina.
(…) Questa volta l'assonometria è tracciata a partire da un materiale decisamente naturalista: povere catapecchie di un villaggio morto, sordida stanza dove la famiglia di Mouchette – cinque persone – è schiacciata dalla miseria e dall'alcol. L'individuo non si rifugia più nella preghiera, nemmeno nella cultura dell'infelicità, ma sprofonda nel liquore al ginepro: l'osteria non è mai vuota. Arsène, Mathieu, il padre e il fratello sono tutti ubriaconi. La ragazzina stessa riceve la domenica un bicchierino come salario e la madre agonizza con la bottiglia in mano. Nessuno trova gioia, nemmeno oblio, ma ormai solamente il sonno della morte. Il neonato non è in grado di rappresentare la speranza: fratellino innocente intrappolato fra una madre ammalata, un padre e un fratello rozzi, una sorella che non capisce niente, non può far altro che piangere senza sosta. Ma è se non altro causa della bellissima scena metaforica nella quale Mouchette, accorgendosi che il biberon è freddo, tenta di scaldarlo sul suo petto.
(…) Il cuore del film dai tratti buñueliani all'opposto del giansenismo è filmato in tutta la sua durata reale senza alcuna frammentazione. D'altra parte, la vicenda narrata nel brevissimo libro di Bernanos si svolge tutta in poche ore, dalla sera, dopo la scuola, al giorno seguente verso la fine della mattinata. Ora, pur non essendo cronologicamente molto preciso, l'adattamento di Bresson suggerisce invece alcune giornate, forse anche di più. Dunque non si è limitato a riprendere la storia tale e quale ma, al contrario, l'ha sviluppata pur restandole fedele. Ambientato nel Nord dallo scrittore, alla fine degli anni Trenta, il racconto è uscito dal grigiore per essere ricollocato nel Vaucluse dove si stagliano i duri contrasti del Sud della Francia, sebbene la lunga scena principale e centrale sia notturna. Attualizzando la storia, Bresson ha anche ritratteggiato un po' ogni situazione e ogni personaggio, tanto più che non vi è come nel Diario di un curato di campagna la voce fuoricampo che lega l'insieme. Tutto viene mostrato dall'esterno, cosa estremamente difficile perché il cammino di Mouchette è anch'esso interiore, pur se meno ragionato di quello del curato d'Ambricourt.

René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini & Castoldi, Milano 1998

Come un'altra faccia di Balthazar, Mouchette è l'asse drammatico che coordina i vari episodi, attraverso i quali si disegna la preordinazione, l'ineluttabilità del male; Bresson, si sa, è di diverso avviso, e dichiara che il suicidio non è una fine, ma "deriva da un'attrattiva per il Cielo", ma credo si possa dire sia una sovrapposizione di intenzioni, per ricondurre l'opera a una religiosità personale che, in questo caso, è rimasta seconda – nel concreto dell'opera – rispetto al pessimismo di base.
Dietro al libro c'è (pure) un risolutivo «politico»; scritto negli anni della guerra di Spagna voleva esprimere anche, a detta dello scrittore, l'«orribile ingiustizia dei potenti»; questo intanto manca in Bresson, sia pure nel suo aspetto generale, essendo come sempre attento alla dimensione individuale; né, francamente, vedrei qualcosa di più o di diverso, come fa Cavallaro, il quale sottolinea «il peso rivoluzionario dell'immagine che Bresson, negli ultimi film, dà del mondo attraverso la provincia sordida della Francia gollista». Perché anche l'attenzione che il regista porta all'altro tema bernanosiano di tipo 'sociale' ("una miseria invalicabile quanto le mura di una prigione"), sembra in realtà essere motivata per il riflesso che porta alla dimensione individuale, e più ancora a una sua considerazione di ordine metafisico.
Bresson è sì attento all'«impronta maledetta della miseria», ma essa appare più lo sfondo concreto della parabola che una collocazione storicamente – e quindi socialmente – determinata. L'interesse, per intendersi, è più per temi di carattere ontologico, cui risalire dal riversamento esistenziale.
Anche il finale richiama queste problematiche generali. L'ambiguità del male dimostra la sua uniforme diversità, in fondo la sua inevitabilità; l'ambiente stesso costringe, i meccanismi sociali rinserrano, come in altri film. È proprio il suicidio finale che, per la sua radicalità ha fatto sorgere più interrogativi, cui si è risposto magari con scoperti recuperi o ribaltamenti: d'altronde lo stesso Bresson li suggerisce, affermando, oltre a quello che già si è detto, che è «una morte che non è una fine, ma un principio». Bernanos, dal canto suo, ha precisato le sue intenzioni: «il suicidio di Mouchette non è un suicidio propriamente detto; ai miei occhi è la morte del toro che si è ben battuto e che non può far altro che tendere il collo. Credevo tuttavia di averlo dimostrato, di averlo detto. Mouchette non si uccide veramente. Essa cade e si addormenta. Dopo aver atteso fino all'ultimo un soccorso che non giungeva».

Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia 1979