Woody vs Hollywood

Woody vs Hollywood

Il 1979 è l'anno di Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman) di Sydney Pollack, apologo western-ecologico con Robert Redford. Di Grease (di Randal Kleiser), che tiene alte le quotazioni di John Travolta dopo i fasti di La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977). O ancora di La saggezza del sangue (Wise Blood) del grande vecchio John Huston. Ma anche di Una volta ho incontrato un miliardario (Melvin and Howard) firmato da un allora quasi sconosciuto Jonathan Demme; di La sindrome cinese (The Chinese Syndrome) di James Bridges; di American Gigolò dì Paul Schrader; di I guerrieri della notte di Walter Hill. E poi di Saint Jack di Peter Bogdanovich; di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola; di Toro scatenato (Raging Bull) di Martin Scorsese; di Home Movies di Brian De Palma, che sta preparando Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980); di Una coppia perfetta (A Perfect Couple) di Robert Altman.
Una manciata di titoli che certo non serve a definire un'annata cinematografica - quella in cui esce Manhattan - e però rende immediatamente, per quanto impressionisticamente, il clima di quei mesi a Hollywood e negli Stati Uniti. È l'America di Jimmy Carter che sta arrivando agli sgoccioli, nell'atmosfera di indignazione morale, di sdegno collettivo che segue lo scandalo Watergate. Nell'80 verrà eletto presidente Ronald Reagan, e sarà tutta un'altra storia. Ma intanto, in quel 1979, convivono ancora le spinte, le istanze, gli impulsi più diversi. Al cinema, nelle modalità produttive come nelle forme e nei contenuti, permane una certa dose contestataria - anche se non sono più gli anni della New Hollywood (fine anni Sessanta, prima metà dei Settanta), l'epoca in cui esordiva o raggiungeva la maturità proprio buona parte degli autori citati sopra. Si tratta però di una protesta soft, ai margini delle majors che si vanno ristrutturando. Si sta preparando, insomma, il grande 'ritorno all'ordine'.
Quanto a Woody Allen, sembra che viva su un altro pianeta. O meglio, vive effettivamente dall'altra parte dell'America e con Hollywood - indignazione morale a parte - ha poco o niente a che fare. Come poco o niente aveva avuto a che fare dieci anni prima, in fondo, con la New Hollywood, salvo per un comune gusto citazionistico decisamente metalinguistico, insufficiente però a stabilire un legame vero, a sancire una condivisa seppur implicita dichiarazione di intenti. [...]
Il fatto è che Allen, dall'alto del suo appartamento con vetrate sul Central Park, continua a guardare altrove. All'Europa e al suo cinema, certo. Ma anche al suo teatro, alla sua Manhattan, a tutta la strada fatta sin lì.

(Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau, Torino 1996)




Su un campo minato e scivoloso come quello del gusto e degli affetti, il pubblico ha risposto con una imprevista e imprevedibile unanimità: alla fine dei violenti e aspri (anche cinematograficamente) anni Settanta, questa commedia del tutto fuori moda è stata circondata di consensi per le sue tinte sfumate. [...]
La comicità di Manhattan è sottile, ed è una delle componenti di quel fragile equilibrio che fa l'eleganza del film. La scena forse più comica in assoluto è giocata così sottotono da sembrare una barzelletta a scoppio ritardato: è il dialogo fra Ike e Yale all'università, quando l'uno accusa l'altro di avergli rubato la donna, e insensibilmente l'argomento si sposta a una diatriba moralistica su che cosa è la vita e come bisogna comportarsi in essa. Questa lezione di finezza certo non viene ad Allen dalla visione dei film dei suoi predecessori comici, né da quella dei suoi predecessori della commedia brillante stile anni Trenta-Quaranta (anche se qualche volta il tocco di Lubitsch qui non stonerebbe), né dallo stesso teatro americano. Come osserva Andrew Sarris, "Allen ha dovuto trovare modelli europei di dramma borghese, per rimpiazzare i modelli americani basati sull'azione".

(Giannalberto Bendazzi, Woody Allen, Fabbri Editori, Milano 1984




Se è vero che Woody Allen ha dato una mano a New York, o quantomeno a una certa New York, lontana dagli itinerari più battuti [...], altrettanto indubitabile è il fatto che la città abbia contribuito non poco all'affermazione di Allen, trasformandolo da "semplice" autore di esilaranti film comici a vero e proprio cantore del fascino di una metropoli raccontata da molti ma, tutto sommato, celebrata da pochi. I film chiave, da questo punto di vista, sono senz'altro Annie Hall e Manhattan, realizzati entrambi alla fine degli anni Settanta, ed ambedue imperniati sulla malinconica attrazione di una città che pare popolata esclusivamente da una strana fauna, una classe di borghesi intellettuali che vive tra concerti all'opera e crisi sentimentali, vecchie pellicole in bianco e nero proiettate in sale di quartiere e sedute psicoanalitiche, discussioni sui grandi romanzi del secolo e impotenze sessuali. [...] Se questi due film rappresentano il parto cesareo della carriera di Allen, il punto di rottura con il suo cinema precedente, più vivo ma meno raffinato (e, non a caso, amato da tutti coloro che in seguito hanno smesso di apprezzarlo), essi hanno nondimeno rischiato di etichettarlo come il regista di una New York stereotipata, patinata, che negli anni Ottanta finirà per affermarsi un po' ovunque, sulle pagine della riviste di moda come nei libri che fanno tendenza. E per questo che il cinema post-Manhattan di Woody Allen, nonostante rimanga saldamente ancorato a New York, si caratterizza per il tentativo di smitizzarla pur senza rinnegarla, facendo ricorso, come dicevamo in precedenza, ad un repertorio iconografico meno abusato, a percorsi urbani meno frequentati, a luoghi ad esempio fatiscenti come il cinema di Manhattan Murder Mistery, o, più semplicemente, ordinari: caffè, palestre, drugstores, librerie, scuole.

(Leonardo Gandini, New York, città a dismisura d'uomo, "Garage", Woody Allen, Paravia, Torino 2000)