Antologia critica

Antologia critica

"Di ben altro livello è il film di Marcel Carné: Les Enfants du Paradis. Il quale, per la novità degli intenti che lo animano e per l'altissima qualità è senza dubbio tra i più importanti e suggestivi film che il cinema mondiale abbia prodotto da anni a questa parte. Con esso, Carné volta decisamente le spalle al tradizionale modulo dello spettacolo cinematografico, per tentare una strada tutt'affatto nuova. Diciamo subito che l'eccezionale regista francese ha offerto ai nostri occhi, sedotti e incantati, un'opera, farcita sì di letteratura, complicata di sottintesi e di insidie e di riferimenti intellettualistici, ma che finisce per amalgamare e sublimare il tutto, raggiungendo la semplificazione e l'inoppugnabile evidenza della poesia.
I primi film di Carné si contraevano subito attorno a un nucleo fortissimo di sentimento che attraeva a sé gli elementi di ambiente e di colore immettendoli nel suo giro breve e denso, scartando ex abrupto ogni possibilità di decorazione. Con Les Enfants du Paradis, il disegno esteriore, la tecnica più specificatamente narrativa, si rompe deliberatamente sulla via del largo poema sinfonico. Tra un incipit e un explicit ugualmente musicali, il film si svolge secondo questo ampio respiro, con trapassi violenti quando debba introdurre ambienti o personaggi particolarmente suggestivi. Ed è tutto una modulata variazione su un tema (di quelli che, a valutarli coi criteri comuni, parrebbero mancare tipicamente di originalità) che è al fondo del racconto e che, se spesso può sembrare marginale rispetto ai fatti e al loro sviluppo, rimane sempre il motivo conduttore.
La narrazione è tutta calata nell'ambiente e svolta nei rapporti tra questi e i personaggi, fino a un vero e proprio rapporto lirico-plastico. Le centinaia e migliaia di scene che si susseguono sono tutte, una più dell'altra, felici, ricche di senso poetico, di verità e di immediatezza, in un prodigioso rivaleggiare con la natura imitata e sentita.
Le psicologie dei personaggi - la splendida Garance (Arletty), il mimo Baptiste (Jean-Louis Barrault), il grande attore Lemaître (Pierre Brasseur), l'omicida Lacenaire - risultano dalle sottili circostanze, più che da testimonianze dirette. Così che, per questo Les Enfants du Paradis si può parlare di poema, di quadro d'ambiente, di sinfonia impressionistica. Termini tutti imprecisi, ma tutti riportabili almeno a un aspetto dell'opera: non-film, insomma, e del tutto immemore di ogni tradizionale cadenza narrativa.
Un'opera d'arte, comunque. Che forse apre una strada nuova e suggestiva al cinema e lo svincola dalle arrugginite macchine standardizzate, in cui si è impigliato.
Antonio Pietrangeli, Festival de cinema di Roma - I primi film, "Star", 29 settembre 1945.

 

Un film che rimane uno dei più belli di tutto il cinema francese: Les Enfants du paradis. Film di alta classe nel quale la novità d'impostazione si sposava con una rara bellezza figurativa. Era una brillante lezione di stile, con la quale Carné sembrava confermare le intenzioni del suo precedente lavoro rivedendo da cima a fondo i canoni della produzione francese d'anteguerra, ripulendo le proprie ispirazioni da tutto ciò che sapeva di bassofondo convenzionale, persino rinnovando il suo pessimismo che qui appare in un certo senso rasserenato, o solamente rassegnato, comunque ingentilito da una cert'aria quasi "shakespeariana". È a Shakespeare difatti che il film ruba la sua morale. "Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite", dice una didascalia iniziale (da As You Like It).
In Les Enfants du Paradis Carné ci porta in una Parigi 1840 magistralmente autentica. Il Boulevard du Crime, che è il centro dell'azione, è bellissimo nella sua chiara e delittuosa allegria, come sono genuini gli interni nei quali la vicenda si ambienta fantasiosamente (si rammenti il bagno dove avviene il delitto) e che stanno agli esterni in un preciso, intimo rapporto.
La vicenda ha per protagonisti personaggi storici: il mimo Baptiste Deburau, l'attore Frédéric Lemaître, e luoghi storici, il Boulevard citato e il teatro dei Funambules: tutta un'epoca gloriosa che Parigi non ha dimenticata. Veramente il film si divide in due epoche aventi rispettivamente per titolo: Le Boulevard du Crime e L'Homme blanc, ma la storia rimane la stessa, imperniata appunto sul teatrino dei Funambules dove ogni sera "i ragazzi del paradiso", ossia i frequentatori del loggione, tumultuano riversando il loro plauso e i loro improperi sugli attori. Talvolta l'azione si allontana dal teatro ed è per entrare in un mondo curioso di "apaches" e di milionari, ma al teatro sempre ritorna. Il personaggio centrale è tuttavia una donna, Garance, che attira intorno a sé scribacchini, ladri, titolati, oltre al povero meraviglioso mimo e all'attore. Tutti sono invaghiti di lei alla pazzia, ciascuno a modo suo, ma è il mimo casto e impetuoso che Garance si accorge di amare. Sennonché il loro amore è impedito da un banale equivoco. La donna fugge e il mimo la insegue disperato per le vie di Parigi dove letteralmente impazza il Carnevale, e questa corsa inutile e burlesca quanto angosciosa è uno dei pezzi più sorprendenti che il cinema ci abbia dato. Soprattutto qui, ma anche nel resto del film, le immagini sono di un'eleganza plastica che risulta dai valori chiaroscurali, da una fotografia quasi a chiazze eppure pastosa, morbida: il "bianco e nero" del cinema ha qui il suo probabile canto del cigno.
La trama è esilissima, ed ha soltanto un guizzo finale: un delitto. Il resto è dietro le quinte, non detto, ma non per questo assente. I pochi fatti che vediamo han quasi l'aria di essere secondari rispetto ai tanti altri che non vediamo ma certamente avvengono nel mondo. Il film ha, difatti, una dimensione inconsueta: è come guardare un panorama molto vasto, che è spazio ed è tempo insieme. Cioè esistenza. Dal Boulevard du Crime a L'Homme blanc i personaggi non fanno alcun progresso, sono là, sempre uguali, coi loro sentimenti di prima. C'è soltanto, dietro ad essi, una maggiore profondità che li innalza poeticamente, umanamente. Non sono più Lemaître, Deburau o Garance, sono Arlecchino, Pierrot, Colombina, che rappresentano l'eterna commedia umana. Ed ecco un risultato di quella tecnica nuova, di sceneggiatura e di regia, che a tutta prima dà l'idea di squilibri, di fratture nel racconto. Le lunghe pantomime di Barrault riprese con la macchina immobile, quel correre dietro a tanti particolari, personaggi, situazioni che poco hanno da spartire con la vicenda, quell'abbandonarsi a capricci formalistici e a raffinatezze compositive tra cui sembra smarrirsi il tema originario: tutto rientra invece in un ordine prestabilito, un ordine che opponendosi alle normali regole teatrali e cinematografiche in uso tenta di riassumere sullo schermo le esperienze delle altre arti e della cultura in genere.
Michelangelo Antonioni, Marcel Carné, parigino, "Bianco & Nero", n. 10, dicembre 1948.

 

Les Enfants du Paradis, presentato ora al pubblico italiano in edizione ridotta (si tratta dell'originale di un autentico film-fiume) con l'assurdo titolo Amanti perduti è un frutto "maledetto" dell'occupazione nazista in Francia. La cosa non ci indigna; non abbiamo mai creduto all'esistenza dei puri (dei fanatici, sì); mentre i nazisti occupavano l'Europa bisognava pur vivere. Chi non aveva quattrini da parte, o non era riuscito a telare in Inghilterra, doveva lavorare per non morire di fame. La prova che Carné ha costruito Les Enfants con cuore non allegro risulta da questo: il film è malinconico, è pessimista, è una fuga nel passato. Vi sono rievocati con la libertà necessaria due grandi spiriti: l'attore Lemaître, nel quale riviveva lo spirito di Molière, e il mimo Deburau che appare, in un certo senso, come il precursore del cinema muto. Tra i due teatranti si insinuano la bella Garance, un riccone dell'epoca e un bandito intellettuale. Garance va a letto successivamente con Lemaître, col riccone e con l'innamoratissimo e lunare Deburau; nel frattempo il bandito spaccia il riccone in un bagno turco.
Anche mutilato, anche provvisto di un titolo ridicolo, Les Enfants risulta un film squisito. Un'intuizione poetica fortissima ed evidentemente invincibile guida il regista dal principio alla fine; siamo di fronte a un'opera tipicamente intellettuale e addirittura faisandée; colma di puntuali echi figurativi (da Daumier a Courbet) e nel medesimo tempo sorretta da una sostanza psicologica e narrativa di rara coerenza. Gli attori hanno capito tutto: Brasseur è degno del raffinato Barrault; Arletty riesce a ripetere il gran colpo di Le Jour se lève. Quanto al regista Carné è cotesto il suo ultimo capolavoro. Dopo, cadrà nel poeticismo con Quando Parigi dorme, nell'ordinaria amministrazione con La vergine scaltra.
Pietro Bianchi, Il paradiso di carne, "Candido", 4 giugno 1950.

 

 

La lunga azione di Les Enfants du Paradis si situa nella Parigi di Luigi Filippo, e precisamente nel 1840 (Le Boulevard du crime) e nel 1847 (L'Homme blanc). In quest'epoca, che coincide con la fine del grande periodo romantico, il teatro conosce un'immensa popolarità. Sul leggendario boulevard du crime, dove si trovano riuniti quasi tutti i teatri parigini, trionfano la pantomima e il melodramma. Nello stesso tempo si scopre Shakespeare, le cui tragedie vengono rappresentate al Grand Théâtre. Un pubblico composito e appassionato si riversa ogni sera nelle platee e nei "loggioni" del boulevard, il cui nome è dovuto agli innumerevoli delitti che "insanguinano" quotidianamente le scene. Durante il giorno lo spettacolo si prolunga all'esterno, dove acrobati, giocolieri e mercanti attirano una folla avida di avventurieri e di distrazioni.
Con Les Enfants Carné sembra aver raggiunto un nuovo e compiuto 'sentimento del tempo'. Il respiro del film è ampio come quello dei grandi romanzi della tradizione ottocentesca francese, anche se i suoi ingranaggi laboriosi lo apparentano più a Hugo, Dumas e Sue che non, ad esempio, alla letteratura balzacchiana (rinunciando ai riferimenti strutturali alla tragedia - Le Jour se lève -, il "narrato" carnéano di Les Enfants du Paradis si iscrive senz'altro nell'area del romance, secondo l'accezione definita dal Frye - cfr. N. Frye, La scrittura secolare. Studio sulla struttura del "romance", Bologna, Il Mulino, 1978).
Regista e sceneggiatore trovano qui la loro dimensione più congeniale. Laddove il Carné trascrittore per immagini del populismo anarchicheggiante di Prévert e del fantastico sociale di Mac Orlan non era riuscito a interpretare correttamente il dramma del proletariato francese tra le due guerre, deformandolo in mélo populista, Les Enfants du Paradis ottiene invece una completa credibilità romanzesca. La scrittura dell'autore si libera da quanto di convenzionale e retorico era solito appesantirne il tratto e il suo consueto pessimismo appare in certo modo purificato e decantato. (...)
Se la vita del viale e la vita del teatro, lo spettatore e l'attore, la realtà e l'illusione interferiscono e si intersecano fino a risultare non distinguibili, altrettanto evidente risulta la coincidenza tra universo del palcoscenico e universo dello schermo. Le maschere adottate dagli attori per definire le loro persone cinematiche e quelle assunte dai 'caratteri' cinematici sui palcoscenici teatrali del film sono indossate, rimosse e cambiate continuamente, tanto che i ruoli del palcoscenico si intercambiano senza soluzione di continuità con quelli della 'vita' dei personaggi. I quali, del resto, sono i classici caratteri della commedia all'italiana, Baptiste, Garance e Frédérick ricostituendo il classico trio Arlecchino, Colombina e Pierrot (R. Leenhardt). Le pantomime di Duburau rappresentano un'ulteriore conferma della intercambiabilità palcoscenico/vita, riassumendo e stilizzando le vicende che si svolgono al di fuori della scena e fornendo finanche anticipazioni degli sviluppi a venire. Resuscitata da Carné e da Prévert in tutta la sua affascinante ingenuità, la pantomima non è altro che il cinema delle origini che, vincitore stanco, ha soppiantato fin dalla prima apparizione quel teatro al quale il cineasta Carné dedica un commosso omaggio. Nel mimo Duburau scompare una tradizione, mentre si annuncia con segni aurorali la non lontana nascita del cinema.
Roberto Nepoti, Marcel Carné, Il Castoro cinema - La Nuova Italia, Firenze 1979.

 

Sappiamo che l'idea del film si è imposta a Carné e Prévert da discorsi accalorati che aveva tenuto loro Jean-Louis Barrault sulla personalità del mimo Deburau e su certi aneddoti della sua vita. Tuttavia Deburau non è il personaggio principale del film che, a dire il vero, non ha un protagonista nel senso che presenta il percorso incrociato di più personaggi, sognatori o sonnambuli, che passano attraverso la realtà in punta di piedi, e qualche volta ad alcuni centimetri sopra il pavimento. Sono per metà esseri di carne e di passione, e per metà fantasmi: il monologo è il loro mezzo di espressione privilegiato, per Baptiste è un monologo di gesti e di atteggiamenti. Rinchiusi nel proprio destino come delle monadi, fanno fatica a comunicare con gli altri e soprattutto con quelli che amano. Tutti hanno una vocazione, per lo più la realizzano ma al contempo ne scoprono la vanità, il carattere illusorio e frustrante. L'impossibilità dell'amore e della felicità - almeno come durata - sembra loro un'evidenza. Forse è Lacenaire quello che va più lontano nella realizzazione dei suoi desideri, ma fallisce la sua vocazione di scrittore. [...] Montray, lui, voleva essere amato per se stesso, ma la sua aspirazione non si realizzerà.
Il classicismo minuzioso e artigianale dello stile fa di questo film un'opera di alto equilibrio. Equilibrio tra i personaggi reali e inventati, tra il carattere concreto di ciascuno e il loro onirismo. Equilibrio tra i necessari meandri dell'intreccio e lo spazio considerevole riservato ai dialoghi. Equilibrio soprattutto tra l'intimismo e il quadro sociale, anche se alla fine a vincere è l'intimismo, specchio poetico e disperato del cuore dei personaggi. Questo equilibrio dalle armonie inesauribili, e la ricchezza inaudita delle interpretazioni degli attori (ciascuno trova nel suo personaggio degli echi profondi di se stesso: la religione dell'indipendenza morale per Arletty, il fascino del silenzio per Jean-Louis Barrault, il dandismo morboso per il "conte" Louis Salou) rendono oggi il film lontano da noi come una pala d'altare del Medioevo.
Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma, Laffont, Paris 1992.

 

Al termine della prima rappresentazione dell'Auberge des Adrets (vederne la storia reale in Frédéric Lemaître. Testi e materiali, a cura di Cesare Molinari, Roma, Bulzoni, 1991), nel cammino di Frédérick, attore ormai famoso e ricercato, piomba il sinistro Lacenaire, uno dei banditi più temuti dell'epoca (per saperne di più: Pierre- François Lacenaire, Mémoire et autres écrits, éd. Préparée par J. Simonelli, Paris, J. Corti, 1991). Fin dall'inizio del film sappiamo che Lacenaire, oltre a esercitare la professione di scrivano a pagamento (una copertura ai suoi loschi traffici?), si diletta a scrivere piccole pièces, vaudevilles, ecc. Non ci sorprende dunque imparare, durante il dialogo con Frédérick, che sta per portare gli ultimi ritocchi "à une chose tout à fait passionante et qui fera du bruit [...] un vaudeville, une farce, ...ou, une tragédie, pourquoi pas... C'est pareil tout cela... aucune différence [...] Peu importe le genre d'une pièce, l'essentiel est qu'elle soit amusante et que l'auteur soit le premier à en rire. Je vous assure que, ma foi, le rideau tombé, aucun de ceux qui seront morts ne se relèvera pour saluer! [...] Mon pauvre Avril! La pièce est finie...", e nemmeno ci sorprende vederlo agire sempre con grande senso teatrale (l'apparizione a casa di Frédérick, e soprattutto il rapido gesto con cui tira la tenda del salone come fosse un sipario per mostrare al conte Baptiste e Garance abbracciati) e parlare servendosi di termini spesso di origine teatrale. Lacenaire unisce dunque alla sua attività di ladro e assassino quella di scrittore. L'unione tra queste due vocazioni produce una spiccata tendenza a forme espressive sanguigne e grandiloquenti: asserisce di avere "déclaré la guerre à la societé" e che le sue mani non grondano sangue ma macchie d'inchiostro ("aucune trance de sang... seulement quelques tâches d'encre"). Lacenaire si propone non come semplice e volgare bandito, ma come ribelle nei confronti della società (e già questo è sufficiente a spiegare l'ammirazione che nutrirono i surrealisti per questo personaggio), la cui rivolta si manifesta sia nel vivere quotidiano (rapine, uccisioni, furti, ecc.), sia nello spirito (la scrittura). Questa è la vera identità di Lacenaire: colui che vede più lontano degli altri ("j'étais déja plus lucide que les autres"), diverso dagli altri, solitario e libero ("Ils voulaient que je sois comme eux [...] Les imprudents! Me laisser tout seul avec moi-même! N'aimer personne ... être seul! Nêtre aimé de personne... être libre"), emarginato, costretto a vivere clandestinamente, con una doppia vita. Dell'altra attività letteraria di Lacenaire abbiamo una sola indicazione precisa, che emerge durante il colloquio con Lemaître. Dice il bandito: "J'ai fait une petite chose à laquelle j'ai la fabilesse de tenir, un petit acte plein de gaîté et de mélancolie. Deux être qui s'aiment, se perdent, se retrouvent et se perdent à nouveau".
Il bandito, il rivoltoso, il sanguinario Lacenaire ha scritto un petit acte di argomento amoroso! Una vera curiosità, una stranezza. Non sappiamo se corrisponda alla realtà del Lacenaire storico, ma in ogni modo non è il caso di rammaricarsi: il testo non è andato perduto. Anzi, l'abbiamo visto, lo stiamo vedendo. Si chiama Les Enfants du Paradis.
Sandro Toni, Jacques Prévert sceneggiatore: l'atto unico di Lacenaire, "Cineforum", n. 318, ottobre 1992.

 

Les Enfants du paradis avanza con una successione di scene di natura intimista dove abbondano i confronti tra due (qualche volta tre) personaggi. L'uomo, la nobiltà e la risibilità dei suoi sentimenti amorosi, la passione febbrile di mettersi in rappresentazione davanti ai suoi simili, costituiscono i veri eventi spettacolari di questa sorta di epopea davvero originale (non c'è un omologo nella produzione straniera né in quella francese). Sin dall'inizio sappiamo che il racconto che sta per iniziare non intende essere realista e che ha tutte le possibilità di ubbidire agli imperativi della stilizzazione teatrale: i titoli di testa scorrono su un sipario. [...]
Quando incontrano Garance, le vite dei vari personaggi si illuminano, talvolta dolorosamente, e trovano tutte il loro vero senso, al punto che possiamo chiederci se anche lei non sia una delle incarnazioni del Destino. Sotto la sua influenza (basterà che lei gli lanci un fiore perché l'illuminazione si produca), Baptiste diventa il mimo di genio che ignoravamo: lui stesso non lo sapeva. [...] Non sfugge all'influenza di Garance neanche Lacenaire, personaggio decisamente misogino, degno dei romanzi di Jean Genet: gli piace solo la compagnia dei ragazzi (è sempre fiancheggiato da un certo Avril dai capelli biondi e dalla natura visibilmente flaccida, che indoviniamo pronto a tutte le compiacenze sessuali); Lacenaire non desidera certo fisicamente Garance visto che è l'unico dei quattro uomini incontrati nel film di cui lei rifiuta di diventare l'amante. Ed è grazie a lei, e a quest'amore frustrato, che Lacenaire affila come un diamante il suo destino di assassino: attacca ognuno dei suoi possibili rivali, prima Baptiste, poi Frédérick, infine il conte de Montray. Sembra che Garance sia innamorata di Baptiste, e infatti l'intero film sembra essere la storia del loro amore infelice; però questa donna gelosissima della sua libertà non condivide la vita di nessuno dei tre uomini di cui cambierà così profondamente il destino. Salvata dalla minaccia di finire in prigione (per connivenza con Lacenaire), e forse anche dalle catene amorose che teme, Garance sceglie l'offerta del conte; dai lunghi viaggi (le Indie, la Scozia) tornerà con l'aura delle donne fatali. Eroina romantica aureolata di malinconia, Garance non è paragonabile alle insignificanti creature melodrammatiche che la moda degli adattamenti balzacchiani ispirava ai cineasti sotto l'Occupazione. [...]
L'originalità del film deve molto alla modernità di questo personaggio femminile, e alla sua costruzione narrativa. Les Enfants du Paradis è un formidabile omaggio reso alle arti dello spettacolo scenico, dove alla fine il teatro trionfa su tutto. Da notare come nelle riprese delle pantomime la cinepresa, immobile, sostituisce l'occhio dello spettatore; c'è un chiaro ritorno alla semplicità del cinema degli inizi. [...] Qualcuno ha rimproverato al film la sua costruzione poco ortodossa, dispersiva. In realtà, procedendo per "capitoli" piuttosto che per "atti", con uno sviluppo "orizzontale" delle situazioni piuttosto che con la loro concentrazione "verticale", Prévert e Carné sono riusciti a realizzare un film al tempo stesso appassionato e contemplativo, innamorato della vita e disilluso, lucido e critico verso se stesso. Ecco le ragioni del profondo fascino che esercita ancora, dopo più di mezzo secolo, mentre tutti i film "in costume" prodotti dal cinema francese nella stessa epoca fanno oggi figura di pezzi da museo più o meno divertenti.
Michel Pérez, Les films de Carné, Ramsay, Paris 1994.

 

Secondo Michel Chion, tre sarebbero i caratteri dei dialoghi di Prévert. L'uso di frasi brevi, "che non hanno più di sei o sette parole", in cui le congiunzioni sono quasi assenti. Le ripetizioni, considerate in francese come un difetto ma che "diventano un tratto stilistico". L'uso frequente del nome della persona a cui si parla (Garance, Frédérick, Pierre-François...), per dare una "scansione particolare" alle frasi. Infine la quantità di esclamativi: "È così semplice l'amore!"; "La notte era così bella!"; "Com'è tutta bagnata, Garance!" che è diverso da "Lei è bagnata, Garance".
Jacques Prévert scrive i suoi dialoghi come le sue poesie, ma soprattutto come le sue canzoni, che prendono vita quando vengono eseguite. Ogni frase è un verso, ogni battuta una strofa; le ripetizioni sono non solo permesse ma richieste. "Sono come sono. Amo piacere a chi mi piace. Tutto qui. Quando ho voglia di dire di sì non so dire di no" dichiara Garance, che cita così quasi letteralmente la canzone scritta per lei (ripresa più tardi da Juliette Gréco). [...]
Nella sua ricerca sofisticata di un linguaggio naturale, e come equivalente assoluto alla sua poesia scritta, Prévert non ha trovato niente meglio della canzone. Ma nei suoi film il dialogo ha bisogno di un partner; si canta sempre per qualcuno, poi si ascolta la risposta con la stessa attenzione. La qualità del linguaggio nei film di Prévert è subordinata alla qualità d'ascolto dell'interlocutore. Non vengono mai pronunciati motti d'autore, parole "campate in aria". D'altronde per mostrare che ascolta, l'interlocutore ripete molto spesso quello che gli si dice, perché ha bisogno di capire tutto, o per guadagnare tempo. Quando Frédérick le confida "Non sei felice con me, Garance", invece di rispondere "Neanche tu", lei dice "Neanche tu sei felice con me, Frédérick", come il verso bissato di una canzone. Nella grande scenata di Maria Casarès (Nathalie) a Garance alla fine di Les Enfants du Paradis Prévert cerca di mostrare, senza giudicarle, gli atteggiamenti delle due donne che amano Baptiste; anche se è chiaramente dalla parte degli innamorati, Prévert rispetta il profondo dolore dell'esclusa. Una domanda che riprende la frase precedente, a rischio di farsela ripetere di nuovo, è la confessione di una debolezza, è come un punto perso nel duello verbale delle due donne. (Sorpresa da Nathalie nelle braccia di Baptiste, Garance imbarazzata si prepara a uscire dalla stanza, ma Nathalie la blocca e comincia a ricattare affettivamente Baptiste, suo marito). Tutta l'arte di Jacques Prévert è in questo scambio. Le frasi brevi, le ripetizioni, e anche, suprema eleganza, quel "dite una cosa qualunque" di Nathalie all'inizio del duello verbale trova eco nell'"ovunque" di Garance ("ovunque, tutti i giorni, e le notti, ero con lui").
N.T. Binh
, Prévert Cinéma, in France Cinéma 2008 Retrospettiva Carné-Prévert, a cura di Aldo Tassone, Edizioni Aida, Firenze 2008.