Rosi racconta il film

Rosi racconta il film

La trama

Direi che è un'inchiesta di tipo parlamentare, perché il consiglio comunale è un vero Parlamento, volta a mettere in luce le cause che hanno provocato il crollo di un palazzo nei quartieri popolari di una città che affronta la propria rinasci­ta edilizia nel disordine e senza alcuna regola. Il costrutto­re coinvolto nel disastro, Edoardo Nottola, sa che il potere è l'unico modo per sfuggire ai suoi guai giudiziari. Per questo, come si direbbe oggi, scende in campo. E riesce, non senza ostacoli, a far sua la poltrona di assessore ai Lavori pubblici e all'edilizia. Può così tornare alla sua attività sostenuto da­gli intrallazzi della politica. L'arcivescovo dà la benedizione e Nottola dà il via alle nuove costruzioni. La trama è questa.



Continuare un discorso sul potere

Con Le mani sulla città volevo continuare il discorso sul potere iniziato con Salvatore Giuliano. Mettere in evidenza quelle che erano le collusioni tra i vari poteri, tra potere economico e potere politico, rendere chiaro come una città fosse regolata da questo rapporto, da questo intrico di interessi che mescolavano in maniera molto oscura, e anche molto chiara, la politica con l’economia.
Eravamo negli anni della nascita del Centro-Sinistra, in un momento politico altamente significativo, per cui anche lì c’era l’indicazione, il desiderio di attuare una politica di collaborazione, ma allo stesso tempo l’indicazione dei limiti di questa politica. Volevo fare un film su Napoli dopo aver fatto un film sulla Sicilia e lo dissi a La Capria, mio amico da sempre, ma non avevamo nessuna idea su come farlo. Poi ci fu a Napoli il congresso democristiano con un lunghissimo discorso di Moro che mi sentii tutto, mescolandomi all’ambiente dei giornalisti, e fu allora che avvicinai Enzo Forcella chiedendogli una collaborazione per il film. Forcella scriveva i fondi per “Il Giorno”, e da questo andare in giro per la città e da questi clima politico, cominciò a nascere l’idea che l’esame della nuova faccia della città, la sua trasformazione, fosse la strada da battere.






La nascita del soggetto

Il film non è nato da una storia, è nato da un desiderio razionale di raccontare un conflitto drammatico tra forze politiche diverse, che cercavano la strada per collaborare e per contrastarsi, è nato da un’indignazione tutta razionale e tutta civile contro la distruzione delle coscienze oltre che del volto di una città. La nascita del soggetto è stata estremamente interessante. Partecipai alle sedute del consiglio comunale di Napoli e fu lì che fui colpito da Fermariello e dai suoi interventi. Tornavo continuamente a Roma con questo materiale, che rielaboravo con La Capria, poi veniva La Capria a Napoli... Insomma il film è nato così... Ci sono state anche delle conversazioni con Luigi Cosenza che all’epoca era l’architetto napoletano, comunista, che maggiormente combatteva la speculazione. Quindi piano piano abbiamo messo insieme, con molta pazienza, un primo abbozzo di possibile storia. Contemporaneamente frequentavo il vicolo dove poi ho fatto avvenire il crollo, un vicolo semideserto dove la gente era stata già per metà sfrattata, e dove avevo sentito che c’era sotto qualcosa che non quadrava.
Ho cominciato a fare un’inchiesta proprio da giornalista, ma senza penna né registratore, chiedendo cose. Abbiamo articolato tutti questo elementi attorno alle sedute del consiglio comunale, ricostruendo la storia recente di Napoli, il partito laurino, il passaggio di alcuni laurini alla DC, eccetera. Da tutte queste cose è venuta fuori una possibile storia che ha avuto una conferma clamorosa quando, nelle ricerche fatte negli archivi dei giornali napoletani, ho scoperto, corredate da fotografie delle manifestazioni che c’erano state, che quello che noi avevamo raggiunto come risultato di una struttura faticosamente messa insieme, era già avvenuto nella realtà.






La scelta degli attori

Pur essendo convinto che la struttura del film dovesse essere molto solida, lucida, razionale, un vero e proprio teorema geometrico – e il film inizia con la dimostrazione chiarissima dei metodi della speculazione –, affinché lo spettatore riuscisse a capire gli interessi in gioco, volevo anche una grande libertà: nella ricerca degli attori per esempio. Quella libertà e quell’autenticità potevo trovarle grazie alle persone che avevano vissuto quei problemi. Per il costruttore ci voleva un attore professionista. Ero stato molto colpito dalla recitazione diretta di Rod Steiger in Fronte del porto, in particolare nella scena del taxi, quando parla con Marlon Brando, oltre che in II grande coltello; così gli ho scritto per spiegargli quello che volevo fare. All’epoca stava interpretando Moby Dick a teatro. Ha accettato senza leggere la sceneggiatura, una cosa rara per un attore americano.
Per gli altri ruoli invece, ad esempio quello del consigliere comunista, volevo un'interpretazione del tutto priva di retorica. Mi sono innamorato di un consigliere comunale comunista napoletano, oggi senatore. L'avevo sentito parlare con chiarezza e precisione, ma anche con una passione civile molto comunicativa. Gli accenti demagogici sulle sue labbra erano l'unico modo per comunicare con della gente che altrimenti non l'avrebbe capito. Egli mi permetteva di far vivere e di verificare dei dialoghi che, beninteso, erano stati elaborati a partire da materiali storici. I membri del comitato centrale del Pei mi hanno autorizzato a farlo recitare: avevano visto Salvatore Giuliano, e il senatore comunista Li Causi aveva chiesto e ottenuto in Parlamento che fosse creata una nuova commissione anti-mafia. Non volevo fare un film psicologico ma un film su dei fatti, nel quale presentare personaggi tutti quanti emblematici, simbolici. Bisognava credergli immediatamente, riconoscerli fisicamente in quanto appartenenti a una professione, a una mentalità. Ecco perché sono stato così minuzioso nella scelta degli attori: per la commissione d'inchiesta, ad esempio, ho mescolato non professionisti con professionisti. Uno dei membri più importanti di quella commissione, l'esponente della destra liberale, è interpretato da un grande avvocato napoletano il quale aveva appunto i gesti, le parole giuste del liberale, e assieme a lui ho riscritto i dialoghi.





La scena del crollo

Il crollo del film è un crollo vero. Quella parte del palazzo è stato costruita con metà materiale vero e metà cinematografico. C’era un congegno fatto dallo scenografo Canevari, dall’architetto (mio fratello) e dal capo costruttore che è un famosissimo capocostruttore del cinema, una figura splendida, Carlo Agate. Avevano inventato una specie di macchina leonardesca tutta corde e argani, una cosa di una precisione... come un piano per assaltare una banca! Avevo sette macchine da presa, per poter girare da sette punti diversi, ma alcune dovevano buttarsi in mezzo alla folla — che non doveva sapere niente —, calcolando tutto al minuto. La gente pensava che stessimo lavorando a ricostruire l’edificio, non sapevano che era un film. Quando poi dovemmo staccare una costruzione di tubi innocenti, il giorno prima di girare c’è stata una libecciata fortissima che ha staccato un pezzo della costruzione, e ho dovuto rimandare le riprese di una settimana. Ma qualcuno lì intorno se ne è accorto. Gli unici generici che avevamo fatto venire da Roma erano dei falsi muratori, in realtà degli stuntmen, gente che doveva stare sino all’ultimo momento sotto il crollo. Quando abbiamo girato mi ero organizzato anche coi pompieri, che a centocinquanta metri aspettavano e venivano ai miei ordini. Le reazioni della gente sono state vere. Via Marina si è paralizzata, e Gianni Di Venanzo, che aveva la macchina a mano, si è buttato in mezzo alla gente con la macchina: le reazioni erano di una spontaneità assoluta. Perfetto! È stato emozionante anche il dopo, perché a Napoli sono conosciuto e la gente del vicolo era contenta che si facesse il film. Un momento prima si era impigliato un congegno che avrebbe potuto mettere in pericolo tutta l’organizzazione, per cui Agate, senza dire niente a nessuno, s’era infilato sotto questo palazzetto per andare a districare lui il congegno, a costo di rimanerci. E lo sapevano solo Canevari e mio fratello. A me lo disse qualche secondo prima l’organizzatore di produzione, e ho passato momenti d’inferno finché Agate non è rispuntato fuori.







Speculazione e distruzione della città

Volevo costruire un film su un tema ben preciso: i compromessi del potere economico e politico in una città che cambia fisicamente. Un tale cambiamento fisico corrisponde al mutamento umano. Nella speculazione edilizia non sono negativi unicamente la distruzione di una città e l’aspetto caotico che ne deriva, ma anche la distruzione di una cultura a vantaggio di un’altra ove l’uomo non ha più posto. Si cambia l’uomo, sì.
Il centro storico di Napoli, come quello di tutte le città italiane d’origine medievale, comprende quasi l’intera città. E la sua struttura ha resistito nel corso dei secoli. Se si distrugge per ricostruire, negli stessi luoghi, nelle stesse viuzze, degli edifici grandi il doppio o il quadruplo rispetto a quelli precedenti, non si fa altro che aggravare la situazione. I bambini, che fino a vent’anni fa vivevano ancora in condizioni penose, oggi fanno parte di una popolazione quattro volte più numerosa, ma senza che siano stati creati i servizi pubblici indispensabili. Le conseguenze di ciò si fanno sentire sul mercato del lavoro, sulla criminalità. Così si spiega come mai il sottoproletariato di Napoli sia talmente aumentato in quel medesimo spazio.







Potere e corruzione

Il legame tra il potere e coloro che lo subiscono è un problema fondamentale dell’Italia meridionale. Non bisogna infatti dimenticare l’influenza della religione cattolica, dell’insegnamento religioso, di un individualismo fortissimo, di una cultura paternalistica, di una classe dirigente che, anziché fornire lavoro, viveva nell’ozio grazie alle rendite latifondiarie, al di fuori dei grandi movimenti che attraversavano il resto del Paese. A Napoli, all’epoca di Le mani sulla città, dominava ancora il laurismo, un movimento di estrema destra legato all’idea di monarchia. Persino la politica dei partiti di sinistra – socialisti e comunisti – doveva tener conto di quella realtà politica e di un Lumpenproletariat numerosissimo. I loro slogan non evitavano la demagogia in quanto non emergeva una spinta alla presa di coscienza accanto alla loro azione specifica. Nell’Italia settentrionale la cultura operaia è diversa. Anche la classe dirigente è diversa, fornisce lavoro e vive in rapporto con il resto d’Europa. Non intendo dare un giudizio politico, voglio solo chiarire le divisioni geografiche dell’Italia che, secondo me, non sono due, Nord e Sud, bensì quattro: la Sicilia infatti è tutt’altro, e forse pure Roma e il Vaticano, che rappresentano il cinismo dell’immobilismo burocratico, il cinismo della Chiesa che ha mantenuto l’uomo in una cultura tagliata fuori dall’evoluzione sociale.



Gli interventi di Francesco Rosi sono tratti da:

Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, Feltrinelli 1981
Michel Ciment, Dossier Rosi, Editrice Il Castoro 2008
Francesco Rosi, lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore, Mondadori 2012