Antologia critica

Un film che sopravanza Salvatore Giuliano, e pone Rosi fra i maggiori talenti cinematografici della nostra generazione di mezzo. Le mani sulla città è un film sugli speculatori edilizi, a Napoli, oggi, e sulle collusioni fra l’industria e la politica (con un graffio, sul finire, alla Chiesa). [...] Non c’è bisogno di scomodare Machiavelli e Guicciardini per ricordare come il fossato fra morale e politica, fra coscienza e ragion di Stato, possa essere colmato o approfondito: Rosi sa bene che questo tema è, e sarà, eterno. Ma quando egli afferma che la speculazione edilizia è stata per lui un pretesto d’attualità per raccontare un dibattito di idee e di moralità, rinasce appunto il dubbio che al regista, come già si vide in Salvatore Giuliano l’individuazione delle componenti psicologiche, morali e razionali dei caratteri, e il loro legarsi e scontrarsi, stia più a cuore del loro contenuto. […] Al di là di una sin troppo facile denuncia politica, contro la classe dirigente italiana appoggiata al centro e di destra, il film ha un grande rilievo appunto per la tragica statura del protagonista, il quale difende se stesso con tutte le armi, il denaro, i ceri alla Madonna, il sacrificio del figlio, il tradimento degli amici di partito, e finalmente trionfa perché la corruzione e la debolezza degli altri gli hanno spianato la strada. [...]
È la prima volta che un film è buono nonostante una così attuale – e ovviamente tendenziosa – polemica politica (“I personaggi e i fatti sono immaginari - ci avverte una didascalia - ma autentica è la realtà sociale e ambientale che li produce”). Lo si deve alla penetrazione realistica con cui lo stile critico di Rosi dichiara la sua passione morale e la sua lucidità razionale, alla fotografia di Di Venanzo, alla robusta musica di Piccioni, all’ottima recitazione di Rod Steiger, che ancora una volta dà fortissimo risalto alla livida figura di un uomo d’affari che si comporta da bandito, e di Salvo Randone incisivo come sempre, e di Guido Alberti, ormai un vero attore. Ma anche le scene di popolo sono eccellenti: da quella del crollo a quella della zuffa, nel vicolo, fra napoletani e polizia.
(Giovanni Grazzini, ‘Il Corriere della Sera’, 6 settembre 1963)

 

 

Può darsi che qualche raffinato cultore dell’arte pura tenti di confinare il cinema di Rosi dentro i limiti dell’oratoria. Si tratta, comunque, di un’oratoria nutrita di dolore e di sangue, animata dal furore represso del Mezzogiorno che il boom può anestetizzare provvisoriamente senza avviare a nessuna soluzione concreta. Questa volta il regista napoletano ci racconta un’altra storia proibita dell’Italia che ancora attende il compimento delle promesse risorgimentali. […] Le mani sulla città è un film politico che rifiuta qualsiasi ricorso a soluzioni romanzesche e spettacolari. C’è il problema e ci sono gli uomini che ne rappresentano i vari aspetti; non c’è nessuna ricerca nella direzione della psicologia individuale, benché certe osservazioni lascino il segno. Con maggiore chiarezza che in Salvatore Giuliano, Rosi espone i fatti e non nasconde il giudizio: la separazione della politica dalla morale, di machiavellica memoria, è fonte di calamità civili; il trasformismo, con le sue alleanze ciniche e i suoi voltafaccia improvvisi, è la vera piaga del Sud, cioè dell’Italia. Questo è un esempio di cinema moderno e rigoroso, che si rivolge a un pubblico adulto e ha l’ambizione di risvegliare le coscienze. Non c’è nessuna semplificazione eccessiva, nessun ottimismo programmatico, nessuna velleità polemica fine a se stessa. Solo il discorso intransigente e incisivo di un artista che vuoi vedere chiaro nelle piaghe della nostra società. L’eredità del neorealismo non poteva essere raccolta meglio. Rosi è davvero il migliore degli allievi di Visconti e sta superando il suo maestro.
(Tullio Kezich, “Panorama”, 1963, ora in Il cinema degli anni Sessanta, 1962-1967, Edizioni Il Formichiere)

 

 

Rosi in Le mani sulla città non ha voluto rappresentare la particolare concezione dell'uomo che è propria al neocapitalismo; e questo, diciamolo subito, è un peccato perché si doveva secondo noi mettere l'accento, ancor prima che sulla rapacità della speculazione, sul carattere specifico, culturale di questa rapacità. In Le mani sulla città è invece raccontata una storia di complicità tra speculatori politici che è di tutti i tempi, anche se, nel caso di Rosi, essa si svolge a Napoli, ai giorni nostri. […]Rosi ha fatto un film chiaro, ben squadrato, inequivocabile, quasi didascalico nella fermezza degli intenti polemici. Questa prevalenza della polemica l'ha costretto a sacrificare le psicologie dei personaggi e anche, qualche volta, la poesia. La figura di Nottola per esempio, come del resto quelle di Maglione, del sindaco e dell'assessore comunale, pecca se non proprio di irrealtà per lo meno di sommarietà […] Dove invece Rosi mostra una mano di maestro è nella rappresentazione della realtà della città di Napoli. Rosi davvero in questo film si rivela regista di folle; le sequenze sulle strade di Napoli, sulle sedute del consiglio comunale, sul popolo e sulla borghesia napoletana ripresi nel loro aspetto più anonimo e più collettivo, sono quanto di meglio Rosi ha fatto da ultimo. La forza singolare, quasi espressionistica, di queste sequenze riscatta quanto di naturalistico c'è nell'impianto così che alla fine Le mani sulla città diventa non più soltanto un film sulla speculazione edilizia ma anche e soprattutto un film su Napoli. Rod Steiger ha fornito un'interpretazione eccellente, nella sua misura, sobrietà e descrizione, del personaggio difficile di Nottola. Accanto a lui bisogna ricordare Guido Alberti molto efficace nella parte dell'assessore Maglione eSalvo Randone come sem,pre bravissimo, in quella del sindaco.
(Alberto Moravia, “L'Espresso”, 20 ottobre 1963)

 

 

È ammirevole che con delle storie di beni immobili, di battaglie elettorali, e di discussioni al consiglio comunale, Rosi ci appassioni a questo punto. Si pensa a Otto Preminger, al suo vigore, alla solidità dei suoi racconti, ma Le mani sulla città, più mosso, più serrato di Tempesta su Washington, emana anche più calore.
(Jean Louis Bory, “Arts”, 11-17/9/1963)



In Le mani sulla città, i valori assoluti, secondo me, stanno più che non nella ossatura so­ciale del lavoro e nella problematica poli­tica che svolge (e che d'altra parte, soprat­tutto nel nostro paese, è coraggiosa e uti­le), nella capacità che dimostra di dominio della realtà, e di espressione della sua con­temporaneità molteplice. Nel senso della espressione diretta della realtà, senza in­termediari di carattere formale, o ideologi­co, o razionale, o simbolico. Soprattutto questo è chiaro nelle immagini del crollo, con la folla popolare, e i particolari più mi­nuziosi, in cui ogni singola azione riesce a distinguersi nelle sue componenti. Ecco un esempio: si prende un bambino (cadu­to nel crollo della casa) lo si mette nella barella, si introduce nel furgone della Croce Rossa, lo si lascia partire: intorno è la fol­la della popolazione. L'azione è accertata nelle sue componenti di contemporaneità e di successione... al limite Rosi potrebbe arrivare a esaminare una persona che cammina, facendo vedere ogni singolo muscolo che lo porta a camminare. Dunque in questo film interessante è la modernità e contemporaneità e realismo (un realismo quale è stato nel periodo d'oro del cine­ma, inteso come espressione diretta della realtà, all'incirca negli anni '30-'35, e in alcune opere del neorealismo italiano). E questa del realismo, è anche la linea più sana nella espressione cinematografica, cioè corrispondente a un uso corretto del mezzo filmico... Inoltre in Le mani sulla città, mo­rale e capacità espressiva si fondono.
(Carlo Levi, "Cinema Nuovo", n. 168, 1964)




Abbiamo il tipico Rosi  - come già nel Salvatore Giuliano, dove c'è un senso del documento preso in sé e per sé, senza i nessi a cui il documento andrebbe di solito collegato. In questo suo ultimo film i nessi sono più espliciti e l'efficacia dell'opera ne guadagna. Del documento egli si serve (è molto bravo in questo) per farne scaturire un suo giudizio e una sua presa di posizione. Il realismo sciolto dei suoi nessi (è un'obiezione da fare a tutto il 'neorealismo ' italiano) senza una considerazione generale sula realtà e sulla storia, non è realismo. Realismo è una parola difficile che solo pochi posso azzardare di usare, più o meno tutti ci siamo rotti le ossa (e ce le stiamo rompenso) su questa parola.
(Renato Guttuso, "Cinema Nuovo", n. 170, 1964)

 


Esponendo alla luce del sole gli ingranaggi dei giochi di potere, Rosi pone il problema dei rapporti tra morale e politica. Per chi detiene il potere la questione è presto risolta: fare politica significa addentrarsi in un campo in cui la morale tradizionale non ha più valore e dove contano soltanto l'opportunismo, la corruzione, la capacità di manovra. Per conquistare il potere e conservarlo, ogni metodo è ammesso. I discorsi demagogici e le prebende servono solamente a ottenere il consenso degli elettori in un sistema che è ormai soltanto un simulacro della democrazia. L'esercizio del potere, se praticato senza controllo, conduce a ogni genere di abuso e trasforma il cittadino in schiavo. Così si creano fortune colossali trasformando i terreni agricoli delle periferie in foreste di cemento, devastando il centro della città, sostituendo le case antiche con ignobili edifici che sconvolgono il tessuto urbano e costringono le classi più disagiate a trasferirsi.
Sostenuto dall'interpretazione espressionista di Rod Steiger e di Guido Alberti, dalla fotografia di Gianni Di Venanzo, che crea un clima opprimente attraverso l'uso di un bianco e nero fortemente contrastato, e dalla musica dalle sonorità metalliche di Piero Piccioni, Rosi trasforma il proprio film in una sorta di thriller politico. La sua messa in scena, lungi dall'essere una semplice ricostruzione documentaria, utilizza tutte le risorse dell'immaginario urbano. Napoli acquista così un'autonomia e una ricchezza figurativa capaci di trasformarla nell'emblema di tutte le metropoli occidentali colpite dal dramma della speculazione immobiliare. Il film vinse il Leone d'oro al Festival di Venezia nel 1963.
(Jean Gili, Enciclopedia del cinema Treccani, 2004)



 

Se non avessi visto Le mani sulla città mi sarebbe stato impossibile scrivere quello che ho scritto: ho imparato lo sguardo sulle cose da quel film. Senza il quale, tutto ciò che io e altri della mia generazione abbiamo fatto, non avrebbe potuto esserci. Ogni volta che incontro Rosi, glielo ripeto. E glielo ripeto volentieri anche oggi che lo incontro nel suo studio della sua casa romana dove abita da mezzo secolo, dove è sedimentata un'intera vita, affacciata su tutta Roma, che quasi sembra poterla toccare in punta di piedi sul balcone.[...]
Rosi è uno di quegli astri che illumina il cammino e guida chi è animato dalla stessa ossessione, nel perseguire lo stesso obiettivo: far comprendere il Meccanismo. Il meccanismo del potere, il meccanismo del dolore, le dinamiche fisiche-morali del dominio dell'uomo sull'uomo. Mostrare ciò che c'è dietro, sotto e a lato di un fatto. […]Altro che vecchio, invece. A distanza di cinquant'anni Le mani sulla città agli occhi di un ragazzo di oggi non dà la sensazione di parlare di cose ignote e lontane: si accorgerebbe che gli sta parlando dei suoi giorni, del potere che subisce, di qualcosa che lo riguarda.
(Roberto Saviano, Saviano incontra Rosi: "È ancora mani sulla città", “La Repubblica”, 18 agosto 2013)