De Sica e Zavattini

Noi due siamo come il cappuccino, che non si sa il latte qual è, e qual è il caffè, ma c'è il cappuccino. Questo significa che c'è stata una specie di vocazione a unirci, ci siamo uniti su una base reale, umana; e quando dico umana voglio dire certi valori espressivi che ci hanno trovato d'accordo subito in partenza, e vorrei dire, la semplicità, la chiarezza.

(Cesare Zavattini)




Incontratisi professionalmente nel 1935 al tempo di Darò un milione, l'uno protagonista, l'altro soggettista del film diretto da Camerini, De Sica e Zavattini danno vita, per trentanni, da I bambini ci guardano a Una breve vacanza, a uno dei pochi sodalizi artistici importanti del nostro cinema. Il lavoro tra i due non è esclusivo, spesso si lasciano per collaborare con altri e poi ritrovarsi. A volte litigano, ma poi la voglia di lavorare insieme ha sempre la meglio, fino alla scomparsa di De Sica.
Uno laziale partenopeo, l'altro emiliano, uno naturalmente elegante, l'altro così naturalmente 'contadino', l'uno a proprio agio con la voce, l'altro con la scrittura. Entrambi illuminati dalla visione dei film di Chaplin, Zavattini ha portato a De Sica una riserva inesauribile di storie e personaggi mai uguali, un nuovo sguardo sulla realtà e una vena irrazionale che gli hanno consentito di superare gli stereotipi del cinema italiano e lo hanno fatto volare molto alto. De Sica ha fatto uscire dai cassetti emiliani i fantasmi di Zavattini. Senza il suo istinto primario, di animale da palcoscenico e di 'set' che sapeva cogliere istintivamente la possibilità di esistere di una scena e di un personaggio, non avremmo avuto né i bambini Smordoni e Interlenghi all'interno del carcere, né Maggiorani e Staiola a tavola di fronte al bambino ricco, né il professore Battisti avrebbe replicato, con la sua querula, civilissima voce di cattedratico all'antica: "esistono delle leggi!". È De Sica che li ha fatti saltar fuori e vivere.

(Claudio G. Fava)




Lo stile di Rossellini è innanzitutto uno sguardo, mentre quello di De Sica è innanzitutto una sensibilità. La messa in scena del primo investe il suo oggetto dall'esterno. Non voglio dire, beninteso, senza comprenderlo e sentirlo perché questa esteriorità esprime un aspetto etico e metafisico essenziale delle nostre relazioni col mondo. Per comprendere questa mia affermazione basti confrontare il trattamento del ragazzo in Germania anno zero e in Sciuscià o in Ladri di biciclette. L'amore di Rossellini per i suoi personaggi li avvolge come una ganga; esso è la coscienza disperata della incomunicabilità degli esseri; quello di De Sica invece sprigiona dai personaggi stessi. Essi sono quelli che sono, ma illuminati dall'interno dall'affetto che egli porta loro. [...]
De Sica è di quei registi che non sembrano avere altro scopo che quello di tradurre fedelmente la loro sceneggiatura; le migliori qualità dei quali nascono dall'amore che essi portano al loro soggetto e dalla sua intima penetrazione. La messa in scena sembra modellarsi di per sé come la forma naturale di una materia vivente. [...] La messa in scena di un film di Rossellini si deduce facilmente dalle immagini mentre De Sica ci costringe a indurla da un racconto visivo che sembra non comportarne. Infine e sopratutto, il caso di De Sica è fino ad ora inseparabile dalla collaborazione di Zavattini, più ancora senza dubbio di quello che non sia in Francia il caso di Marcel Carné in rapporto con Jacques Prévert. La storia del cinema non offre forse esempio più perfetto di simbiosi tra lo sceneggiatore e il regista. Il fatto che Zavattini collabori a molti altri film (mentre Prévert ha scritto soltanto poche sceneggiature per altri oltre Carné) non invalida per nulla il fatto che De Sica rimane il regista ideale di Zavattini, colui che meglio lo esprime e, reciprocamente, Zavattini è lo sceneggiatore predestinato, per così dire, di De Sica, ma non De Sica senza Zavattini. È dunque con un certo arbitrio che stiamo distinguendo ciò che appartiene in proprio a De Sica, tanto più che abbiamo constatato la sua umiltà, almeno apparente, davanti alle esigenze della sceneggiatura. Dobbiamo dunque rinunciare a separare contro natura ciò che l'affinità nativa ha così strettamente unito.

(André Bazin, Vittorio De Sica, Guanda, 1953)