La nascita del film

La nascita del film

Nel 1915 ero pilota della squadriglia Champagne dell'aviazione francese. Il mio compito consisteva nel trasporto di un fotografo, che aveva la missione di scattare fotografie precise di sentieri e strade carrabili, insomma di ogni traccia di circolazione che conducesse al luogo in cui si presumeva fosse insediata una batteria tedesca.
Il mio fotografo ed io volavamo su un vecchio modello di aereo, ed eravamo tutt'altro che ansiosi di imbatterci nella contraerea tedesca. Quando eravamo attaccati, non avevamo praticamente nessuna possibilità di difenderci, ed eravamo troppo lenti per darci alla fuga. Ogni volta che il nemico ci incalzava, era sempre lo stesso caccia francese a venire in soccorso. Lo riconoscevo. Spesso, dopo avermi salvato la vita e dispersi gli aggressori, mi volava così vicino che potevo vedere gli imponenti baffi del pilota. Si chiamava Pinsard. Era il capitano della più vicina squadriglia di combattimento. Senza i suoi provvidenziali interventi non avrei oggi il piacere di narrarvi questa storia.
Molti anni dopo mi trovavo nei pressi del lago di Berre, in Provenza, per girare un film. Avevo scelto con cura un luogo che fosse distante almeno trenta chilometri da un'importante base aerea militare. Sfortunatamente, le luci dei riflettori attirarono l'attenzione di un pilota. Costui passò la parola ai compagni, e ben presto ci trovammo circondati da uno stormo di aeroplani rombanti, i cui piloti erano ansiosi di scoprire chi fosse la star femminile del film.
Era diventato impossibile registrare il sonoro. Decisi di fare visita al comandante della base, per chiedergli di mandare i suoi piloti in un'altra direzione. Con mia grande sorpresa, mi trovai di fronte il mio vecchio Pinsard. Era diventato un generale dalle numerose ed impressionanti decorazioni, per aver abbattuto in combattimento una quantità di aerei tedeschi durante la prima guerra mondiale. Lui stesso era stato abbattuto, più volte preso prigioniero e altrettante volte era evaso. Fu proprio il racconto delle sue evasioni a ispirarci la storia di La Grande illusion.
Ovviamente, ciò che volevo dire in quel film non si limitava al racconto della fuga di un gruppo di prigionieri. Volevo piuttosto esprimere un atto di fede nella fratellanza umana al di là delle barriere politiche, sottolineando l'idea che la divisione del mondo in nazioni è un sistema destinato a morire. Ma la storia delle evasioni del mio amico Pinsard era la trama necessaria per esprimere le mie convinzioni. Sono convinto che, oltre al talento degli attori, è stata la trama ad assicurare al film il suo grande successo, nel 1937.
Adesso, a distanza di ventidue anni il pubblico francese ha di nuovo accolto il film con grande favore. Probabilmente le mie idee risultano più accettabili oggi che a quell'epoca. Nel 1937 la presenza di Hitler e l'ascesa del nazionalismo in Germania e altrove rappresentavano una recisa confutazione delle mie idee. Ma io ero convinto che quella malattia non sarebbe durata in eterno.
Per tre anni ho bussato alle porte di tutte le case di produzione esistenti lungo gli Champs-Élysées: francesi o americane, italiane o inglesi, rifiutarono tutte di prendere in considerazione il progetto.
"L'eroina è solo una contadina", dicevano. "Non c'è glamour". "Ma non vedo come potrei fare entrare una ragazza sofisticata in una storia simile". "Tanto peggio! Nessuna star accetterebbe il ruolo della contadina". Oppure: "Chi è il cattivo?" "La guerra". "Il pubblico non capirà. Ci vuole un vero cattivo. Per esempio quell'ufficiale tedesco che comanda la fortezza...".
Con Charles Spaak, che scriveva con me la sceneggiatura, e Jean Gabin, che voleva fare la parte del pilota francese, cercavamo di essere convincenti, ma invano. Finalmente trovammo un gruppo di uomini d'affari che non avevano nessuna esperienza di cinema, e che pensarono di investire nell'impresa tre milioni di franchi (circa quarantamila dollari di allora). Alla fine del primo anno di circolazione avevano già realizzato un profitto dieci volte superiore alla spesa iniziale.

Jean Renoir (1959), Il passato che vive, a cura di Claude Gauteur, Bulzoni, Roma 1996




Nel gennaio 1936 un primo preventivo, il cui importo di un milione cinquecentoquattromila franchi, considerato come un budget medio dalla produzione dell'epoca, fu stabilito dalla Films Albatros per un film prima intitolato L'Evasion, poi Les Evasions du capitaine Maréchal e infine La Grande illusion, titolo dato per provvisorio e che Alexandre Kamenka accettò di produrre. Si stabilirono quattro settimane di riprese, con inizio in maggio e prevedendo di consegnare la copia standard in luglio. Ma la Films Albatros rinunciò, non essendo riuscito Kamenka a trovare dei distributori disposti ad investire finanziariamente, la causa insormontabile sembra risiedere nell'assenza di intrighi sentimentali. Uno di loro si augurava che Renoir e Spaak inventassero un personaggio di infermiera, il cui ruolo poteva essere affidato ad Annabella.
[…] Ogni sera, Renoir, Becker, Koch e talvolta Spaak, richiamato d'urgenza, si rinchiudevano per rimaneggiare la sceneggiatura, François Giroud aveva il ruolo di segretario. Contrariamente a quello che si può immaginare, il loro lavoro era soprattutto incentrato sulle scene da girare a Parigi, in studio, non sugli esterni che realizzavano in giornata, la sceneggiatura de La Grande illusion non è stata scritta senza dubbio 'giorno per giorno'. È una leggenda che le ricerche effettuate da Olivier Curchod hanno spazzato via.
Nella sua presentazione della prima fase della sceneggiatura, non datata ma terminata necessariamente prima della fine del dicembre 1935, François Truffaut credeva di poter mettere in dubbio la partecipazione di Charles Spaak all'elaborazione di questo 'trattamento provvisorio', che lo sceneggiatore ha peraltro affermato di aver scritto solo, interamente, a partire dalle sue conversazioni con Renoir. Ora, altre due fasi della sceneggiatura sono esistite, ugualmente anteriori all'ingaggio di Stroheim. Come il trattamento provvisorio, non sono firmate, e solo il secondo è datato, novembre-dicembre 1936. Datato, conviene precisarlo, dalla mano di Spaak. E se questo è dattiloscritto, il precedente è scritto a mano, e anch'esso scritto dalla mano di Spaak.
Lo studio del documento datato novembre-dicembre, il solo dei tre che assuma la forma di un découpage tecnico, mostra delle differenze rispetto al film terminato che, se non consideriamo alcune scene semplicemente scartate dal girato (un combattimento aereo, un personaggio tedesco che provoca i prigionieri) e lo sviluppo del personaggio di Rosenthal, reggono essenzialmente su Rauffenstein. Il carattere decisivo di queste modifiche non è da mettere in dubbio, è certo che soprattutto la confusione dei due ruoli di ufficiale tedesco ha dato al film una spina dorsale che probabilmente gli sarebbe mancata. Quanto all'apporto di Stroheim al suo personaggio, fu talmente considerevole che Rauffenstein assunse un'importanza che Renoir e Spaak non avevano previsto.

Pascal Mérigeau, Jean Renoir, Flammarion, Paris 2012





Queste suggestioni, e in particolare l'idea del busto di ferro e della mentoniera, danno al personaggio [Rauffenstein ndc] un rigore esteriore in accordo col suo carattere. Stroheim apportava anche la sua collaborazione a Renoir per i problemi militari che il film sollevava. La sceneggiatura fu ripresa da Spaak, Renoir e Becker mentre cominciavano a girare gli esterni in Alsazia, questo al fine di sviluppare il personaggio che doveva interpretare Stroheim. “L'improvvisazione” continuava a mantenere lo spirito di cooperazione nel quale Renoir amava lavorare, non rifiutava nessuna delle collaborazioni che potevano arricchire l'opera comune.
La Grande illusion
fu presentata nel 1937 in un clima politico che contribuirà senza dubbio, a dispetto di un'accoglienza quasi unanimemente calorosa, a distorcere il senso del film, riducendolo ad un'arringa pacifista, che mascherava la ricchezza dei temi che affrontava.

Pierre Leprohon, Jean Renoir, Seghers, Paris 1967.



Il titolo del film La Grande illusion fu scelto molto più tardi da Renoir, che lo prese in prestito dal romanzo di Norman Angell pubblicato nel 1941. Charles Spaak affermava di non aver mai capito appieno cosa volesse dire realmente il titolo. L'illusione era credere o fingere di credere che ciò che unisce gli uomini durante la guerra possa durare anche a guerra finita. Nella prima stesura del copione, due dei fuggitivi si lasciavano con la promessa di incontrarsi da Chez Maxim's la notte di Natale del 1918. La scena finale doveva essere la visione di due sedie vuote a testimonianza che le barriere sociali avevano avuto il sopravvento. Girato così sarebbe stato sorprendentemente simile al finale di One Way Passage (Amanti senza domani, 1932) di Tay Garnett, nel quale William Powell e Kay Francis si giurano qualcosa di simile e si comportano nello stesso modo.

André Brunelin, Gabin, Arsenale editrice, Venezia 1988.