Antologia critica

Antologia critica

Nel maggio del '40 venne dato alla Triennale del Parco il film di Renoir, famosissimo, La grande illusione. Vedendo che, dopo più di dieci anni, La grande illusione sta per essere data in Italia ci è venuto in mente quella profumata sera di maggio di sette anni fa (ma sembra passato un secolo!) quando un pubblico di entusiasti applaudì, a pochi giorni dall'entrata in guerra, il bel film francese, quasi a scongiurare la catastrofe che si sentiva nell'aria, imminente.
Ci sembrò, allora, una cosa enorme, una specie di sacrilegio contro l'intelligenza che il direttore non avesse capito quel segno dato dalla città più importante d'Italia. Ma è fatale che certi segni non vengano mai interpretati dai fanatici destinati al massacro. Cosa dirà, oggi, agli italiani La grande illusione? È difficile dirlo, visto che 'la grande illusione' è la guerra. Si hanno però buone ragioni di credere che questo film sia ora più accettabile nel paese di De Gasperi che nella patria di De Gaulle...
Intanto, mentre le immagini sono immobili e serene, la gente ha camminato. Il regista Renoir è costretto a fare dei brutti film in America perché è, in Francia, accusato di bigamia: Fresnay ha interpretato San Vincenzo de' Paoli, che è un bel salto dall'ufficialetto francese de La grande illusione. Quanto a Jean Gabin egli è sempre lo stesso. Si è accontentato, in privato, di scoprire il fascino di Marlene Dietrich, adesso che è nonna.

Pietro Bianchi, L'illusione di Renoir, "Candido", 9 novembre 1947



 

Non sono sicuro che La grande illusione sia il film più realista di Renoir, ma sono certo che se la sua efficacia è rimasta intatta, questo dipende prima di tutto dalla sua componente realista. Gli indizi sono molti e il più visibile è la molteplicità delle lingue. All'indomani della Liberazione film come L'ultima speranza e soprattutto Paisà spazzarono via fortunatamente le vecchie convenzioni drammatiche che permettevano agli eroi di tutte le origini di capirsi senza difficoltà nella lingua di Shakespeare, Dante o Molière. Per poco tempo purtroppo perché già oggi vediamo ad esempio un cinema ritenuto realista come quello britannico che ci presenta dei film di resistenza che si svolgono in una Parigi dove le portinaie parlano inglese. Molto prima del neorealismo, Renoir fonda il suo film sull'autenticità dei rapporti umani attraverso il linguaggio. Pabst, è vero, l'aveva fatto nella Tragedia della miniera, ma in modo molto meno acuto. Qui il tratto di genio che dà alla trovata tutto il suo sapore umano, è l'uso della terza lingua, l'inglese, tra von Rauffenstein e de Boeldieu, non più lingua nazionale ma lingua di classe che isola i due aristocratici dal resto della società plebea.
L'invenzione di un terzo termine è d'altra parte uno dei dati più felici della struttura de La grande illusione sia per quel che riguarda la sceneggiatura che la regia. Abbiamo visto lo sdoppiamento del tema della nobiltà fra Fresnay e Stroheim, ma è bene sapere che all'inizio Rosenthal non esisteva. Ora questo personaggio che aggiunge l'idea di razza all'idea di classe, approfondisce in maniera fondamentale il senso del film contribuendo nello stesso tempo a evitare il carattere schematico dell'antitesi Fresnay-Gabin.
Realismo anche dei rapporti umani: diciamo verità o meglio ancora veracità. Veracità peraltro forse meno sensibile nei rapporti fra i personaggi principali che, senza diventare mai dei simboli e mantenendo un senso del pittoresco sempre straordinariamente gustoso, risentono però delle esigenze drammatiche della sceneggiatura, di quanto non lo sia quella che Renoir ha saputo creare fra il primo piano dei protagonisti e tutto il secondo piano della comparse: le guardie tedesche, i soldati semplici, i sottufficiali e ufficiali sono disegnati con una veracità stupefacente (non diciamo più una verità, che è ancora relativa all'esperienza di ognuno). Questo realismo non è quello della copia , ma un'invenzione dell'esattezza che sa restituire, al di fuori di ogni convenzione, il dettaglio insieme documentario e significativo. L'invenzione di un personaggio come il signor Arthur, e la sottile complicità che intreccia con i suoi prigionieri, è una creazione che sfiora il sublime. Il suo gioco di scena quando Carette, davanti alla festa, gli grida sopra la testa degli ufficiali superiori: "Ti piace, Arthur", è un'istante geniale di cinema puro. E che dire dei piani abbastanza brevi in cui scorgiamo gli ufficiali inglesi: tutta una cultura è evocata in pochi secondi senza che nessun particolare significativo produca mai l'effetto di ciò che è "tipico" o atteso.
In realtà si deve parlare qui di invenzione e non di una semplice riproduzione documentaria. L'esattezza del dettaglio in Renoir è tanto il prodotto dell'immaginazione quanto dell'osservazione della realtà da cui sa sempre liberare il fatto significativo ma non convenzionale. La sequenza più esemplare da questo punto di vista è probabilmente le celebre scena della festa con l'annuncio della riconquista di Douaumont. Da questa brillante idea un regista abile non poteva fare a meno di realizzare un pezzo di bravura; ma Renoir vi aggiunge dieci trovate che la trasformano in qualcosa di ben più importante di un pezzo di antologia, un solo esempio: l'idea di far intonare La marsigliese non da un francese, ma da un ufficiale inglese travestito da donna.
È la molteplicità di queste invenzioni realiste che rende solida la stoffa de La grande illusione e che oggi mantiene intatto il suo splendore.

André Bazin (1958), Jean Renoir, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012



 

Jean Renoir non ha fatto un film di guerra. Ha mostrato degli uomini di fronte alla guerra, giunti ad essa con una formazione, in uno spirito determinato, denunciando, al di la di questi paragoni, ciò che la guerra ha di vano, di inutile; come non risponda ad alcuna verità umana, non risolva alcun problema. Non aveva come scopo quello di rivelare l'orrore della guerra e lo prova la scelta di situare la sua storia tra degli uomini che, giustamente, sono prigionieri di questa guerra, non la fanno più. Questo fatto, che non sottolinea molto, eppure rende vana un'accusa come quella che formula "Premier Plan", di non trovarvi nel film che una "guerra in merletto". L'intenzione degli autori era altrove. Il loro film mette in evidenza la vacuità delle frontiere e allo stesso tempo la crudeltà che implica la loro esistenza. Lo scopo è di mostrare come la guerra separa degli esseri che potrebbero essere uniti. Senza essa, Boeldieu e Rauffenstein sarebbero stati amici; Maréchal ed Elsa avrebbero formato una coppia. Ciò che separa gli uomini, più che le frontiere, sono le classi e qualche volta le razze - il personaggio di Rosenthal - ma, paradossalmente, questa guerra che separa i popoli, riunisce le classi. Senza essa, Boeldieu e Maréchal non si sarebbero mai incontrati, hanno imparato a stimarsi. Questo dubbio cammino contraddittorio è la chiave del film. Questo denota un doppio aspetto dell'incomprensione tra gli uomini, vale a dire quello che richiama all'unione, all'amicizia. E Renoir è giunto a questa conclusione senza negare per questo la realtà dei fatti: il nazionalismo (la scena de La Marseillaise), le differenze di educazione (i rapporti tra Boeldieu e Maréchal), ciò che crea e mantiene le barriere tra gli uomini. Questa complessità di intenzioni e dell'espressione denota il valore profondo del film, al di la dell'interesse aneddotico che non esclude talvolta, è giusto dirlo, una certa compiacenza.
C'è infine ne La Grande illusion, ciò per cui Renoir evita la trappola del convenzionale che sfiora a più riprese: la misura, il tatto, possiamo anche dire la nobiltà, con la quale è condotto ogni episodio, e soprattutto i rapporti tra i due aristocratici condannati e le scene finali, dopo il contrasto tra i due evasi fino all'idillio con Elsa. Quanto questi pudori colpiscono oggi nel nostro cinema di parossismi!
Dei tagli dovuti alla censura avrebbero alterato nel 1937 la versione originale de La grande illusion. Una nuova uscita nel 1946 veniva troppo presto dopo la seconda guerra; suscita il rifiuto pure di critici lungimiranti, quali Georges Altman che vi denunciava una sorta di "omaggio a tutte le concessioni, a tutti gli abbandoni".

Pierre Leprohon, Jean Renoir, Seghers, Paris 1967



 

La Grande illusion (1937), il meno contestato dei film di Renoir, è costruito sull'idea che il mondo si divida orizzontalmente per affinità, e non verticalmente per barriere. Se la seconda guerra mondiale, e soprattutto il fenomeno dei campi di concentramento, ha intaccato la tesi esaltante di Renoir, gli attuali tentativi "europei" mostrano che la forza di questa idea era in anticipo sullo spirito di Monaco. Ma La Grande illusion è ugualmente un film in costume non diversamente da La Marseillaise, perché vi si pratica una guerra ancora improntata sul fair-play, una guerra senza bombe atomiche e senza torture.
La Grande illusion
era dunque nient'altro che un film di cavalleria, sulla guerra considerata, se non come una della belle arti, per lo meno come uno sport, come un'avventura in cui si tratta di cimentarsi tanto quanto di distruggersi. Gli ufficiali tedeschi stile Stroheim furono ben presto esclusi dall'esercito del Terzo Reich e gli ufficiali stile Pierre Fresnay sono morti di vecchiaia. La grande illusione consiste quindi nel chiedere che questa guerra sia l'ultima. Renoir sembra considerare la guerra come un flagello naturale che ha i suoi aspetti positivi, come la pioggia, il fuoco; e si tratta, come dice Pierre Fresnay, di "fare la guerra educatamente". Secondo Renoir è l'idea di frontiera che bisogna abolire per distruggere lo spirito di Babele e riconciliare gli uomini che continueranno tuttavia ad essere divisi per nascita. Ma il denominatore comune tra gli uomini esiste: è la donna, e l'idea più felice del film è senza dubbio, dopo l'annuncio della riconquista di Douaumont da parte dei francesi, di fare intonare La marsigliese da un soldato inglese travestito da donna che si libera, cantando, della parrucca.
Se, contrariamente a molti dei film di Jean Renoir, La Grande illusion ha entusiasmato tutti, subito e ovunque, è forse perché Renoir lo ha girato a quarantatré anni, vale a dire a un'età corrispondente a quella del suo pubblico. Prima di La Grande illusion i suoi film apparivano giovani e aggressivi, poi sembrarono disincantati e sferzanti. Infine, La Grande illusion, bisogna riconoscerlo, nel 1937 era in ritardo sui tempi se si pensa che un anno dopo, in The Great Dictator (Il grande dittatore, 1940) Chaplin andava già abbozzando una rappresentazione del nazismo e delle guerre che non rispettano la regola del gioco.

François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978



 

Molti si sono interrogati sul significato del titolo: La grande illusion che Renoir non ha che dato al suo film solo dopo averlo girato ma sufficientemente per ascoltare bene le ultime frasi del dialogo, quando Meréchal (Jean Gabin) e Rosenthal (Marcel Dalio) si stanno per separare nella neve alla frontiera svizzera:
Maréchal
: Il faut bien qu'on finisse cette putain de guerre...en espérant que c'est la dernière.
Rosenthal
: Ah, tu te fais des illusions!
La grande illusione è dunque l'idea che questa sia l'ultima ma è anche l'illusione della vita, l'illusione che ciascuno si fa del ruolo che gioca nell'esistenza e credo che La Grande illusion si sarebbe potuta chiamare La Régle du jeu (e inversamente), tanto è vero che questi due film, così come altri di Jean Renoir, si riferiscono implicitamente a questa frase di Pascal che lui ama citare: "Ciò che interessa più l'uomo, è l'uomo".
Se la carriera di Jean Renoir non è sempre stata facile, è in quanto il suo lavoro ha sempre privilegiato i personaggi rispetto alle situazioni drammatiche.
Ora, La Grande illusion sviluppa la sua azione in due campi di prigionia, la situazione forte, sempre desiderata dal pubblico, era creata automaticamente: tutto può succedere in un campo di prigionia o anche le piccole azioni della vita quotidiana prendono l'intensità di peripezie eccezionali. Per la stessa ragione il pubblico ha accettato ed apprezzato ne La Grande illusion delle componenti dello stile di Jean Renoir che aveva rifiutato o di cui aveva diffidato nei film precedenti: il cambiamento di tono, il gusto generico dei discorsi, i paradossi e soprattutto un senso molto forte degli aspetti bizzarri della vita quotidiana, ciò che Jean Renoir chiama la "magia della realtà". La coabitazione forzata che è la base della vita militare e più ancora della vita in prigione, permette di fare risaltare le differenze di classe, di razza, di pensiero e di abitudine e, naturalmente, Jean Renoir si evolve in questo scenario come "un pesce nell'acqua". L'idea che ha così spesso espresso che il mondo si divide orizzontalmente e non verticalmente, cioè per affinità piuttosto che per nazionalità, fa la sua apparizione nel film quando Eric Von Stroheim dice al suo prigioniero Pierre Fresnay: "Ho conosciuto un de Boeldieu, un conte de Boeldieu" e Fresnay risponde: "Era mio cugino". A partire da li, si stabilisce una complicità, possiamo anche dire una relazione eccezionale che ci permette di affermare che se il personaggio della contadina tedesca (interpretato da Dita Parlo), che vivrà una breve avventura con Jean Gabin rifugiato nella sua fattoria, non esisteva, c'era ugualmente una storia d'amore nella Grande illusion. Durante tutto il film, Stroheim, vecchio combattente che sente la sua condizione di comandante della cittadella come tanto umiliante quanto quella di guardiano dei giardinetti, è pieno di amarezza e di disprezzo per il gruppo di prigionieri francesi, tranne de Boeldieu. È a lui che domanda, un momento, di dare la sua parola che non ci sia niente di nascosto nella camera. Fresnay da la sua parola, quando ha appena nascosto una corda ma all'esterno della camera, lungo la grondaia. Poi dice a Rauffenstein (Stroheim): "Ma perché la mia parola piuttosto che quella degli altri?". Rauffenstein risponde: "Hum! La parola di un Maréchal, di un Rosenthal? - Vale la nostra. - Forse!".
É probabilmente a causa di questo rapporto che si è stabilito in funzione della loro origine nobile che Fresnay rifiuterà di evadere con i suoi camerati, loro dicono che hanno più possibilità in due, ma nonostante ciò lui li aiuterà nel loro tentativo nel creare un diversivo all'ora X.
Durante questa scena dove è ammirevole e che Jean Cocteau ha così ben descritto: "Voi vedrete Fresnay incarnare il bravo figlio, il duro dall'anima alta, che suona il flauto, in guanti bianchi, sotto i proiettori di una fortezza tedesca, come un pastore fantasma di Antoine Watteau, per permettere di fuggire ai suoi camerati". È in questa stessa scena che vedremo Stroheim, sconvolto, rivolgersi a Fresnay in inglese per non essere compreso che da lui solo e supplicarlo di arrendersi prima che lui, Stroheim, non sia costretto a sparare da sopra. Poi Fresnay, colpito mortalmente dal colpo di revolver di Stroheim, cesserà di vivere, noi vedremo Stroheim tagliare con delle forbici il fiore di geranio sul davanzale della sua finestra, l'unico fiore della fortezza. Ecco la storia d'amore che percorre tutta La Grande illusion, legata, parallelamente alla cronaca dei rapporti tra Jean Gabin, Marcel Dalio e Carette che rappresentano rispettivamente tre tipi di francesi: l'ingegnere venuto dal popolo, l'ebreo di buona famiglia e l'attore parigino. Tutti questi personaggi sfuggono, malgrado la mia descrizione semplificata, dagli stereotipi e sono filmati con un grande realismo come voleva Jean Renoir: "Ne La Grande illusion, ero ancora molto preoccupato del realismo. Sono arrivato fino al punto di chiedere a Jean Gabin di indossare la mia giubba d'aviatore che avevo conservato dopo essere smobilitato". Ma, partendo alla ricerca della verità, Renoir saprà voltare le spalle a tutti gli stereotipi dei film di guerra.
[...] La Grande illusion segna allo stesso modo il debutto della collaborazione di Jean Renoir con Julien Carette che sarà in qualche modo lo Sganarelle di questo film e che seguirà la stessa composizione attraverso la Marseillaise, la Bête Humaine (a fianco di Gabin) e soprattutto La règle du jeu ( a fianco di Dalio). Nella maniera in cui Renoir utilizza Carette, la sua sagoma scherzosa, saltellante, furba e piena di vitalità, non è difficile riconoscere un omaggio preciso a l'attore che Jean Renoir ha ammirato lungo tutta la sua carriera: Charlie Chaplin, sì Charlot, colui che sfugge ai suoi inseguitori con delle scivolate geniali o con delle astuzie infantili, si nasconde per esempio dietro una grossa donna che spingerà al momento opportuno contro il suo avversario. C'è anche questo personaggio di Carette chiamato semplicemente "L'attore" nella sceneggiatura, che permette a Renoir di introdurre ne La Grande illusion come in tanti suoi film, l'idea di spettacolo. Se consideriamo che La Grande illusion si divide in tre parti, è ben chiaro che la parte centrale è consacrata allo spettacolo, alla festa che i prigionieri vogliono dare. Innanzitutto considerano di rinunciarci venendo a sapere, durante le prove, che le truppe tedesche hanno preso Douaumont. Danno ugualmente il loro spettacolo ed è durante la grande serata in cui "l'attore" si distingue che Jean Gabin chiede il silenzio ed annuncia che i francesi hanno "preso Douaumont". Questo determina il più bel momento del film, quando vediamo allora un soldato inglese travestito da "girl" togliersi la parrucca, slacciare a metà il suo corsetto ed intonare la Marsigliese. Quest'iniziativa conduce Jean Gabin in cella e quando ne uscirà, i tedeschi avranno questa volta "preso Douaumont". Il passaggio di tempo, il lato interminabile di questa guerra, sono suggeriti in modo mirabile.

François Truffaut, Preface, in Jean Renoir, La Grande illusion, Balland, 1974

 

La Grande illusion è una storia di evasioni. Titolo paradossale (deciso da Renoir, a film terminato, e variamente interpretato dalla critica), per un'opera che ci dice sì che la pace è un'illusione, che la grande guerra non sarà l'ultima, ma ci dice anche e con maggiore forza che è illusorio chiudere gli uomini dentro steccati, che il bisogno di libertà è connaturato alla nostra specie, e che i nostri simili non smetteranno mai di infrangere le barriere che li vogliono imprigionare.
Steccati, barriere, rigidità: fisiche (le reti che cingono i campi di prigionia, le mura e le alte torri della fortezza di Wintersborn) ma anche morali: le classi sociali, le tradizioni, i pregiudizi di razza, religione, costumi. Tutto il film lavora su queste barriere, e la guerra non è altro che la cartina tornasole che ne fa apparire la vacuità, l'ottusità, in definitiva l'illusorietà, almeno nel senso della loro artificiosità rispetto ai bisogni "naturali" dell'uomo.
La prigionia estremizza l'assurdità di queste convenzioni, le "frontiere orizzontali", perché radicalizza il bisogno di libertà; la guerra mette in luce la criminosità dei confini tra gli Stati (le "frontiere verticali"), produttori di morte. Morbo "democratico", la guerra è anche il morbo dei morbi, che, se mette a tacere le malattie di classe, lo fa grazie ad una forza criminale maggiore. La sua vittoria è la vittoria della morte, e l'aureola di eroismo che l'ha circondata appartiene ad un passato barbarico, a uno stadio primitivo dei rapporti umani, a un'età del ferro forgiatrice di armi e di eroi che sono senza paura perché sono ignari della bellezza del vivere.
"Per un uomo del popolo è terribile morire in guerra. Ma per lei e per me, è una buona soluzione", sono le ultime parole di uno degli ultimi cavalieri di una civiltà giunta ormai alla sua fine. E a de Boeldieu, von Rauffenstein risponderà rammaricandosi di aver perduta la sua, analoga, occasione, e di essere ancora costretto a "trascinare" un'esistenza resa "inutile" dall'impossibilità fisica di combattere.
Casta in via di estinzione quella dei de e dei von è la casta dei dinosauri carnivori, degli squali d'alto mare, elementari organismi dediti ad una sopravvivenza per la quale non provano, in definitiva, che indifferenza. Boeldieu e Rauffenstein sono, in ultima analisi, gli "obbedienti" per eccellenza, gli unici veri obbedienti a una regola che non hanno contribuito a determinare, che hanno ereditato come un privilegio e di cui non sanno fare altro che adoperarsi per perpetuarlo.
Privo del senso dell'umorismo che caratterizza il francese, Rauffenstein è il personaggio tragico per eccellenza nel film, e la sua chiusura, la sua autocensura, si scontra continuamente con l'imprevisto, sia esso la passione letteraria ritrovata fuori dai luoghi consueti, sia l'insospettato uso filantropico dello spettacolo grazie al quale due prigionieri otterranno la libertà.
Anche il suo amore per l'arte e per la bellezza è imbrigliato nel cliché, segnato dalla rigidità della morte. Il controllo dei sentimenti assume in lui i caratteri della castrazione, evidenti perfino con il gesto con il quale rende omaggio, recidendo l'unico fiore della fortezza, all'amico appena ucciso. Non solo, ma si può osservare nella linea di un Rauffenstein dominato dal segno della castrazione, l'uso, da parte di Boeldieu, del flauto, simbolo sessuale, e la sanzione della morte che suggella quest'uso, proprio ad opera di Rauffenstein.
L'ideale cavalleresco viene così sottoposto da Renoir ad una critica serrata, secondo una modalità che abbiamo visto ricorrente in tutto il suo cinema. Qui Jean, pilota di aerei da ricognizione durante la grande guerra, interviene ancora una volta su se stesso, su una componente della propria personalità di cui, al pari del naturalismo e di altri elementi di pesantezza e rigidità, proprio attraverso l'arte della regia vuole liberarsi.
[...] Come già in Chotard et Cie, Monsieur Lange e Les Bas-fonds, e come sarà in La Règle du jeu, lo spazio del set è piuttosto uno spazio circoscritto (i cortili nei primi tre, la villa nel quarto, gli spazi delle due prigioni qui), colto secondo continuità spazio-temporali. E la recitazione ha lo stesso rilievo dello spazio in cui si situa, misurabile proprio come volume d'aria in cui i personaggi sono immersi, partecipi di un unico destino.
Indici stilistici di questa volontà di lavorare sul gruppo e per il gruppo e di stabilire continuità spazio-temporali sono le frequenti inquadrature in cui le porte e le finestre collegano gli ambienti, con la cinepresa che le attraversa evitando accuratamente i tagli di montaggio, che stabilirebbero, con il campo-controcampo, dinamiche drammaturgiche più ovvie e di segno diverso. Ciò che conta, per Renoir, è visualizzare il passaggio della parola dall'uno all'altro dei personaggi: la cinepresa si fa veicolo fisico, come l'aria, come l'ambiente, delle complicità e della stessa possibilità della comunicazione.
Il campo/controcampo mostrerebbe i personaggi ma non potrebbe mostrare lo spazio che c'è tra loro, potrebbe soltanto farcelo arguire o cogliere intellettualmente. Renoir sceglie la strada dell'emozione e della partecipazione: se è la relazione tra gli esseri umani la sostanza del discorso, il legame spaziale tra i personaggi può farcela sentire, questa sostanza, assai meglio di qualunque processo puramente intellettuale. Ed è l'occhio della cinepresa che ci restituisce questo legame, manifestazione di quello che si instaura sul set tra gli attori, e tra questi e il regista. Rifiutandosi di "analizzare" la scena, come avviene invece nel découpage classico, la cinepresa di Renoir diventa l'occhio partecipante capace di materializzarne lo spazio (attraverso la profondità di campo, i carrelli e le panoramiche) e, così facendo, di assicurare quella particolare "verità" della recitazione che permette la totale adesione dello spettatore alla sostanza profonda del discorso. La cinepresa di Renoir rompe in un modo particolarissimo con il cinema di finzione classico, con le sue barriere drammaturgiche.

Giorgio De Vincenti, Jean Renoir, La vita, i film, Marsilio, Venezia 1996



 

Presentato in chiusura dell'Esposizione Internazionale di Parigi (maggio 1937), La Grande Illusion ottiene un trionfo: secondo un sondaggio della 'Cinématographie Française' è il miglior film dell'anno. 'Dall'estrema sinistra all'estrema destra, tutti lodano la grandezza, la sobrietà, l'umanità di un film che svetta sulla produzione corrente. Ci si rallegra della sua apoliticità e si sottolinea, a sinistra, i suoi accenti pacifisti, a destra il suo vigore nazionalista' scrive Olivier Curchod sul numero di 'Synopsis' dedicato a Renoir.
Ma perché ancora oggi La Grande illusion è considerato uno dei film migliori, se non addirittura il migliore, di Renoir? Senza dubbio per merito della sua modernità. Non c'è un personaggio centrale, ma delle coppie che si formano e si sciolgono a seconda delle circostanze: De Boëldieu-Maréchal, Rosenthal-Maréchal, Elsa-Maréchal o De Boëldieu-Rauffenstein. Per la sua audacia: Renoir riesce a fare un film di guerra senza rappresentare la guerra e ha la faccia tosta di ammettere, tre anni pirma che scoppi il conflitto, che non si possono odiare i tedeschi e che ci sono più affinità tra un meccanico tedesco e un meccanico francese che non tra un De Boeldieu e un Maréchal. Per i suoi virtuosismi tecnici: la sequenza della Marsigliese contiene uno dei movimenti di macchina più audace del cinema francese dell'epoca: la visione frontale della scena termina in una visione frontale del pubblico senza che ci sia la minima interruzione nel piano sequenza.
Eppure, a leggere la sceneggiatura, La Grande illusion è uno dei film più sconclusionati di Renoir. È anche uno dei più difficili da finanziare: infatti nessuno voleva produrre queste Évasions du capitaine Maréchal (titolo originale del film), sebbene fosse ispirato a una storia vera.
Il personaggio di Rauffenstein deve moltissimo a Stroheim; l'arrivo del grande Eric costringe Renoir a riscriverne il ruolo, amplificandolo in maniera impressionante (all'inizio era poco più di un'apparizione). 'Certe trovate di Stroheim - ci ricordava Charles Spaak - erano decisamente folli, come ad esempio la storia del geranio. Come credere a questo aristocratico prussiano che si prende cura di una piantina in vaso?... E Renoir accetta! Renoir parlava male il tedesco, non capiva l'inglese, erano Becker e Françoise Giroud, la segretaria di produzione, a fare da interpreti. Renoir perdeva tutte le sue facoltà. Stroheim aveva un'idea nuova al giorno: il collare ortopedico, anche quello è un'idea sua...'. 'Dalla feconda collaborazione tra i due cineasti viene fuori - scriverà Bazin - una delle più belle trovate del film: lo sdoppiamento del tema dell'aristocrazia tra il capitano francese e il comandante tedesco. Sdoppiamento che permette un dialogo e una meditazione sulla nobiltà molto più sottili che la semplice antitesi tra Maréchal e De Boëldieu. Grazie ai felici suggerimenti di von Stroheim, Renoir si accosta fin d'ora al tema delle 'classi''.
Di tutti questi suggerimenti Renoir sa cogliere quelli che veramente arricchiscono la scena. Ad esempio nella camera della fortezza di von Rauffenstein colloca, sotto un grande crocifisso di legno scolpito, un paio di guanti bianchi, un secchiello per lo champagne, le Memorie di Giacomo Casanova, un servizio d'argento dove il comandante beve 'un caffè atroce' e il vaso col geranio cui Rauffenstein dedica cure religiose... Renoir, che conosce meglio di chiunque altro il cinema di Stroheim, non si lascia ingannare. Questa sequenza è interamente ricalcata sulla scena iniziale di Queen Kelly, dove Stroheim inquadra la camera della regina in campo lungo: una bottiglia di champagne nel secchiello del ghiaccio, boccette di veronal, un libro ammiccante e la fotografia di un'ufficiale! Renoir avrebbe potuto sentirsi spossessato del suo film. È per questo che, se si crede a Maurice Bessy, pochi giorni prima della presentazione alla stampa, il regista avrebbe addirittura pensato di non firmare il film!
La Grande illusion
si distingue per l'eliminazione sistematica di qualsiasi aspetto ideologico, alcuni arrivarono a parlarne in questi termini: 'Ciò che fa la superiorità dell'opera di Renoir è l'assenza totale di pressioni di parte' (François Vinneuil in "Je suis partout"). Queste parole non riflettono un'opinione generale, ma si vede farà strada l'idea chiave che Renoir ha sempre voluto difendere. La Grande illusion ci presenta una comunità eterogenea in forma di microsocietà, cioè riunisce equamente tutte le classi sociali, rappresentata ciascuna da un personaggio fortemente 'tipizzato'.
L'uso dell'inglese tra Rauffenstein e De Boëldieu è un'idea geniale. Pabst l'aveva già usato in La tragedia della miniera. Ma il suo bilinguismo era realistico. 'Qui l'inglese diventa lingua di classe che isola i due aristocratici dal resto della società plebea' (André Bazin).
Quando il film uscirà a Parigi dopo la guerra e in assenza di Renoir, la critica sarà meno unanime! Vi si trova un odore di antisemitismo, molte battute vengono censurate, viene soppressa la sequenza della scoperta degli abiti da donna e del prigioniero travestito, come anche un'inquadratura di Elsa e Maréchal abbracciati... Un prigioniero francese che ama una tedesca faceva scandalo nell'immediato dopoguerra.
Nel 1937, invece, il film fu percepito come filosemita. Il personaggio di Rosenthal (che prefigura quello di Le Chesnaye, sempre interpretato da Dalio, in La Régle du Jeu), questo ebreo che nell'arco di due generazioni è riuscito a comperare un castello con tanto di conigliere, cacce e una galleria di antenati al gran completo, irritò gli antisemiti, che attribuivano agli ebrei il declino politico e culturale della Francia.

Roger Viry-Babel, La Grande illusion, in Aldo Tassone, Roger Viry-Babel (a cura di), France Cinéma 2001. Retrospettiva Jean Renoir, Il Castoro, Milano 2001.



 

Ciò che mostra molto bene La Grande illusion, in tutti i casi, è in che modo la situazione di prigionia induca ognuno a vaneggiare: il maestro parla di suo cognato a Parigi, e poco dopo l'attore sottolinea: "Ça va ça va! On le sait que tu bouffes chez ton beau-frère". Ma lui prosegue a proposito del suo tic, la sua stupida cosa verbale, di intonare "Frère Jacques", come poco fa, senza preoccuparsi troppo di fare ridere, infila il suo "Professeur-soeur Anne, Annecy, Sicambre, Cambronne..."
Lo stile dei dialoghi di Spaak riposa su assemblaggi di frasi molto corte. Per esempio, avendogli Rauffenstein domandato delle notizie di suo cugino, Boeldieu risponde: "Ça va très bien, il est très content. Il a un bras en moins et il a épousé une femme très riche". Questa successione di componenti della frase evoca curiosamente una delle prime battute del personaggio nel film, che serve a collocarlo: è prima che i francesi siano fatti prigionieri, quando si tratta di prendere l'aereo, e lui domanda se preferisce "une combinaison ou une peau de bique" (dettaglio pittoresco, che, all'uscita del film nel 1973, serviva a raccontare tutta un'epoca passata). E Boeldieu, a tono, con un inflessione sarcastica: "Aucune préférence; les combinaisons sentent mauvais, et les peaux de bique perdent leurs poils". L' "et", qui, che sembra semplice e che è tutto ciò che si ha di più artificiale, è un procedere tipico dei dialoghi del cinema.
C'è ne La Grande illusion qualcosa di molto concreto: il film divide la società verticalmente, poi mostra che, nella guerra, gli umani si raggruppano secondo le loro rispettive classi, con questa differenza, che se dalla parte del popolo, non possiamo che scambiare delle parole maldestre e dei gesti affettuosi tra prigionieri che non parlano che francese, e carcerieri che non parlano che tedesco, dalla parte dell'aristocrazia, Rauffenstein parla francese, ciò che gli permette di comunicare con de Boeldieu. A volte dunque parla questo francese coltivato "avec l'accent" che i francesi amano tanto ascoltare, a volte, come segno della loro complicità, Rauffenstein e Boeldieu si parlano in inglese.
Le lingue dei paesi avversari sono presentate separatamente. Delle scene parallele cominciano per fare parlare i personaggi francesi e tedeschi di cose gradevoli ed edonistiche: le donne, l'alcool. Poi quando si rincontrano, così è quello che succede: Rauffenstein si presenta nella sua lingua, Boeldieu in francese, e Rauffenstein risponde in francese ("enchanté"), mostrando la sua conoscenza della lingua di Molière, ma anche il suo rispetto di questa. Non c'è della reciprocità, Boeldieu non pronuncia una parola in tedesco per tutto il film.
L'altro personaggio bilingue del film è l'ebreo Rosenthal, "figlio dei banchieri Rosenthal", nato in una famiglia ricca, è caratterizzato come cosmopolita. Il fatto che lui parli tedesco sembra naturale agli altri personaggi, come se tutti gli ebrei dominassero più lingue. Perché c'è, durante la breve scena del pasto con Rauffenstein, uno scambio di propositi in inglese, che si presume non siano compresi dagli altri, mentre il contenuto - si tratta di un parente del capitano recitato da Fresnay, che ha conosciuto Rauffenstein, e che era un "marvelous rider", "un très bon cavalier" - non ha niente di clandestino?
Probabilmente all'inizio per preparare il loro ultimo confronto, dove avranno da parlarsi senza essere compresi tanto dai tedeschi quanto dai francesi. Ma anche per creare una reciprocità e creare un terreno linguistico neutro; l'inglese non è la lingua madre ne dell'uno ne dell'altro. E ancora per concretizzare la loro complicità di classe e di gusti. I tre momenti in cui parlano brevemente inglese prima della loro scena finale (mortale), riguardanti i loro comuni piaceri da aristocratici: l'arte dell'equitazione e la frequentazione di donnette di Parigi.
In bocca a Boeldieu, che afferma: "Je dis vous à ma mère et vous à ma femme" sono messe delle parole un po' espansive, occasione di fargli addossare le trovate verbali dei dialogisti. Per esempio, guarda dei giovani soldati tedeschi fare esercizio, ed i prigionieri allestire il loro spettacolo: "D'un côté, des enfants qui jouent aux soldats, de l'autre des soldats qui jouent comme des enfants". Più lontano ancora, più duro, facendo allusioni a degli sport all'epoca notevolmente aristocratici: "À quoi sert un terrain de golf? - À jouer au golf - Un court de tennis? - À jouer au tennis. - Un camp de prisonniers ça sert à s'évader." Quando l'invita a prendere la sua parte dell'incavo di un tunnel, lui dice elegantemente: "Je me suis laissé dire que la reptation était un exercice des plus salutaires". Non c'è così spesso l'occasione di piazzare la parola "reputazione" nel dialogo di un film.
Al contrario Maréchal ha un repertorio di parole ed esclamazioni popolari. Ma ha anche un grazioso tic, molto toccante. Quando sente una parola o un nome che non conosce , lui "fa come se", di un'aria d'intesa, poi, a scoppio ritardato, si informa. Avendo domandato la sua professione esatta a "l'ingegnere" recitato da Gaston Modot, lui capisce la parola "catasto", e dice " Ah oui! Le cadastre". Due minuti dopo, con cautela , si lancia in una domanda: "Si tu permets, je voudrais te poser une question. - Vas-y. - Qu'est-ce que le cadastre?" Gabin distacca l' "astre" e l'articola esageratamente, come se questa parola avesse qualcosa di straordinario e di comico alla base. E la scena termina la (lo spettatore non avrà la risposta nel film). Stesso gioco più tardi, con i prigionieri di cui il capriccio e di ritradurre le odi di Pindaro, è ciò che suscita l'ironia generale degli altri. Maréchal si lancia con questa bella replica: "Dis-donc, je t'lai jamais demandé, parce que, dans le fond, je m'en fous, mais qu'est-ce que c'est que ton Pindare?" Qua lo dice con una voce grossa sulla "a" di Pindaro, come poco prima con quella di "cadastre". "Le plus grand poète grec!", risponde con pomposità il traduttore, e Maréchal non può che ripetere: "le plus grand poète grec! Mon vieux!", una superba idea di dialogo.

Michel Chion, La langue des films français, XXI. La grande illusion de Jean Renoir, "Bref", n. 81, gennaio-aprile 2008.