Jean Renoir sul film

Jean Renoir sul film

L'adattamento cinematografico del romanzo di Zola La bestia umana assorbe tutto il mio tempo e tutti i miei sforzi; tuttavia ci tengo a dire al popolo americano ciò che significa a parer mio La grande illusione.
Sono assai felice che La grande illusione sia rappresentata davanti a voi, e nello stesso momento è con un sorriso amaro che sento Hitler sbraitare alla radio, esigere la spartizione della Cecoslovacchia. Siamo sull'orlo di un'altra "grande illusione". L'atmosfera terrificante della guerra pesa virtualmente su di noi. Negli intervalli delle riprese de L'angelo del male, i fotografi, gli elettricisti, i macchinisti, gli attori, i tecnici, sbalorditi, si guardano, scuotono la testa, alzano le spalle. Se Hitler sapesse quale malessere ci procura, andrebbe in visibilio. Personalmente, rifiuto di dargli questa soddisfazione. Chi può dimenticare il Führer? Ma non permetterò che la mia ostilità nei suoi confronti influenzi le mie azioni o i miei pensieri. È dunque una questione personale tra me e Hitler. Se migliaia di uomini considerassero in tal modo questa minaccia, il flagello della guerra non si abbatterebbe ancora una volta sull'umanità.

Ho realizzato La Grande illusion perché sono pacifista. Per me, un vero pacifista è un francese, un americano, un tedesco autentico. Verrà il giorno in cui gli uomini di buona volontà troveranno un terreno d'intesa. I cinici diranno che, in questo momento, le mie parole rivelano una fiducia puerile, ma perché no? Per quante preoccupazioni susciti, Hitler non modifica per nulla la mia opinione sui tedeschi. Dalla mia più tenera età, ho amato e stimato questo popolo: se per esempio un antico affetto mi legasse ad un amico, ed egli diventasse sifilitico, sarebbe questa una ragione sufficiente per negargli la mia amicizia? Di tutto cuore e con tutti i mezzi, cercherei di ridargli la salute.





Ne La Grande illusion mi sono sforzato di mostrare che in Francia non si odiano i tedeschi. Il film ha avuto un grande successo. Non è migliore di altri, ma semplicemente traduce ciò che il francese medio, mio fratello, pensa della guerra in generale. Per lungo tempo si è rappresentato il pacifista come un uomo dai capelli lunghi, dai pantaloni sgualciti, il quale, appollaiato su una cassa di sapone, profetizzava senza tregua le calamità che sarebbero sopraggiunte e cadeva nell'angoscia alla vista di un'uniforme. I personaggi de La Grande illusion appartengono a questa categoria. Essi sono l'esatta replica di quel che noi eravamo, noi, la "classe 1914". Perché ero ufficiale durante la guerra e ho conservato un vivo ricordo dei miei compagni. Non eravamo animati da alcun odio contro i nostri avversari. Erano dei buoni tedeschi come noi eravamo dei buoni francesi...

Sono convinto di lavorare a un'ideale di progresso umano presentando sullo schermo la verità non mascherata. Attraverso il ritratto di uomini che compiono il loro dovere, secondo le leggi della società, nel quadro delle istituzioni stabilite, credo di aver portato il mio umile contributo alla pace nel mondo. Avrei voluto che un tedesco, dopo lo spettacolo, si dicesse: "Questi francesi sono brava gente. Mangiano e bevono esattamente come noi. Come noi hanno bisogno d'amore e, soprattutto di amicizia". E quando pensano dei tedeschi i francesi che conoscono il film. Disgraziatamente i tedeschi non hanno il diritto di vederlo. Ne sono profondamente dispiaciuto. La cosa più penosa per me è che la vita di un film sia così breve. La tecnica si evolve, la recitazione degli attori cambia. Effimeri come la moda, i nostri film cadono nell'oblio e vanno a raggiungere quelli che in altri tempi ci hanno commosso. Nello stesso istante in cui avrebbe potuto risultare benefica, La Grande illusion viene bandita dal "Grande Reich".

Per caso, il giorno in cui i nazisti entrarono a Vienna, si dava il mio film. Senza perdere un'istante, la polizia lo proibì e ne interruppe immediatamente la proiezione. É una storia che mi riempe di orgoglio. A rischio di farmi trattare da "rompiscatole", colgo tutte le occasioni per raccontarla. Non posso farne a meno. Non è ai miei occhi una distinzione di ordine militare, ma di ordine morale; così non sono costretto a restituirla al Führer, come Henri Bernstein al Duce la sua Croce di San Maurizio e Lazzaro.

Jean Renoir (1938)



Facendo La grande illusione in collaborazione con Charles Spaak avevo cercato di dimenticare i venti anni di pace che avevamo appena vissuto e di ritrovare la mia mentalità di ragazzo di venticinque anni, lanciato nella mischia con altri compagni della stessa età. Sembra cosa da poco, ma mi è costata molta fatica. Gli anni passano, le persone si sono fatte del combattente, e in particolare dell'ufficiale in guerra, un'idea molto falsa. Si sono stilizzati i personaggi, li si è, per così dire, abbelliti. A poco a poco la realtà si è cancellata di fronte a uno stereotipo che il mondo ha adottato. La letteratura, lo spettacolo, il giornalismo, hanno contribuito non poco all'edificazione di queste marionette. Ed è così che gli stessi interessati, i vecchi ufficiali della guerra, hanno dimenticato quel che erano stati e hanno sinceramente creduto alla realtà dei fantocci che la convenzione presentava loro nel suo specchio deformante.

Tutto è cominciato con le canzoni. Sin dal periodo della guerra, alcuni fabbricanti di eroismo si sono messi a comporre motivi a un tempo marziali e salaci. Devo confessarlo? Raramente ho sentito cantare La Madelon in una unità veramente combattente. L'ho sentita diverse volte a teatro, in caserma, nei campi di vettovagliamento, nelle ambulanze. Ma attenti a non sbagliarsi: per quelli che stavano in trincea, tutti questi posti erano già la "retroguardia". Una canzone che ho spesso sentito in trincea è Sur le bords de la Riviera. Sous les ponts de Paris godeva anch'essa di un grande successo. In genere quelli che combattevano avevano un certo debole per la romanza sentimentale: 93 à Paris, Quand je danse avec mon grand frisé, Entends- tu le tic-tac du moulin?, Le Femme aux bijoux. Adesso, la maggior parte dei miei vecchi compagni combattenti hanno completamente adottato La Madelon. E hanno fatto bene, perché è una canzone affascinante, ma io mi permetto di ricordare che è l'esempio perfetto di canzone da retroguardia, composta in uno spirito da retroguardia, e spedita ai combattenti come si spediva loro del pâté di fegato in tubetti da dentifricio, dei giochi del domino troppo piccoli e altri accessori cosiddetti a uso del fronte che le "madrine" compravano nei reparti specializzati dei grandi magazzini. Adesso le stesse donne vanno negli stessi magazzini al reparto "beneficenza" ad acquistare degli oggetti speciali per i bambini poveri. Se fossi un povero, avrei orrore di questa carità umiliante e di questi oggetti che sanno di prigione. Neppure i combattenti apprezzavano molto quegli ingenui invii.

Dunque, facendo un simile film rischiavo di turbare molte persone le cui idee si sono evolute senza che esse se ne rendessero conto. Ma sono sicuro che il mio film avrà dei sostenitori e un mucchio di compagni di guerra ritroveranno sullo schermo compagni analoghi a quelli che hanno conosciuto. In questo film, mi sono sforzato, con Spaak, di non mostrare nessuno di anormale. I nostri personaggi appartengono a categorie sociali molto differenti. Abbiamo un aristocratico, un uomo del popolo, un ebreo, un insegnante, un attore. Di fronte a loro ci sono dei tedeschi. E i francesi di questo film sono dei buoni francesi, i tedeschi dei buoni tedeschi. Dei tedeschi di prima della guerra del '39... dei tedeschi di prima di una guerra in cui ci si è spesso comportati miseramente e in cui il Terzo Reich ha violato le più elementari regola dell'umanità. Ma La Grande illusion è solo una rievocazione della guerra '14-18.

Non mi è stato possibile prender posizione per alcuno dei miei personaggi. In questo film non ci sono traditori? Non c'è nemmeno un dramma d'amore. C'è una storia d'amore, ma talmente semplice che non è neanche una storia. Tutto ciò esce un po' dai canoni abituali del cinema e anche dello spettacolo drammatico. Spero, nondimeno, che si troveranno di nuovo spettatori disposti ad accogliere con benevolenza questa evocazione della nostra giovinezza. [1946]

Jean Renoir, La vita è cinema, Longanesi, Milano 1978



 

All'inizio della mia vita cinematografica mi interessava solo l'artificiale. Poi, come ho spiegato a proposito dell'impiego della pancromatica, ebbi un periodo di realismo assoluto. Adesso credo sia impossibile separare il realismo dalla rielaborazione, sia sulla scena che sullo schermo. In Nana avevo potuto mettere in pratica il mio culto per la fantasia che affiora da elementi reali. L'inverosimiglianza della realtà supera l'immaginazione del miglior decoratore. Catherine Hessling era andata a consultare i giornali di moda dell'epoca al Museo della arti decorative. Lestringuez e io stesso eravamo convinti che nonostante il suo talento Claude Autant-Lara era ben lontano dalla fantasia che scaturisce dai vari costumi dell'epoca. Ma anche in questo caso avevo torto: gli abiti di Nana sconcertavano il pubblico almeno quanto la personalità dell'attrice. In questo, come in altri campi, il pubblico vuole rielaborazioni. La verità può essere urtante. Devo ammettere che non ho mai completamente accettato la lezione di Nana.

Ne La Grande illusion ero ancora molto preoccupato dal realismo. Sono arrivato al punto di chiedere a Gabin di indossare la tunica da aviatore che avevo conservato dopo essere stato congedato. Nello stesso tempo però non esitavo a rinforzare alcuni punti in maniera fantasiosa pur di aumentare certi effetti, come per esempio con l'uniforme di Stroheim. La sua parte, in un primo momento insignificante, era stata decuplicata appositamente per lui perché avevo paura che di fronte alla massa che gli opponevano Gabin e Fresnay il suo personaggio mancasse di peso. In arte come nella vita è sempre questione di equilibrio. Il problema sta nel mantenere allo stesso livello i due piatti della bilancia. Per questo mi presi nei confronti dell'uniforme di Stroheim libertà poco compatibili cone le teorie realistiche che sostenevo all'epoca. La sua divisa è autentica ma di una ricchezza lussureggiante sconosciuta a un comandante di campo di prigionia durante la Grande Guerra. Avevo bisogno di quella ricchezza teatrale per controbilanciare la grandiosa semplicità dei due francesi. La Grand illusion, nonostante le sue apparenze rigorosamente realiste, offre esempio di stilizzazione che ci riportano verso la fantasia. Queste aperture all'illusione le devo in gran parte a Stroheim. Gliene sono profondamente riconosciute. Sono incapace di realizzare un buon spettacolo se non lascio che sia più o meno invaso dal fiabesco.

L'evocazione di questo film mi riporta a un periodo della mia vita cinematografica particolarmente felice. Ero riuscito a far assumere il mio amico Carl Koch per controllare l'autenticità della parte tedesca del film. Koch era marito di Lotte Reiniger, autrice a sua volta di meravigliosi film di ombre cinesi. Li avevamo conosciuti, Catherine Hessling e io, quando fu presentato a Parigi il suo capolavoro Il Principe Achmed. Eravamo diventati eccellenti amici e abbiamo partecipato insieme a diverse avventure cinematografiche.

Jean Renoir, Il realismo e La Grande illusion, in La mia vita i miei film, Marsilio, Venezia 1992