Le ragioni di un culto

Le ragioni di un culto

Dave Kehr lo ha giustamente definito una “versione aggiornata al 1977 di Gioventù bruciata” e un “piccolo solido film, privo di complessità ma fatto con mestiere”. È però anche il dance movie di grande successo che catapultò John Travolta verso la fama dopo una breve carriera teatrale e televisiva (in particolare in I ragazzi del sabato sera).
Da Follie d’inverno a Spettacolo di varietà fino a La La Land, la maggior parte dei musical rivela un lato maniaco-depressivo, una tendenza ad attraversare i vari stati d’animo dalla depressione all’euforia. Saturday Night Fever esaspera in maniera singolare questo schema oscillando tra due visioni contrastanti: il quartiere di Bay Ridge a Brooklyn è una sorta di inferno in terra in cui gli abitanti trascorrono le giornale a umiliarsi reciprocamente, mentre la gloria e l’esaltazione vissute ballando nella discoteca 2001 Odissey assumono tratti paradisiaci e utopici. Chi ricorda il film con affetto tende a concentrarsi sul secondo aspetto, ma è l’interazione tra i due registri che gli conferisce energia.
La sceneggiatura di Norman Wexler (Joe, Serpico, Mandingo) si ispira a un articolo apparso sul “New York Magazine”, Tribal Rites of the New Saturday Night: l’autore, il critico musicale britannico Nik Cohn, una ventina d’anni dopo confessò che il pezzo era frutto d’invenzione più che d’osservazione. Ma il film di John Badham – che nel director’s cut dura cinque minuti di più – fonda i suoi dettagli su un mondo perfettamente credibile. Diversamente dalla maggior parte dei musical, in Saturday Night Fever le incursioni nella pura fantasia sono poche; forse l’unica è quella in cui Tony (Travolta) e Stephanie (Karen Lynn Gorney) si baciano nel momento più intenso della gara di ballo. Va comunque detto che la scena di ballo culminante è un’altra: il precedente assolo di Tony, la sera in cui Stephanie non si fa vedere in discoteca. Come suggerì Jerry Lewis nella sua parodia di questa scena in Hardly Working (Bentornato, picchiatello!), il tipo di fantasia suscitata dal ballo di Travolta è più solipsistica che romantica: l’affermazione di un trionfo solitario.

(Jonathan Rosenbaum, Il Cinema Ritrovato 2017 catalogo, Edizioni Cineteca di Bologna, 2017)




Saturday Night Fever
divenne inaspettatamente un grande successo di pubblico, consacrando la musica dei Bee Gees e il carisma di John Travolta, al suo primo ruolo da protagonista: un successo tanto influente da trasformare presto l'attore in un fenomeno di costume e da appiccicargli per molto tempo l'etichetta di ballerino e playboy. L'icona di Tony Manero, bullo dal cuore d'oro che vive per esibirsi nel fumoso inferno del 2001 Odyssey, con il suo completo bianco da boss italoamericano, è rimasta scolpita nella memoria del cinema non solo statunitense. Il film, ispirato a un reportage sulle 'tribù' giovanili newyorkesi, può essere inserito all'interno di un filone che denuncia la giovane società americana e che aveva già trovato una pietra miliare nel precedente Mean Streets (Mean Streets Domenica in chiesa, lunedì all'inferno, 1973) di Martin Scorsese, che pur seguiva altri presupposti. Saturday Night Fever pone l'accento sulla vacuità degli ideali e sull'isolamento dei ventenni allo sbando, ruotando intorno al piccolo mondo sotterraneo delle discoteche, dove si può essere re per una notte e continuare al risveglio a condurre un'esistenza qualunque. La pista da ballo diventa l'unica oasi dove acciuffare un riscatto. Per Tony, l'energia e la vita si producono nella danza e nel rituale del suo preparativo: capelli gonfiati dal phon, camicia stesa sul letto, il suo sguardo che si riflette nel poster di Al Pacino/Serpico (icona mitica del ragazzo, assieme a quelle di Bruce Lee e di Sylvester Stallone/Rocky). La vita di Tony Manero si trascina inesorabilmente tra un lavoro che non gli piace, le liti serali in una famiglia dove la madre non fa che farsi il segno della croce e il padre la rimbrotta, seguite da nottate tutte uguali, scivolando dalla macchina alla discoteca e poi al ponte, senza meta. Il piccolo quartiere di Bay Ridge è il fulcro di un mondo dove nulla accade. È solo attraverso la rivendicazione sociale di Stephanie che il ragazzo percepisce che al di là di quel ponte, forse, esiste un'altra strada.
(Federica De Paolis, Enciclopedia del cinema, Treccani, 2004)




La febbre del sabato sera
ha imposto in tutto il mondo alla fine degli anni Settanta la disco music e la club culture, ed è per questo che il film di John Badham nella memoria collettiva non è più il drammatico ritratto di una generazione senza futuro e di una città pericolosa, ma un’antologia di scene cult in cui il ballo in pista e le melodie su base elettronica dominano incontrastati.
Il vero centro carismatico del film è però John Travolta, la cui icona nasce nel giro di qualche mese, in seguito all’enorme successo internazionale. Danzando al ritmo del pop sincopato dei Bee Gees, il corpo di Travolta si trasforma in simbolo per un’intera generazione, contribuendo a scolpire La febbre del sabato sera nella memoria collettiva. I suoi movimenti sinuosi, la pettinatura, gli abiti kitsch indossati con grande consapevolezza hanno saputo fondere virilità e tratti più levigati e femminili, ingredienti di un mix simbolico esplosivo.
(Roy Menarini, “MyMovies”, giugno 2017)




La febbre del sabato sera
esce in pieno consolidamento mainstream della disco music, un anno e mezzo circa prima della curva verso il basso delle vendite […]. Il film di John Badham non è solo una prova del fatto che la disco è entrata in una fase di globalizzazione. Può anche essere interpretato come un vettore di questa stessa globalizzazione. Infatti la pellicola ottiene successi planetari conquistando i botteghini USA ed europei. La colonna sonora del film è campione di incassi in Europa come nel resto dell’occidente (a fine anno ha venduto trenta milioni di copie: il maggiore incasso lordo di tutti i tempi all’epoca). Nel documentario The Secret Disco Revolution (Jamie Kastner, 2012), La febbre del sabato sera è considerato la più grande vittoria della disco, espressione perfetta della cultura della dance music al suo apogeo: una rivoluzione che si estende al cinema, agli altri media, al vestiario, alla moda, al costume, al sesso.
(Claudio Bisoni, “Cinergie. Il cinema e le altre arti”, n. 9, aprile 2016)