Antologia critica

Antologia critica

Il film di Truffaut è il contrario d'un film scabroso, d'un film 'parigino'. Jules e Jim non sono mai ridicoli, e se Catherine è talvolta irritante, non è mai odiosa. Una sorta d'innocenza, di profonda purezza, preserva tutti e tre dalla bassezza. Qualsiasi cosa ne possano pensare gli ipocriti, la loro storia è una bella e dolorosa storia d'amore. Il merito essenziale di Truffaut è d'averci fatto credere a questa innocenza e a questo amore.

Jean de Baroncelli, "Le Monde", 26 gennaio 1962




Non so niente di Henry-Pierre Roché, del quale non ho neppur letto il libro. Ma un po' del suo segreto sussiste nella trascrizione di Truffaut. E non credo di ingannarmi pensando che la bellezza del romanzo (sensibile nel film) viene dal fatto che è autobiografico. Senza di ciò la storia sarebbe quella, cosi sfruttata, del triangolo. Per essere sfuggita così alla banalità, per interessarci come al dramma unico e senza precedenti, irriducibile, di tre esseri che sanno che la loro sofferenza e le loro gioie non assomigliano a niente altro, anche se la loro avventura può avere allo sguardo di terzi l'apparenza della mediocrità, evidentemente un po' di queste gioie e di queste sofferenze devono essere passate nel libro a cui uno dei protagonisti ha consegnato i suoi ricordi, e dal libro nel film di un appassionato regista. Mi sbaglio, forse? Ma di dove verrebbe allora questa impressione d'autenticità? Le belle menzogne dell'arte raramente danno una tale impressione di verità.

Claude Mauriac, "Le Figaro Lettéraire", 27 gennaio 1962




È un lavoro di alta precisione. Questo ragazzo ha davvero il dono del cinema. Le sue immagini, il ritmo che vi imprime, la sua abilità nelle dissolvenze, le sue inquadrature, la luce che, da abbagliante all'inizio del film, si attenua insensibilmente quando il vaudeville volge in tragedia, per finire nel tenue chiaroscuro del cimitero: tutto ciò è fatto da grande cineasta con uno stile e una purezza d'espressione assai rari.

Jeander, "Libération", 29 gennaio 1962




Truffaut cerca di raccontare (e presumibilmente farci sapere) come dev’essere quando due uomini allegri s’innamorano della stessa bizzarra ragazza. Ed è, per farla breve e dirla chiaramente, affascinante, eccitante e triste. […] Il fascino nel racconto di Truffaut di questa curiosa relazione non sta tanto nei conflitti personali. […] Sta nell’organizzazione complessa e originale degli elementi scenici e nell’esposizione dei caratteri. Jeanne Moreau è cangiante come un prisma luminoso e infonde al personaggio femminile una qualità seducente ed eterea. […] Le emozioni sono ampiamente veicolate dalla colonna sonora, che Georges Delerue ha reso un elemento dominante del film. Questa e i lunghi interventi della voce narrante […] conferiscono al film una qualità sonora che appare strana per il film di un artista così cinematografico come Truffaut.
Bosley Crowther, “The New York Times”, 24 aprile 1962




Film di nevrosi e di cinema, di gioco e di passione, di distanza e di vicinanza, di divertimento e di dolore, nel quale Truffaut ha anche (molti anni prima della voga delle liberazioni sessuali, del ritorno del femminismo, dei tentativi di utopia vissuti da parte di una generazione, quasi intera) descritto un tentativo di utopia, una nevrosi determinata dalla scarsità delle possibilità umane e sociali di liberazione, con la sconfitta di proposte troppo in avanti (il rapporto amicizia/amore, il rapporto a tre, la serenità padroneggiata della donna). Oggi, dopo l'ondata delle liberazioni e il loro rientro, fa un effetto particolare rivedere Jules e Jim: e ci sembra un incunabolo di cose a venire, come una conclusione già data, la previsione della (parziale ma vasta) sconfitta anche delle più collettive delle rotture.

Goffredo Fofi, in Truffaut. L'uomo che amava il cinema, Rotazione & Rivoluzione, 1989




Anche quando diventa più angoscioso, quando più i suoi personaggi soffrono, o comunque quando propone una morale come minimo problematica, Jules e Jim trasmette sempre sensazioni di freschezza e di leggerezza. Quelle che avevano colpito il giovanissimo Truffaut in un romanzo d'esordio scritto da un signore di settantasei anni, da cui aveva pensato di trarre un film ancor prima di iniziare I quattrocento colpi. Leggerezza che egli riprodurrà in questo suo terzo film e accentuerà con la disinvoltura, tutta nouvellevaguista appunto, del suo stile, che unisce una veloce e 'fredda' voce narrante a dialoghi brillantissimi, filmati di repertorio, ricostruzioni d'ambiente e squarci en plein air, buffonerie e momenti di riflessione, senza che mai si avvertano fratture o salti di tono, trasportati come si è da un'onda narrativa ed emotiva continua e inarrestabile, attraverso gli anni, i confini, i paesaggi, le traversie dei personaggi. I quali, anche per chi si voglia leggere poi il romanzo di Henri-Pierre Roché [...] sono ormai indissociabili dagli attori del film, quegli attori a cui Truffaut teorizzava doversi adeguare i personaggi, all'opposto di quanto previsto dalle tradizionali pratiche di regia. Attori che 'funzionano' più che per bravura per simpatia: col sorriso triste del biondo Oskar Werner, la mobilità nervosa del francese Henri Serre e soprattutto la sfuggevolezza e l'enigmatica bellezza, insieme da statua greca e da garçonne parigina, di Jeanne Moreau, la "femme fatale qui me fut fatale" come lei stessa canta, con la sua voce appena roca, in Le Tourbillon, la splendida canzone di Bassiak che del film è come un sottotitolo sonoro, la perfetta sintesi di forme e contenuti.

Alberto Farassino




Il tema eterno del melodramma – l’amore troppo bello per durare – trattato con intelligenza e sensibilità da François Truffaut. […] Con questo film del 1961 Truffaut si avvicina allo spirito e allo splendore del suo mentore, Jean Renoir, e il risultato è uno dei capolavori della nouvelle vague.
Dave Kehr, “Chicago Reader”, 12 dicembre 2006