Antologia critica

Antologia critica

Nel 1978 Annie Hall vince quattro Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura e attrice protagonista. Woody Allen non lascia New York e non va a Hollywood a ritirare il suo premio, ma trova il modo di far sapere che “il film è il risultato di tutto ciò che nella mia vita e nel cinema rappresenta Diane Keaton”. L’autobiografia è trasparente e autorizza la chiamata in causa dello spettatore: nell’immagine d’apertura, Woody Allen guarda negli occhi il pubblico e comincia a parlare di sé. L’interpellazione diretta tornerà più e più volte, talora producendo climax comici; l’idea di infrangere l’ordito classico della narrazione viene ad Allen da Passione di Bergman (nel tempo sono stati chiamati in causa, come possibili fonti, anche Ionesco e Pirandello, le tecniche di straniamento brechtiano e Groucho in Horse Feathers). L’impatto di Annie Hall, messa in opera di una “disintegrazione romantica” (Peter Bailey) e conseguente disintegrazione linguistica, fu assai vasto: quel che Diane Keaton aveva rappresentato andò a modellare un certo gusto dei tempi, un glamour femminile fatto di seducente insicurezza, interloquire svagato, lieve dipendenza farmacologica e larghi pantaloni, cappelli, cravattine, con evidenti omaggi allo stile Kate the great (il primo incontro di Alvy Singer e Annie Hall, la partita a tennis, il quasi estorto passaggio in macchina rimandano a Susanna!). Se Annie è musa e genius loci (il locus, naturalmente, è New York) l’ego del nostro eroe non rinuncia al centro della scena: tormentato dall’ineluttabilità del binomio sesso e morte, Alvy specula, interpreta, interroga se stesso e il mondo, soprattutto elegge la memoria a privilegiato playground: una memoria di sé che gli si offre ricca, orizzontale, variegata, percorribile in ogni direzione, giocosamente o malinconicamente combinatoria. La divagatio mentis è così libera che Allen si ritrova con oltre duecento minuti di girato, ridotti poi agli attuali novantatre (spariscono le fantasie più surreali). D’altra parte per Alvy Singer, ebreo, intellettuale, umorista, ipocondriaco, moralista newyorkese fisicamente allergico alla fatua amoralità californiana, la memoria non può non essere un punto nodale: vede e rivede il documentario sull’Olocausto Il dolore e la pietà, e alla fine della storia con Annie conclude che è stato bello anche solo averla incontrata, se comunque restano i ricordi, proustiani ‘istanti perduti nel tempo’ che vediamo scorrere mentre la voce di Diane Keaton sussurra Seems like old times e per un attimo il montaggio depura la vita da ogni scoria, da ogni gesto sbagliato o tempo morto. Alvy e Annie si baciano contro lo skyline di Manhattan visto dal Franklin Delano Roosevelt Drive: comincia ufficialmente l’era Woody Allen, everyman senza uguali della commedia cinematografica moderna.

Paola Cristalli (Catalogo Il Cinema Ritrovato 2017)




Io e Annie è
bello (fotografato da Gordon Willis), fa sentir bene ed è veramente un buon film; le battute si succedono ad un ritmo vertiginoso e sono tanto più godibili in quanto sono profondamente radicate nei caratteri e nell'ambiente. I temi e l'apparato comico di Allen sono stati drasticamente semplificati. Non si serve più di elaborati meccanismi parodistici come nel Dormiglione e in Amore e guerra; non c'è più quella maliziosa rielaborazione visiva di paesaggi da fantascienza o di vita russa come la può vedere un osservatore ossessionato da Bergman o da Tolstoj. La collocazione di Io e Annie è essenzialmente Manhattan, i suoi appartamenti, i marciapiedi, le librerie, i circoli del tennis, gli studi degli psicanalisti, i ristoranti, le panchine dei parchi e i cinematografi – tutto ciò serve soprattutto da sfondo neutrale per la ginnastica verbale della coppia dei protagonisti.

Geoff Brown (Sight and Sound, 1977)




C'è una cosa rara in Io e Annie. È ciò che io definirei ‘lo sdoppiamento del protagonista’. Per Woody Allen non si tratta di creare, con Diane Keaton-Annie Hall, un doppio femminile, al tempo stesso vulnerabile e materno, attraverso il quale il comico-uomo apparirà ancora più unico (sarebbe come dire ‘figlio unico’), ma di far esistere, cosa molto più difficile, al suo fianco, un altro, e per di più una donna. Ciò che c'è di più valido e commovente in Io e Annie, non è il fatto che Annie risulti comprensibile attraverso, e soltanto attraverso, il desiderio e i fantasmi del maschio americano (di cui sarebbe la creatura, più o meno rivoltata, che erige lo spettatore a fruitore dello spettacolo di questa rivolta), né il film ci consegna la coppia ‘oggettivamente’ in una sorta di ‘vita a due’ alla Cayatte (con beneficio d'inventario per lo spettatore); il fatto è che Annie esiste, fuori del film, non è un personaggio enigmatico ma realistico, con tutte le sue lacune. E la distanza tra Annie e Alvy, nell'ultima sequenza del film, senza i tremori nello stile di Breve incontro (potremmo intitolarlo piuttosto ‘Un lungo legame’), è, in quanto distanza, del tutto misurabile. E a questo punto la comicità di Woody Allen vola alta.

Serge Daney (Cahiers du cinéma, 1977)




Il miglior film di Woody Allen, una storia d'amore autobiografica, un Allen molto incisivo sull'amore romantico, i rapporti umani, la notorietà, New York contrapposta a Los Angeles ed una grande varietà di temi. Caldo, spiritoso, intelligente, vincitore di premi Oscar. Guardandolo bene potrete scoprire delle future star come Jeff Goldblum (al party di Los Angeles), Shelley Hack (per la strada), Beverly D'Angelo (sul monitor TV) e Sigourney Weaver (nel ruolo della ragazza di Allen in una lunga sequenza verso la fine del film).

Leonard Maltin (Video and Movie Guide, New York, 1993)




In Io e Annie Allen va al di là dell'allusione politica arrogante, la strizzatina d'occhio e il brio ‘up to date’ di Mark Sahl o Bop Hope. Allen ci mostra, attraverso il suo alter-ego Alvy Singer, come la vita intima di uno scrittore umoristico si nutra di politica, al punto di dipenderne completamente. La lunga scena in cui Alvy discute con la sua prima moglie Allison a proposito dell'assassinio di Kennedy e del rapporto Warren in mezzo ad un duetto d'amore, suppone una concezione del matrimonio costretta tra l'attualità e la vita quotidiana più soggettiva. Allison non sbaglia quando dice ad Alvy “tu ti servi della teoria del complotto per evitare di fare l'amore con me”. Con la sua seconda moglie Robin, lo vediamo in piena notte tentare di far rilassare la sua partner parlando dell'inquinamento, la famiglia Manson e le riviste di contestazione (“sembra che Commentary e Disent si siano fuse con il titolo di Dissentery!”). Queste disavventure coniugali possono essere considerate al solo livello comico e possiamo riderne come di fronte ad un carattere di La Bruyère (l'intellettuale liberale incapace di liberarsi sessualmente), ma è anche vero che questi episodi sembrano autobiografici e risultano altrettanto veri delle tirate sull'alienazione ne La Notte (Antonioni) o Scene da un matrimonio (Bergman) che Woody Allen sfiora d'altronde in diversi momenti.

Robert Benayoun ("Positif", n. 199, 1977)