Un frullatore di generi

Un frullatore di generi

Il grande Lebowski, per cominciare, è il film che più degli altri mette in scena la dimensione dell’immaginario. Più che la rivisitazione di un genere, è un trionfo dell’immaginazione e della fantasia, un fuoco d’artificio fatto esplodere con le polveri del Cinema. Il noir, il western, il musical (ma anche lo slapstick, il film sportivo, il film di mafia) non sono usati come cornici, ma come puri materiali: stereotipi, ruoli, scheletri narrativi. Geniale, intanto, il trapianto dei personaggi del noir chandleriano (da studiare per qualsiasi futura teoria dell’adattamento). La ‘struttura profonda’ è quella di Il grande sonno di Chandler (1939: il film di Hawks è del 1946): un miliardario che abita a Pasadena (il grande Lebowski), una donna più anziana e sofisticata (la figlia Maude Lebowski-Julianne Moore), una giovane ragazza licenziosa e senza moralità (Bunny, giovane moglie del miliardario-Tara Reid), il proprietario di night-club (Jackie Treehorn, re dell’industria del porno-Ben Gazzara), e il personaggio principale (Dude Lebowski-un grande Jeff Bridges) che si trova implicato in una storia sentimentale con la donna matura. Ciononostante, Il grande Lebowski è quanto di più lontano si possa pensare dal detective movie (“una delle gag del film è che Jeff Bridges è implicato in un’avventura da detective privato mentre lui ne è l’antitesi”). E questo perché lo scheletro del film viene rivestito di immagini, suoni e parole di varia provenienza, fino a diventare irriconoscibile: la cornice, con la voce fuori campo, l’immagine del cespuglio spinto dal vento e poi, al centro e nel finale, la figura dello Straniero (Sam Elliott), è un rimando al western […]; l’inserto onirico in cui Dude sogna di essere protagonista di un film intitolato Gutterballs è un numero in puro stile musical di Busby Berkeley (contaminato con l’opera wagneriana: Maude Lebowski è vestita da valchiria), ma anche un’implicita parodia dei sogni hitchcockiani (Io ti salverò, 1945), dove il lavoro onirico di condensazione e spostamento veniva tradotto in puro kitsch. […] Non mancano infine puri esercizi mimetici, come il finto porno mostrato da Maude a Dude per svelare il passato di Bunny, o la copertina del disco Autobahn realizzato dal capo dei nichilisti (Peter Stormare), parodia del design techno-pop anni Settanta.
Ma se i ruoli e la sintassi narrativa rimandano al cinema classico, le figure, gli spazi e i temi vengono dall’immaginario musicale e culturale degli anni Sessanta (gli spinelli, il pacifismo, gli Eagles, che però Dude detesta proprio perché troppo ovvii). Dude è l’hippie invecchiato, Walter è il reduce dal Vietnam, Maude Lebowski ha per modelli gli artisti Fluxus di New York degli anni Sessanta, Jackie Treehorn è un magnate sul genere di Hugh Hefner, creatore di “Playboy”, mentre l’ambiente delle sale da bowling “riflette il periodo fine anni Cinquanta inizio anni Sessanta, adattandosi all’aspetto rétro del film, leggermente anacronistico, che ci rinvia a un’epoca non troppo lontana, ma comunque trascorsa”. L’azione del film si svolge infatti all’inizio degli anni Novanta (poco prima della Guerra del Golfo), ma tutti i personaggi rinviano alla cultura di trent’anni prima, ne sono i postumi e lo specchio. […] I Coen si distinguono dalla banale ondata revivalistica perché coltivano l’arte dell’anacronismo, che non appiattisce la Storia ma la rilegge. Ancora una volta, infatti, il loro pastiche mescola miti e simboli dell’identità americana, ma soprattutto inventa nuove filiazioni (“Ho sempre avuto un debole per il cowboy come concetto” dice il figlio dei fiori al pioniere) e scova parallelismi inediti (la controcultura degli anni Sessanta e il kitsch anni Cinquanta; l’intrigo del noir e la logica culturale del tardo-capitalismo).
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002


Il narratore è un cowboy (Sam Elliott) ed è un elemento che ha aiutato i Coen a creare una certa distanza: “Ci sono sempre piaciuti questi stratagemmi – narrazioni, voci fuori campo. È anche una cosa alla Marlowe, dal momento che tutti i romanzi di Chandler sono narrati in prima persona. Ma sarebbe stato troppo trito prendere semplicemente Dude come voce narrante”.
Il brizzolato, dalla pelle dura, Sam Elliott, con la sua tipica voce burbera e il fisico allampanato, che aveva interpretato Virgil Earp in Tombstone pochi anni prima, sembra essere precipitato, con i suoi speroni, sul set sbagliato, arrivando da un film western. Ma questo è proprio il tipo di incongruità che piace ai Coen e che i fratelli sono in grado di reggere moto bene.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002


La consuetudine del prologo (interrotta da Fargo) riprende con Il grande Lebowski, dove lo Straniero (Sam Elliott) si presenta in modo simile al Moses di Mister Hula Hoop: non lo vediamo da subito, ma solo in un secondo momento e poi verso la fine, sempre nello stesso luogo. Nel caso di Moses era la stanza dei meccanismi dell’orologio; lo Straniero invece staziona al bar del bowling. A differenza del vecchio orologiaio non interviene nella vicenda ma lascia che le cose seguano il loro corso. Non si trasforma mai in un deus-ex-machina, rimane uno spettatore, simpatizza con Dude e il suo stile di vita ma senza partecipare attivamente alle vicende; in parole povere anche lui, come i Coen, sta solo raccontando una storia. […] Oltre a presentarci Dude, lo Straniero fa delle interessanti osservazioni circa la storia che stiamo per vedere: sostiene, ad esempio, che sia la cosa più “stupefacente” che si sia mai vista. A film finito non sapremo dire davvero che cos’abbia di tanto straordinario la sua storia, a meno che non intendiamo il termine inglese “stupefying”, nel significato di ‘stordire’, con riferimento alle droghe che Dude assume (allo stesso modo è utilizzabile il termine italiano “stupefacenti”, usato spesso come sinonimo di “droghe”). Ma, senz’altro, ciò che ci lascerà senza fiato, è il ‘Dude’s way’, lo stile di Dude, il suo modo di prendere la vita con quella che potremmo definire una più che sostenibile leggerezza dell’essere: uno stile inconfondibile che ha fatto amare questo personaggio a milioni di persone, molti dei quali non avevano mai visto (o amato) prima un film dei Coen. […]
Non solo lo Straniero è un osservatore per nulla onnisciente, ma ha anche difficoltà ad esprimere i suoi pensieri. Con il suo ‘antiquato linguaggio da prateria’, si perde continuamente dietro a frasi che rotolano via, ritrova il punto, lo perde di nuovo. In questo senso potremmo dire che lo Straniero è, in qualche modo, la personificazione stessa del film, il portatore di un senso che non c’è: distaccato ammiratore di un mondo che, in fondo in fondo, non lo riguarda.
Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen, Bulzoni Editore, Roma 2005


Così come Blood Simple – Sangue facile ‘deriva’ da Il postino suona sempre due volte, e Crocevia della morte da Piombo e sangue, così Il grande Lebowski deve molto a Il grande sonno: “Volevamo comunicare una sensazione di storia raccontata – come una versione moderna di Chandler; è il motivo per cui andava ambientata a Los Angeles. Noi viviamo a New York e ci sentiamo outsider a Los Angeles. Volevamo uno svolgimento narrativo, una storia che si muove come in un libro di Raymond Chandler attraverso parti diverse della città e attraverso differenti classi sociali. Questo è il risvolto che ci interessa quando scriviamo una sceneggiatura. Ci sono un sacco di riferimenti ai romanzi di Chandler. Più di uno dei suoi libri è nelle nostre teste. La storia del tipo ricco di Pasadena, che dà il via a tutta la vicenda, è tipica di Chandler. In Il grande sonno sono le due sorelle che mettono in moto l'azione, qui è il finto rapimento”.
Il grande Lebowski (David Huddleston), sulla sua sedia a rotelle, ricorda il generale Sternwood, anche lui paralizzato (è il personaggio di Il grande sonno interpretato da Charles Waldron), mentre sua moglie Bunny e la figlia Maude richiamano le due figlie di Sternwood, Vivian e Carmen (rispettivamente Lauren Bacall e Martha Vickers). La cameriera di Maude si chiama Knutsen, mentre il nome della moglie di Eddie Mars nel film di Howard Hawks è Knudsen. (Trovata ulteriore: Bunny è del Minnesota.) Jackie Treehorn somiglia alle figure dei soavi gestori di nightclub nei romanzi di Chandler. L'investigatore privato (Jon Polito), che si chiama Da Fino e segue Dude in un ridondante episodio del film, è una variante del detective protagonista in Finestra sul vuoto. […]
I Coen hanno riconosciuto il proprio debito anche nei confronti di Il lungo addio, il film di Robert Altman tratto dal romanzo di Chandler, con Elliott Gould nei panni di un Philip Marlowe insieme rozzo e disilluso nella Los Angeles degli anni Settanta, esattamente come Dude è un alienato nella Los Angeles degli anni Novanta. Non sorprende che Il lungo addio sia il film di Altman preferito dai Coen, anche se, nell'era pre-postmodemista degli anni Settanta, sembra ridurre Chandler a un complicato gioco di società hollywoodiano.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002


In un certo senso, le sequenze oniriche ricordano le allucinazioni del detective privato nei romanzi di Chandler. Ma ha anche a che fare con l’uso di marijuana da parte del protagonista! Secondo me, corrisponde a Los Angeles, che è un luogo più surreale di New York, con un’atmosfera orientale, da Mille e una notte. […] E anche il rumore della sala da bowling è uno stupefacente per Dude. Per le persone, la cultura psichedelica è associata alla California meridionale e a San Francisco.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998


In Crocevia della morte ricorre il sogno del cappello; Mister Hula Hoop contiene la sequenza onirica di Tim Robbins che balla con una Dream Dancer (Pamela Everett) al suono della Carmen, con il vestito mosso da un getto d’aria, come nel duetto fra Gene Kelly e Cyd Charisse in Cantando sotto la pioggia.
I Coen delle volte danno l'impressione di avere una ‘voglia’ musicale che contengono a fatica. La lunga sequenza onirica in Il grande Lebowski rimanda a Busby Berkeley: […] “Ci è sempre piaciuto Busby Berkeley, ma in questo caso si trattava più di immaginare cosa avrebbe potuto sognare un fumatore di canne..., e sotto quale forma. Potevamo fare di tutto: ci sono venuti in mente Busby Berkeley e Saddam Hussein”.
Dude ‘vede’ Maude: ha le trecce, un’armatura e un copricapo Norse con corna e impugna un tridente, parodia di una cantante lirica. Non è chiaro se si tratti della grossolanità del Dude o di quella dei Coen oppure del riconoscimento di un cliché, quello indimenticabile dei fratelli Marx in La guerra lampo dei fratelli Marx, con Margaret Dumont che intona un’aria di vittoria, o quello del cartone What’s Opera, Doc? in cui Bugs Bunny veste i panni di Brunilde.
Dude, sdraiato sulla schiena, viene lanciato come una palla da bowling lungo il corridoio creato dalle gambe di una fila di ragazze della compagnia di ballo, un tunnel che ricorda la famosa scena nel numero “Young and Healthy” di Quarantaduesima strada, in cui la macchina da presa passa attraverso un tunnel di gambe femminili, terminando con un primo piano di Dick Powell che sbircia sotto le gonne.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002


L’universo-Lebowski è caratterizzato da un diffuso onirismo, che trascende la dimensione di sogno, rendendo labili i confini con il mondo reale, forse come conseguenza della visione allucinata del protagonista, sottoposto a un “rigoroso” regime di droghe e alcol. Come nei romanzi di Chandler, all’interno del film troviamo rappresentati due sogni di Dude; ma troviamo anche alcune parentesi, che potremmo definire ‘contemplative’, in cui la dimensione onirica è soltanto evocata.
In tutti i casi, la similitudine più appropriata è con le sequenze danzate dei musical: la narrazione viene sospesa per lasciare il posto al virtuosismo della macchina da presa, alle coreografie dei corpi, alle musiche. Non a caso, alcuni dei momenti non direttamente onirici ambientati all’interno della sala da bowling, si trasformano in una danza di corpi, palle e birilli. La sequenza dei titoli di testa ne è un esempio perfetto. I gesti, i rituali e i meccanismi del bowling vengono scomposti in dettagli e particolari, fissati e dilatati dall’uso dello slow motion e offerti alla contemplazione dello spettatore.
Nel sogno, più che altrove, si esprimono al massimo le potenzialità del talento ludico e visionario dei Coen. Luogo per eccellenza dello straordinario, il sogno rompe con le leggi della fisica che regolano il mondo reale: Dude nei suoi sogni vola e la macchina da presa volteggia con lui.
Alice Autelitano, Il grande Lebowski, in Joel e Ethan Coen, a cura di Giacomo Manzoli, Marsilio, Venezia 2013


L’idea era di girare questi rituali del bowling quasi al rallentatore. La sequenza dei titoli di testa è stata pensata per far entrare lo spettatore nella storia e allo stesso tempo fargli capire che il bowling è un elemento importante del film.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998