Nascita di un cult

Nascita di un cult

È scritto maledettamente bene. È la scrittura. La scrittura, il dettaglio…
Cazzo, è proprio divertente. Acuto e divertente.
John Goodman

Tutti vorrebbero che la vita fosse così. Che tutti si trattassero in questo modo.
“Io tollererò te e tu tollererai me, e staremo bene”. C’è qualcosa di molto bello in questo.
Ed è il bello dei film dei fratelli Coen in generale.
Philip Seymour Hoffman


Spesso mi chiedono se non sia sorpreso della quantità di attenzione che Il grande Lebowski ha ricevuto negli ultimi anni. Generalmente sembrano aspettarsi che io dica “sì”, ma la mia risposta è sempre “no”. Quello che mi sorprende è che non abbia avuto il successo che pensavo quando è uscito. Era così divertente, e i fratelli Coen avevano appena vinto l’Oscar con Fargo: pensavo che la gente avrebbe fatto la coda ai botteghini. A dire la verità, ero piuttosto deluso. Ma adesso... beh, sono felice che venga apprezzato, che abbia trovato il suo pubblico.
Jeff Bridges, in Bill Green, Ben Peskoe, Will Russell, Scott Shuffitt, La vita secondo Il grande Lebowski, Sperling & Kupfer, Milano 2007


Dopo essere stato presentato in anteprima a numerosi festival cinematografici, Il grande Lebowski di Joel e Ethan Coen ha debuttato nelle sale del Nord America nel marzo 1998, molto atteso dopo il loro precedente Fargo. […] Nonostante l’uscita in numerose sale, ha guadagnato solo 17,5 milioni di dollari negli Stati Uniti, recuperando a malapena i 15 milioni di dollari di budget. Anche se il film ha incassato altri 29 milioni di dollari nelle sale cinematografiche all’estero, la sua reputazione di fallimento al botteghino è rimasta. La reazione sfavorevole della critica ha aggravato l’aura di delusione che circondava l’uscita. A proposito della sceneggiatura, un critico scrisse: “È difficile credere che questa sia la squadra che ha vinto l'Oscar l’anno scorso per la sceneggiatura originale di Fargo. La grande quantità di volgarità... sembra un debole tentativo di coprire le lacune dei dialoghi”. […] Visti questi esordi infausti, l’affermazione del film presso il pubblico avrebbe potuto concludersi poco dopo la sua scomparsa dal grande schermo. Ma non è stato così. È diventato un successo di culto nel mercato secondario, raccogliendo folle di fan sfegatati in tutto il mondo, ispirando commenti su decine di siti internet e generando una propria convention di fan (il Lebowski Fest). La sua reputazione di insuccesso critico e finanziario ha senz’altro contribuito a conferirgli quell’aura di film controcorrente spesso associato ai cult. Tuttavia, essendo una delle più importanti storie di successo successiva alla distribuzione in sala, Il grande Lebowski fornisce un ulteriore spunto per capire come molti film raggiungano lo status di cult nel contesto statunitense.
Barbara Klinger, Becominig cult: The Big Lebowski, replay culture and male fans, “Screen”, vol. 51, n. 1, primavera 2010


Il grande Lebowski è l’apoteosi del cinema dei Coen. Per alcuni un punto di non ritorno, per altri l’ultima copia di un prototipo replicabile all’infinito. Vi si ritrovano all’ennesima potenza i temi e le ossessioni degli altri film: la trama imperniata su un rapimento (“a noi piace fare variazioni su certe situazioni drammatiche come il rapimento”), l’attenzione a personaggi e luoghi marginali (gli ex figli dei fiori, la periferia di Los Angeles: l’altra faccia del sogno americano), la messa in scena della stupidità (tutti i personaggi vivono in uno stato di ‘narcosi dell’intelligenza’), il gioco con il cinema (qui più scatenato e divertente), la parodia del capitalismo e dei suoi falsi miti (il self-made man che si rivela un millantatore), il ripensamento della Storia (la memoria degli anni Sessanta), la mimesi dei linguaggi (c’è addirittura un falso porno, con un cammeo della pornostar Asia Carrera). Il grande Lebowski, però, è anche un film insolitamente ‘ottimista’ (e non semplicemente euforico), che non finisce con lo scacco del personaggio principale (come Barton Fink), né con un happy end volutamente falso (Mister Hula Hoop) o ambiguo (Crocevia della morte). Jeffrey ‘the Dude’ Lebowski è il primo vero eroe del cinema coeniano, un plausibile modello d’identificazione per lo spettatore […]: a differenza di tutte le altre creature dei Coen, Lebowski è un personaggio che possiede il dono dell’ironia, cioè la capacità di guardare le cose con distacco, e, se necessario (molto spesso lo è), di mandare tutti a quel paese: esattamente come i Coen.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002


Per Il grande Lebowski abbiamo scritto circa quaranta pagine, poi abbiamo lasciato riposare il film e lo abbiamo ripreso in un secondo momento. Questo è molto frequente nel nostro modo di lavorare. Non è che ci piaccia particolarmente, ma spesso succede così. A un certo punto incontriamo un problema, e allora passiamo ad altro e in seguito torniamo alla prima sceneggiatura. In questo modo abbiamo accumulato pezzi già scritti per molti film a venire.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998


Il grande Lebowski venne girato in undici settimane a Los Angeles e dintorni (dal cottage sulla spiaggia di Venice di Dude alla mansioni del Grande Lebowski, alla casa di vetro e cemento a Malibu di Jackie Treehorn). I Coen affittarono una casa a Santa Monica. […] La mansion di Lebowski era una casa vuota, usata in più occasioni come set cinematografico. La seconda visita del Drugo al suo ricco omonimo è quella che i Coen definiscono una “scena da stanza grande”: “Ci piacciono le scene in interni spaziosi, vuoti: come quando vedi qualcuno seduto di fronte al camino, con le coperte sulle ginocchia. Il nostro è un magnate. Vive nascosto”. Secondo Rick Heinrichs “avevamo bisogno di ottenere la stessa forte sensazione che provi quando guardi la casa del generale Sternwood in Il grande sonno... O l’atmosfera di Quarto potere, con il personaggio sulla sedia a rotelle che contempla le sue opere d’arte appese alle pareti”.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002


Beh, c’è il fatto che si tratta di lavorare con due persone che ti dirigono. Non per niente li chiamano i fratelli Coen... Questo mi preoccupava un po’, insomma ricevere direttive da due registi. E se avessero litigato? Cioè, io voglio bene a mio fratello Beau, ma non potrei immaginare di dirigere qualcosa insieme con lui... sarebbe folle. E invece questi due andavano talmente d’accordo che a un certo punto gli ho domandato: “Ma come fate, ragazzi?”.
Dicono che pianificano tutto in fase di scrittura. Cosi quando cominciano a girare sono totalmente d’accordo su che cosa fare. L’unica volta in cui hanno dissentito su qualcosa è stato durante la sequenza del sogno di Dude. La scena in cui passo sotto le gambe delle ballerine e sto per colpire i birilli con la testa. Immediatamente prima di girare, Joel mi ha detto: “Quando stai per colpire i birilli socchiudi gli occhi, perché pensi che sarà un’esperienza piuttosto dolorosa. Poi colpisci i birilli”.
Al che Ethan è saltato fuori e ha detto: “Ah davvero? Io immaginavo che sarebbe stato felice di colpire i birilli”. E Joel ha ribattuto: “Ah, sì? Io invece pensavo che avrebbe fatto delle smorfie”. Ed Ethan: “Davvero? Io pensavo che sarebbe stata più che altro una cosa felice”. Alla fine hanno detto: “Beh, allora facciamola in entrambi i modi”. Questa è stata la loro discussione più accesa.
Jeff Bridges, in Bill Green, Ben Peskoe, Will Russell, Scott Shuffitt, La vita secondo Il grande Lebowski, Sperling & Kupfer, Milano 2007


Notevole il lavoro della costumista Mary Zophres, specie nelle sequenze musicali ispirate a Busby Berkeley, realizzate anche con l’ausilio della computer graphics (il passaggio di Dude tra le gambe delle ballerine). Ma anche le scene di bowling sono delle vere e proprie coreografie (“l’idea era di girare quasi al ralenti questi rituali del bowling”). La fotografia è ancora di Roger Deakins (“tutti i colori sembrano saturi o pastello, dal blu dell’oceano a quello del cielo”), che qui lavora gomito a gomito con lo scenografo Rick Heinrichs (“Rick voleva colori molto ricchi o saturi, come si vede nel suo modo di trattare le stelle sulla facciata del bowling: anche gli abiti seguivano questa direzione, come il collant di Turturro”): non pochi problemi ha posto il contrasto tra le sequenze oniriche stilizzate e quelle quotidiane, ma anche l’illuminazione della pista da bowling, con le luci fluorescenti sul soffitto.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002


La difficoltà per Roger [Deakins] è stata quella di accostare sequenze stilizzate, oniriche e astratte ad altre molto concrete, come quelle a casa di Dude o la sequenza finale con lo Straniero, per non parlare della pista da bowling.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998


Il décor del film, che ruota appunto intorno al bowling, rappresenta visivamente una rottura evidente con Fargo. Se in Fargo i luoghi si assomigliavano un po’ tutti e c’era, oltre al bianco, solo qualche altro colore qua e là, nel Grande Lebowski si susseguono una varietà incredibile di ambienti, per i quali lo scenografo e il direttore della fotografia si sono uniti nello sforzo di creare un possibile legame. Questo legame è dato appunto dalle luci e dai colori che rimandano alla sala da bowling, così come è stata concepita, in particolar modo, dalla celebre catena Brunswick. Quei toni gialli/arancio, le stelle al neon e le palle di tutti i colori possibili (come gli hula hoop).
Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen, Bulzoni Editore, Roma 2005


Il personaggio di Walter è stato scritto apposta per John Goodman (non così per Dude: a Jeff Bridges si è pensato più tardi), e la sceneggiatura era praticamente pronta prima di girare Fargo. Ma il film è stato realizzato dopo perché John Goodman e Jeff Bridges erano occupati altrove. Per questo, di nuovo, l’autocitazione di Fargo (i genitori di Bunny sono del Minnesota e hanno un nome scandinavo: Knudsen) è da leggersi al contrario, come un’anticipazione.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002


Il film è sempre stato concepito intorno al rapporto tra Dude e Walter. L’idea è nata dalle scene tra Barton Fink e Charlie Meadows, quest’ultimo interpretato dallo stesso John Goodman. Ecco perché il bowling ci è sembrato un contesto appropriato. Non è che le donne non pratichino questo sport, ma hanno le loro squadre. Nel bowling c’è una vera e propria segregazione dei sessi. Nel Grande Lebowski, sono praticamente tutti uomini.
Ethan Coen, Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998


Il film avrebbe preso spunto dalle visite che i fratelli facevano a un loro amico, Pete Exline, un veterano del Vietnam, ormai disilluso. Ogni volta che veniva tirato in ballo il Vietnam, lui era solito osservare: “Beh, stavamo vincendo quando me ne sono andato”. […]
“Abbiamo conosciuto John Milius quando eravamo a Los Angeles per girare Barton Fink – È successo a Hollywood. È un tipo divertente, un grande narratore di storie. Pur non essendo mai stato nell’esercito indossa abitualmente un sacco di accessori militari. È un appassionato di armi, un tipo da scuola di sopravvivenza. Ci invita sempre a casa sua per ammirare i pezzi della sua collezione – anche se noi non glielo chiediamo mai”. […] Peter Exline e John Milius coesistono nel personaggio di Walter Sobchab (John Goodman), l’amico di Dude.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002


Fondamentale il ruolo della colonna sonora (una delle più belle degli ultimi tempi), tutta anni Sessanta e Settanta: ci sono molte arie dell’epoca (i Creedence, Dylan), ma anche il Requiem di Mozart e i Quadri da un’esposizione di Musorgskij (“ci sono sequenze che abbiamo scritto con la musica in testa, come la canzone latino americana per la sequenza con Turturro”). La musica funziona anche come metonimia, definisce e richiama ogni personaggio: il tema di Tumbling Tumbleweeds dei Sons of Pioneers identifica lo Straniero, i Creedence rimandano a Dude, Lujon di Henry Mancini a Jackie Treehorn (Ben Gazzara), e il techno-pop accompagna sempre i nichilisti tedeschi (che non a caso girano con uno stereo): “C’è così una pennellata musicale per ciascuno di loro”.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002