"I'm the Dude, man!"

Jeffrey Lebowski si faceva chiamare Dude.
Già, Dude. Dalle mie parti nessuno si farebbe chiamare così.
Del resto, con Dude erano parecchie le cose che non mi quadravano.
Lo Straniero (Il grande Lebowski)

Non ci aspetteremmo mai d’incontrare Dude o Walter a New York. Portano gli shorts!
Joel e Ethan Coen


Ultimamente qualcuno mi ha domandato: “Come ti sentiresti se alla fine della tua carriera la tua interpretazione più nota fosse quella di Dude?”. “Ne sarei strafelice”, ho risposto.
Jeff Bridges, in Bill Green, Ben Peskoe, Will Russell, Scott Shuffitt, La vita secondo Il grande Lebowski, Sperling & Kupfer, Milano 2007


Il grande Lebowski è il secondo film dei Coen su Los Angeles: ma se Barton Fink evocava Hollywood, questo si ambienta nei suburbi (la spiaggia di Venice, la valle, Pasadena), lontano dal mondo del cinema (solo apparentemente: il mondo di Dude è per sua natura un grande baraccone ‘cinematografico’). “A causa dell’enorme superficie, a Los Angeles tutte le varie subculture sono giustapposte ma non comunicano veramente”. E Il grande Lebowski è prima di tutto un film sugli outsider, sulle subculture e le contro-culture che si oppongono, come direbbero gli studiosi del ramo, alla ‘cultura dominante’. Gli stessi personaggi nascono dall’humus ‘losangelino’, e sarebbero inconcepibili a New York. Ma anche questo è un effetto di prospettiva, un gioco con le autorappresentazioni della società americana: “Il personaggio ozioso, rilassato, senza occupazione come quello di Jeff Bridges, che sembra vivere al ralenti, per noi appartiene tipicamente a quella cultura locale [...] nella mente della gente, la cultura psichedelica allucinatoria è associata alla California del Sud e a San Francisco”.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002


Gran parte del riscontro ottenuto dal film è dovuto alla riuscita caratterizzazione del suo protagonista, assurto ad icona di una filosofia di vita ideale, riassumibile in quel “The Dude abides” (ovvero Dude sopporta, più incisivo della traduzione italiana “Drugo sa aspettare”) pronunciato nel film.
È difficile negare che proprio Dude sia il centro nevralgico del film. Pigro, indolente, privo di un’occupazione, passa le giornate a fumare marijuana, bere White Russian e giocare a bowling con gli amici Walter e Donny. Dude vive e lascia vivere, e assume tratti involontariamente zen nel suo lasciarsi scorrere addosso gli eventi, anche i più avversi, e nel sopportare con stoica rassegnazione la sequela di accadimenti in cui si trova suo malgrado coinvolto. Sempre ironico, è privo di malizie: il suo agire non è mai realmente mosso dal profitto o dal successo personale, l’unica rivendicazione che porta avanti nel corso dell’intero film e che lo convince ad uscire dal suo torpore quotidiano è il risarcimento per quel suo tappeto che “dava un tono all’ambiente”. Dude è un outsider, una figura anacronistica, un individuo che vive ai margini della società, ma consapevole della propria marginalità e capace di rivendicarla di fronte ad attacchi ideologici (come quelli mossi dal “grande” Lebowski o dal capo della polizia di Malibu).
Alice Autelitano, Il grande Lebowski, in Joel e Ethan Coen, a cura di Giacomo Manzoli, Marsilio, Venezia 2013


Interpretato da un Jeff Bridges sovrappeso (ma in piena forma quanto a qualità attoriali) e vestito, a dir poco, casual (molti dei costumi di scena se li è portati da casa), Dude è la personificazione vivente della palla da bowling, così come del cespuglio che rotola all’inizio del film: l’atto del rotolare è ciò che lo contraddistingue, nella misura in cui un oggetto che rotola presuppone una superficie su cui farlo. Forse è per questo che ci vengono mostrati tutti i personaggi del bowling mentre effettuano i loro tiri, tranne Dude.
Dude vive sulla superficie delle cose, è il suo stile. Del suo passato sappiamo ciò che lui stesso racconta a Maude: è stato uno dei firmatari del ‘Port-Huron Statement’, ovvero il manifesto della Nuova Sinistra pacifista, antinucleare e democratica che fu poi protagonista del ’68. […] In seguito Dude è stato uno dei componenti del gruppo The Seattle Seven e poi tecnico del suono dei Metallica, sui quali non ha commenti molto lusinghieri. Tutto qui il passato di Dude, che ora è totalmente alla deriva in un presente senza futuro.
Si tratta ancora una volta di un personaggio perdente (per i canoni di un certo tipo di società) ma, è questa la novità, Dude lo ammette tranquillamente, né gli interessa. A modo suo ha fatto una scelta, ci ha provato, e ora che tutto si è dissolto (i valori, le speranze e la controcultura del ’68), tira avanti a modo suo. Il mondo lo crede un perdente solo perché Dude, al contrario del meschino Jerry Lundegaard o dell’idiot savant Norville Barnes, non fa nulla per inserirsi nel sistema, non arranca per conquistare la sua fetta di torta, per recintarsi nel suo angoletto di successo. Ma Dude sta bene così e sembra seguire alla lettera le parole della canzone di Dylan The Man in Me, che funge da vero e proprio ‘Dude’s theme’: “L’uomo che è in me a volte si nasconde / per non essere visto ma solo perché / non vuole essere trasformato in una macchina”.
Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen, Bulzoni Editore, Roma 2005


Jeff Dowd si faceva chiamare ‘il papa delle droghe’, ma era conosciuto anche come ‘the Dude’. Era stato in prigione con l’accusa di cospirazione finalizzata alla distinzione di proprietà federali. Più tardi si era spostato in California dove si era introdotto nell’ambiente del cinema. Oggi è un rispettabile rappresentante di case di produzione. Per prepararsi al ruolo Jeff Bridges lo incontrò: “Mi sono ispirato a lui ma anche ad alcuni miei amici. A dire il vero ci ho messo anche molto di mio. Sono ingrassato per la parte; l’aspetto fisico è una delle prime cose che devi curare. Dude è colui che fa fatica ad alzarsi dal letto, che si nutre soprattutto di kahlua, vodka e latte, senza pensare all'aspetto fisico e al pancione. Mangia quando e cosa vuole. Ho recuperato il mio passato degli anni Sessanta e Settanta: allora vivevo in un piccolo appartamento come quello del film e assumevo droghe, anche se credo di essere stato un po' più creativo di Dude. Magari anche Dude ha avuto un periodo creativo, che poi è terminato. Durante il ‘mio’ periodo da Dude, io dipingevo e scrivevo musica”.
Il personaggio di Dude è collegato a quello di Bone (interpretato sempre da Bridges), il sodale del disincantato (e mutilato) veterano del Vietnam di Alla maniera di Cutter, il noir di Ivan Passer del 1981. Come Dude, dicono i Coen, “anche noi siamo pigri. Lenti. Ecco perché facciamo un film ogni due anni. Dude ha così poche ambizioni che non può essere considerato un fallito. Los Angeles è il terreno di coltura privilegiato di tutta una sottocultura che fa della rilassatezza e del disimpegno il proprio tratto distintivo (un esempio sono i surfisti, al cui stile di vita Milius ha dedicato uno dei suoi film più riusciti, Un mercoledì da leoni). È forse il clima dolce che permette a questo tipo di cultura stonata di esistere”. Dude è uno dei primi fumatori di mariujana che si siano visti al cinema.
Ronald Bergan, The Coen Brothers. Una biografia, Lindau, Torino 2002