Antologia critica

Antologia critica

«Trasferendo in stupende, affascinanti e languide immagini Il Gattopardo, Luchino Visconti è stato sostanzialmente fedele al romanzo. Ma, fedele soprattutto a se stesso, ne ha approfittato per riprendere il discorso interrotto da Senso. Sebbene anche Senso sia un’opera memorabile, ci pare di poter dire che il discorso intrapreso nel Gattopardo è più limpido e coerente. Le immagini, il colore, i paesaggi, gli episodi gustosi e persino qualche macchietta (come quella disegnata con gusto da Romolo Valli nella parte del gesuita amico di casa Salina) non hanno indotto in tentazione il regista.

La linea del racconto si spezza nelle varie vicende, si frantuma in contrasti dialettici, nell’esposizione dei piccoli fatti dell’esperienza di ogni giorno; ma la linea ideologica è inflessibile, acuta come punta di diamante, limpida come una notte di stelle. I problemi dell’Unità nazionale, la difficile saldatura tra il Settentrione di aspirazione e tono europei, il Centro di civilissima ma appartata provincia (basta pensare alle idee politiche del Grande Gioacchino Belli!) e il Mezzogiorno depresso sono affiorati in questo dopoguerra con nuova vivezza. In cento anni molti problemi sono stati elusi; eppure ce li siamo portati dietro (cosa andava a cercare in Africa il siciliano e garibaldino Crispi?) come il cane che si porta dietro la coda.

Il merito ideologico ed artistico del Gattopardo visconteo consiste nell’aver cercato le radici del nostro malessere nazionale senza insistere in prevaricazioni predicatorie. Le idee camminano, la diplomazia cavouriana dà scacco matto alla storia, ma la gente del Risorgimento fa fatica a seguire l’impulso dato da quei tre tipi straordinari. Mazzini muore in disparte, Garibaldi si ritira a Caprera, e Cavour si spegne troppo presto.

È assai singolare la riuscita di un film, dovete convenirlo, che è anche un’opera di storia demistificatrice. Il Gattopardo ha l’andamento di una vicenda dal corso fatale: è un Via col vento di linea italiana, più modulato, più geniale, più autentico, ma altrettanto grato allo spettatore comune di quello hollywoodiano.

Luchino Visconti s’è, in un certo senso, sdoppiato: da una parte troviamo un intellettuale rigoroso, che riflette da artista sugli ultimi cento anni del proprio Paese: dall’altra, appare come un omologo lombardo del Principe di Salina. Un aristocratico che sta dalla parte della gente nuova perché sente che questo è giusto, che tale è il senso della storia, ma non può dimenticare la dolcezza irrevocabile di un certo passato, le maniere cortesi di una volta, quel vivere sereno, in civili agi e intelligenti cortesie, in un privilegio che parecchio sapeva farsi perdonare, perché non si dimenticava della carità e della cultura, almeno nei suoi migliori esemplari. È l’elegia di una civiltà morta; con aggiunto il disagio che ogni persona bennata prova nell’avvertire la rozzezza, il cinismo, la brutalità dei “parvenus”».

Pietro Bianchi, È meglio di Via col vento’, “Il Giorno”, 29 marzo 1963



«Dategli la Sicilia, tre miliardi o quattro da spendere, e lasciatelo sfogare; ne deriverà, come qui, l’ottava meraviglia cinematografica. Osservate. Ecco, dall’esterno, la villa del Principe nell’ora in cui, prima di cena, la famiglia raccolta nel salone come in un quadro antico, smozzica il rosario: nei grandi balconi, sulla facciata d’oro sonnolento, impolverato, le tende si gonfiano di tepida brezza...e con uno di questi refoli, per così dire, entriamo. La preghiera è macchiata da lontani clamori; il biglietto di un parente informa Salina che la rivolta è scoppiata; il rosso malpelo di Genova è sceso a Marsala con i suoi mille pezzenti (fate la carità di un’Italia unita... ci raccomandiamo, o siciliani, al vostro buon cuore), e l’emblematico alano di casa fiuta negli accorrenti aliti marini ai quali ho accennato un aroma di sangue che lo agita. “È Bendicò!”, strillò trionfalmente una elegante mia vicina di posto; mi rammaricai di non poterla contraddire, ed ecco la sciagura del boom librario: quella di appaiarvi a qualsiasi chioccia di luoghi comuni e idee ricevute, livellandovi come una pialla, anzi come, salute a noi, la morte. Il Principe ordina la carrozza e va a dare un’occhiata a Palermo. Il fatto è che le stragi e l’amore (quello fomentato dalle ghiandole) si chiamano per misteriose vie; il Principe ha voglia di una calda meretrice che gli offra le sue gioie rozze ma totali come il formaggio e le pere divorati nel pagliaio senza mediazione di tovaglia e di posate. Qui l’obbedienza di Luchino al sobrio Tomasi diventa cilicio: non vediamo che un braccio tondo e bianco cingere il collo di Salina e non udiamo che un “Uh, principone mio...”, poi le tenebre di un’eroica dissolvenza inghiottono la scena, e addio. Soppresso (e mi duole) il fatto che all’alba il Principe, tuttora smosso, anzi arato, dall’avventura notturna, si pappi anche la principessa: non è un male che le gentildonne sappiano quanto debbono, talora, alle sgualdrine.

Lodai mentalmente il regista per quei mattoni esausti che paiono ansiosi di sbriciolarsi: i palazzetti diventano polvere che s’innalza, neutra polvere, lunga polvere, disperati memoriali di polvere che l’indifferente cielo respinge (come farà nel 1944, d’altronde, e la ragione è sempre quella), mentre gli uomini stramazzano sul proprio grido e stanno.

Ma in quale brano di questo Gattopardo, Visconti non eccelle? Il viaggio a Donnafugata, quelle campagne viziose, onanistiche, di una morbida carnalità, nei sobbalzi delle carrozze, o levigate dai vapori meridiani intorno alla colazione imbandita sull’erba. La sosta nell’alberghetto mangiato dal sole, con le pareti che sembrano di pomice e danno l’impressione di incrostarsi dei fiati degli ospiti. L’ineguagliabile panoramica, in mezzo primo piano, dei Salina allineati negli scanni di gala della chiesa, durante il Te Deum di benvenuto. Il plebiscito, quei sì appuntati ai cappelli, non meno trascinati e fittizi del motivetto della Gigogin...la proclamazione del favorevolissimo risultato è e non è parodistica, avendo i connotati di una prassi tutt’altro che abbandonata, in democrazia. Le partenze all’aurora per la caccia, quando l’imminente supplizio della luce si annunzia invece come un ristoro, come un beneficio. Gli andirivieni astratti, magici, di Tancredi e Angelica nella parte negletta o addirittura sconosciuta dell’immensa villa, quei tuffi nel passato mentre in ogni vena di entrambi, col desiderio che a quando a quando li sconvolge, batte il futuro... è più ed è meglio che possedersi... è una gioia rarissima e invidiabile che mi rincresce di non aver mai provato, accidenti a me. Infine, il ballo. Sì, è una sequenza magari eccessivamente protratta, ma formidabile, eccelsa. La virtù di Luchino si sfolgora; è mezzogiorno, qui, per il suo talento. Inchiniamoci... quando ci vuole ci vuole. Tagliare, sveltire, ha sentenziato più d’uno. Il diavolo che vi porti: ma se contemporaneamente al ballo il regista ha sulle braccia il declino morale e fisico del Principe, che nel romanzo occupa quasi trent’anni! Dobbiamo vederlo, il Salina, uscire dal palazzo Ponteleone col gusto delle proprie ceneri sulla punta della lingua! E Visconti riesce, contrapponendo iteratamente il protagonista e lo sfondo, a ottenere l’ardua sintesi che gli preme».

Giuseppe Marotta, Tardivi inchini alla spossante bravura di Luchino Visconti, “L’Europeo”, n. 15, 14 aprile 1963



«È stato spesso sottolineato che i pescatori de La terra trema esprimono una lentezza, una ieraticità rivelatrici di un’aristocrazia naturale, opposta ai nuovi ricchi; se il tentativo dei pescatori fallisce, non è solo a causa dei grossisti di pesce, ma del peso di un passato arcaico che fa sì che la loro impresa avvenga già troppo tardi. Anche Rocco non è soltanto un “santo”, è un aristocratico per natura, nella sua famiglia di poveri contadini: ma troppo tardi per ritornare al paese, perché la città ha già corrotto tutto, perché tutto è diventato opaco e perché la Storia ha già fatto cambiare il paese... Ci sembra tuttavia che con il Gattopardo Visconti arrivi alla piena padronanza e all’armonia dei suoi quattro elementi. Il troppo-tardi lancinante diventa altrettanto intenso del Nevermore di Edgar Poe; chiarisce anche in quale direzione Visconti avrebbe potuto tradurre Proust. E non si può ridurre il rammarico di Visconti al suo apparente pessimismo aristocratico: l’opera d’arte sarà fatta di questo rammarico come i dolori e le sofferenze da cui traiamo una statua. Il troppo-tardi condiziona l’opera d’arte e ne condiziona la riuscita, perché l’unità sensibile e sensuale tra Natura e uomo è per eccellenza l’essenza dell’arte, in quanto a lei tocca d’arrivare troppo tardi a tutti gli altri sguardi tranne appunto che a quello: il tempo ritrovato».

Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1985, pp. 111-112



«Anche nel cuore delle sue operazioni più masochistiche e autodistruttive, il cinema viscontiano sapeva aprirsi a momenti di contagiosa effusione formalistica, di grande e commovente amore per la propria vocazione estetica tradita. Sono momenti che rientrano di diritto in quello che Most, citando ancora Kant, definisce il Sublime dei Moderni, l’unico possibile dopo che Baudelaire ha saldato con una congiunzione non più eliminabile i concetti di “ridicolo” e di “sublime”: “È un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione delle forze vitali”.

C’è un esempio perfetto proprio nel Gattopardo, una splendida e incongrua panoramica sui tetti di Donnafugata che non si giustifica narrativamente e non è prevista nella sceneggiatura del film. Siamo sulla terrazza antistante la villa dei Salina, mentre Tancredi e Angelica stanno esplorando le soffitte disabitate ed esplode la loro sensualità prudentemente tenuta a freno in attesa delle nozze. I bambini più piccoli del Principe stanno giocando con mademoiselle, Concetta la figlia maggiore – invano innamorata di Tancredi ed esclusa dal cerchio magico di quella esplosione amorosa che si respira all’interno della villa – presta scarsa attenzione al suo beneducato e noioso corteggiatore, il conte Cavriaghi, che le ha donato le poesie dell’Aleardi. Intanto Francesco Paolo, l’altro figlio grande, è andato a prendere l’ospite piemontese e lo sta portando alla villa. “Ah guardi, ecco l’ospite!”, dice Cavriaghi, seduto sul muretto della terrazza con il suo inutile libretto di poesie. Ritta sotto l’ombrellino, al centro dell’inquadratura, Concetta guarda il fratello e il visitatore, che stanno entrando nel palazzo; poi sembra avvicinarsi al giovane immobile sulla destra, ma la m.d.p. La oltrepassa, la immobilizza a sua volta e va al di là del suo sguardo in una lunga e struggente visione del paese che chiude la sequenza in una vera e propria effusione lirica, sottolineata dalla musica a piena orchestra. Non si tratta di una soggettiva, che fra l’altro non potrebbe attribuirsi a nessuno dei personaggi principali; e nemmeno forse a un intervento “autoriale”, che non avrebbe alcuna giustificazione sul piano della storia o del discorso. Forse è un modo di alludere a un altro film, a un film sulla “bellezza” di una Sicilia perduta che deve invece rimanere implicito o rigorosamente racchiuso fra virgolette; e si pensa alle illuminanti osservazioni di Harold Bloom sulla Verneinung freudiana, la “negazione” con cui il poeta, esprimendo idee e sensazioni precedentemente represse, riesce a difendersi contro le sue stesse immagini sconfessandole: una difesa del non nominare, del non-mostrare, che può essere la radice di tanti problemi linguistici e psicoanalitici oltre a valere come sola definizione possibile del Sublime letterario (che è sempre, per Bloom, un Sublime negativo). E la storia del cinema italiano è intessuta di sconfessioni e di rimozioni, in cui Luchino Visconti è, ancora una volta, un protagonista e un maestro».

Guido Fink, Visconti: la bellezza inaccessibile, “Cinema & Cinema”, 45, giugno 1986, pp. 29-32



«Il Gattopardo ha finalmente mostrato Visconti, a molti che rifiutavano la cosa, nella sua vera luce di personaggio composito. Infatti, gli elementi che in questo film diventano conclusivi, sono stati sempre presenti, e vivi in varia misura, nell’opera precedente. Ne voglio citare alcuni: 1. la mancata e impossibile rinuncia dell’autore alla sua condizione di aristocratico; 2. l’elemento funesto, decadente – il tema morte – sempre presente, fin da Ossessione; 3. la posizione pre-religiosa; 4. la concezione del futuro come un passato da riconquistare, mescolata a quella di un nuovo tempo da costruire; ecc. il mio proposito, in queste note, sarà, dunque, un po’ partigiano, per cercare di mettere in luce il Visconti troppo dimenticato: cioè l’autore che ha sempre avuto caratteri capaci di modificare, per una via estetica, l’intenzione ideologica. Il Gattopardo è una più accentuata regressione di Visconti verso la sua educazione aristocratica, religiosa e decadente. Ma non è detto che ogni regressione sia un fatto negativo in sé: a volte, come liberazione psicologica di componenti ancestrali, è un fatto positivo. Inoltre ogni regressione si scontra con un mondo intanto mutato: quindi può avviare una dialettica verso valori nuovi, può suggerire nuove sintesi. La conclusione del film di Visconti parrebbe una regressione al tema decadente della morte, che distrugge la Storia, dopo l’impostazione iniziale di stampo marxista. Ma potrebbe anche essere l’avvio di una nuova problematica tra il marxismo e i temi del dolore, della tragedia e della morte, raccolti nel momento in cui diventa assurdo considerarli come “colpe della borghesia” (senza, per questo, rinunciare a combattere la borghesia). Del resto, la storia procede anche per linee interne. L’arte è uno degli strumenti che permette di rivelare queste linee interne. Se oggi assistiamo a fenomeni di decadentismo come cavalli di ritorno di una vecchia cultura, ciò significa che la nuova cultura non li ha ancora superati; anzi, essa stessa li ripropone per trovare nuove soluzioni».

Renzo Renzi, Visconti segreto, Bari, Laterza, 1994



«Visconti, si sa, non era un regista “fedele” ai testi letterari cui s’ispirava. Non quando li teneva presente solo indirettamente, come accadde in 3 fra i suoi 18 titoli filmografici; ma neppure quando vi si ispirava direttamente, come accadde in ben 9 dei restanti. Trattava quasi sempre le fonti letterarie come semplici canovacci, di cui spesso usava situazioni, dialoghi e personaggi, ma allontanandosene poi radicalmente in quanto a struttura e senso, sì da potersi permettere, in qualche caso (v. Ossessione, La terra trema, Il lavoro) di non citarli neppure nei titoli di testa. E non solo per una questione di “diritti”. La verità è che il più “letterato” fra i nostri registi aveva, di fronte ai testi letterari, lo stesso atteggiamento che adottava di fronte alla concreta realtà socioantropologica: come i dati della oggettiva realtà effettuale, anche quelli della fittizia “realtà letteraria” costituivano lo spunto iniziale, il punto di partenza, cui spesso liberamente, e a piene mani, attingeva; ma poi gli uni e gli altri venivano sottoposti a radicali mutamenti di senso, a mescolanze che ne trasfiguravano le valenze originarie, a veri e propri processi di reinvenzione che ne cambiavano funzioni e significato. È proprio alla luce di questa “norma” del rapporto viscontiano con la letteratura che il caso de Il Gattopardo appare significativamente eccezionale, se non del tutto straordinario, nella filmografia viscontiana. Non che anche qui Visconti non operi scelte significativamente selettive e modificative nei confronti del testo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che, ai tempi dei primi sopralluoghi palermitani per il film (autunno 1961) è uscito da appena tre anni (autunno 1958). Basti pensare alla sostanziale eliminazione del capitolo V del romanzo (la visita di Don Pirrone a S. Cono), sintetizzato nelle quattro inquadrature (171/174) della seq. XVIII, in cui il prelato spiega la differenza tra i “signori” e gli uomini normali, che il Tomasi aveva posto nel primo paragrafo del capitolo. E, ancor più, basti tenere presente la eliminazione secca dei capp. VII (“La morte del Principe”) e VIII (“La fine di tutto”), il cui dettagliato senso di morte è peraltro sintetizzato nella macrosequenza del ballo. Ma si pensi, appunto, anche al diverso peso che l’episodio del ballo ha nell’economia del racconto letterario (dove occupa meno di un decimo delle pagine) e in quella del racconto cinematografico (dove conta ben 178 delle 725 inquadrature del film, e occupa quasi un quarto del running time. O alla sostanziale diversità d’avvio dei due racconti: quello letterario, che dalla conclusione del Rosario e dal rientro del tutto “nell’ordine, del disordine, consueto”, con il Principe che ricorda “il cadavere di un giovane del quinto Battaglione Cacciatori”, ritrovato un mese prima nel giardino della Villa; e quello cinematografico, che recupera il Rosario sino dal finale della magnifica sequenza (inqq. 1/11) di avvicinamento a Villa Salina – vero e proprio preludio (extradiegetico o prediegetico, almeno fino all’inq. 9) del film – , compatta il tutto nelle iniziali sequenze (tra le inqq. 1/46), mettendo fra le primissime inquadrature (inqq. 23/28) anche la lettura del giornale e del biglietto inviati dal Principe al Duca Malvica, che nel romanzo chiudono il primo capitolo, venendo dopo la gita notturna a Palermo, la conversione con Tancredi e i rimbrotti di Padre Pirrone per la scorribanda erotica palermitana, e precedendo l’estrema conclusione, in Ringkomposition, con un nuovo Rosario (S’inginocchiò: “Salve Regina, Mater misericordiae”, pag. 63). La questione è che mai come nel Gattopardo Visconti sposa il punto di vista del protagonista letterario e adotta la sua centralità narrativa».

Lino Micciché, Il Principe e il Conte, in Il Gattopardo, a cura di Lino Miccichè, Napoli-Roma, Electa – Centro Sperimentale di Cinematografia, 1996, p. 9