La storia del film

La storia del film

 

Dall'idea al soggetto


Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Uno di loro era abbastanza ricco e si fece avanti come coproduttore, ma all’ultimo momento si ritirò. In autunno, Enzo Doria e io capimmo di non avere i soldi. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno.

(Marco Bellocchio)





La molla che spinge Bellocchio a realizzare il suo primo lungometraggio ponendo termine alle esperienze propedeutiche, è – se possiamo credere alle dichiarazioni di allora, peraltro molto sincere e verosimili – la necessità di definirsi in qualche modo con la realtà del cinema, di uscire dalle aspirazioni indifferenziate dell'età formativa, dal mondo delle possibilità aperte e non ancora realizzate, per confrontarsi con le cose, “perché registi lo si è solo dopo aver girato un film”. Si tratta perciò di motivi strettamente connessi con l'argomento, con la storia raccontata, nonostante egli non abbia quasi mai dato a vedere, nelle sue dichiarazioni, di saperlo, e abbia anzi detto di avere scelto il soggetto de I pugni in tasca fra molti altri che pensava di conoscere abbastanza bene (simili a quelli delineati nelle sue poesie), soprattutto perché lo si poteva realizzare con poco denaro, quello di cui disponeva personalmente.
Parte dunque da se stesso, dalla sua esperienza provinciale (piacentina), dal senso di isolamento che ne deriva. La dimensione della provincialità è appunto la lontananza, l'essere difficilmente raggiungibili da tutto, e semmai essere raggiunti solo da onde senza vento, da ripercussioni attenuate: una dimensione adolescenziale, un mondo sospeso, in attesa: Piacenza, che compare nel film, Imola che comparirà nel successivo e la loro ombra sonnacchiosa, gretta. Temi piacentini, ma anche temi universali, per l'ispirazione ai problemi generali dell'adolescenza, ai sentimenti ambigui che la caratterizzano sempre […].
Affermare che Bellocchio fa il suo primo film per uscire dallo stato adolescenziale, sarebbe tuttavia una imprecisione. Non renderebbe ragione alla sua consapevolezza così precisa della negatività di quella condizione, della frustrazione e dell'irresponsabilità che la definisce, e la cui conoscenza è già un superamento. Sono, anche, temi cari alla letteratura del Novecento, come dicono le citazioni: il giovane Törless di Musil, il giovane Holden di Salinger e inoltre, il romanticismo leopardiano, citato nel film, a mezzo fra il sarcastico e il malinconico.
Ma il cinema non è scrittura a tavolino, indefinitamente libera. […] I pugni in tasca è quindi anche un viaggio, un'avventura, a modo suo una partenza, per tornare a 'girare' nei luoghi dell'adolescenza. Il momento più difficile fu, naturalmente, quello iniziale, la ricerca dei finanziamenti.

(Sandro Bernardi, Marco Bellocchio, Il Castoro, Milano 1998)


Il soggetto dei Pugni in tasca l'ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L'idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.

(Marco Bellocchio)



Alla ricerca di un finanziamento


Nei primi anni Sessanta, sulla spinta della Nouvelle Vague francese, c'erano stati anche in Italia vari tentativi di promuovere una politica degli esordi di registi giovani e giovanissimi, con alcuni debutti importanti. Quello di Pasolini, prima di tutto: ma quando realizza Accattone (1961), Pasolini è alle soglie dei quarant'anni e soprattutto è già un poeta e uno scrittore affermato. C'erano stati poi i debutti dei fratelli Taviani, Elio Petri (L'assassino, 1961), Gian Vittorio Baldi (Luciano, 1962 ma uscito solo nel '67), Paolo Spinola (La fuga, 1964). L'unico evento che costituisce un precedente significativo al film di debutto di Bellocchio è Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci che, per quanto più giovane di Bellocchio, aveva debuttato nel 1962 con La commare secca, da un soggetto di Pasolini. Tuttavia i risultati economici di questa politica dei debutti e dei film a basso budget non erano stati particolarmente esaltanti. Di qui le difficoltà per il giovane Bellocchio di reperire i fondi per la realizzazione del suo primo lungometraggio.

(Antonio Costa, Marco Bellocchio. I pugni in tasca, Lindau, Torino 2005)


Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l'hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patriminiale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.

(Marco Bellocchio)


Vi racconto come trent'anni fa, al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un'impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All'epoca il fatto di aver realizzato fra l'altro un paio di film di Olmi, I basilischi (1963) di Lina Wertmüller e II terrorista (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo L'età del ferro (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l'aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po' mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: “Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia”. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.

(Tullio Kezich)





Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l'aiuto regista, un po' di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. I pugni in tasca è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l'inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l'Emilia e la Liguria. Anch'io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.
Un distributore un giorno mi ha risposto che invece stava facendo un film a episodi e doveva finanziare un episodio per 20 milioni, con Franchi e Ingrassia. Gli ho detto che volevo fare tutta un'altra cosa. Quando sono uscito mi ha richiamato indietro per dirmi che con 20 milioni mi sarei potuto comprare un appartamento, piuttosto che spenderli in un film del genere. Questo mi ha messo in crisi, tanto che da quel momento non abbiamo più cercato la distribuzione e il film ce lo siamo fatto da soli, lavorando anche molto. Io stesso non è che conoscessi la professione tanto bene. Avevo preso con me Ulisse Passalacqua, che ora lavora con Bertolucci. Era diplomato direttore di produzione. La sera facevamo i conti: per me il film costava 24 milioni, lui diceva che sarebbe costato 100 milioni e ricominciavamo da capo con i conti. Ero sempre più spaventato. Alla fine ci siamo salutati e lui non è entrato nell'operazione. Il film poi lo abbiamo fatto con 24 milioni. I pugni in tasca è stato una sorpresa per tutti. Quando siamo andati a Locarno sentivamo che la gente rideva, Sacchi, il critico di "Epoca", rideva e registrava i dialoghi, non sapevamo di aver fatto un film comico. Nessuno di noi pensava che avrebbe avuto questo successo, che sarebbe stato accettato con questa unanimità.

(Enzo Doria )


Alla fine è una soluzione di tipo famigliare che risolve i problemi: Tonino Bellocchio, fratello di Marco e magistrato di professione, riesce a reperire il finanziamento di cinquanta milioni con il quale si avvia la macchina della produzione. La madre di Bellocchio mette a disposizione la villa di famiglia a Bobbio, dove il film viene in gran parte girato. Collaboratori e attori accettano di lavorare con compensi minimi. Ennio Morricone, che l'anno precedente aveva firmato come Leo Nichols la musica di Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, compone la colonna sonora originale. Autore del montaggio è Silvano Agosti, compagno di Marco nel corso di regia del CSC. In realtà Agosti si firma con lo pseudonimo di Aurelio Mangiarotti, nome di un suo amico che faceva il muratore a Parigi. Allievi del CSC erano stati anche Alberto Marrama (direttore della fotografia) e Giuseppe Lanci (operatore alla macchina). E nei corridoi del CSC Bellocchio aveva incontrato Lou Castel (nome d'arte di Ulv Quarzéll), nato a Bogotà (Colombia) da madre inglese e padre svedese, venuto in Italia, dopo aver concluso gli studi in Svezia, a cercare fortuna come attore. Nel ruolo di Giulia, Bellocchio avrebbe voluto Susan Strasberg e, in quello di Augusto, Maurice Ronet, l'interprete di Fuoco fatuo (Le feufollet, 1963) di Louis Malle. Ma il ridotto budget a disposizione lo costringe a soluzioni più casalinghe. Il ruolo di Giulia è affidato a Paola Pitagora, che ha già fatto esperienza teatrale. Come ha ricordato l'attrice, per gli interpreti era previsto solo un rimborso spese.

(Antonio Costa, Marco Bellocchio. I pugni in tasca, Lindau, Torino 2005)



Il protagonista. Da Gianni Morandi a Lou Castel


All’inizio tentammo di coinvolgere un personaggio popolare come Gianni Morandi. Era molto giovane e Doria lo conosceva grazie a un amico comune. Aveva girato film mediocri che erano stati accolti da un discreto successo di pubblico. Pensavamo che avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Lesse la sceneggiatura e diede il suo consenso, ma la RCA, sua casa discografica, oppose un netto rifiuto dicendogli che il film gli avrebbe rovinato la carriera. Rimpiange ancora di non averlo fatto. Ricordo anche un provino con Franco Nero.

(Marco Bellocchio)


Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare I pugni in tasca, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l'idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica ecc.. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c'era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: “Se lo fai, ti spezzo una gamba”. La parte fu affidata a Lou Castel. Nello stesso periodo era iniziata la grande stagione del Cantagiro.

(Gianni Morandi )




Incontrai Lou Castel per puro caso. Ero alla ricerca di attori al Centro Sperimentale, lo incrociai alla mensa e mi parve interessante. Seguiva il corso di regia da studente straniero. Gli proposi un provino. In lui c’era qualcosa che arricchiva il personaggio. Durante le riprese ci accorgemmo che tra lui e Alessandro c’era una relazione profondissima. […] Lou aveva un tipo di isterismo che mi pareva adeguato al personaggio di Ale. Nel copione però Ale non aveva l'apparente mitezza di Lou, avrebbe dovuto essere uno più brutto di Lou e sempre carico di risentimenti. Lou ha fatto un Ale molto più criminale anche perché molto più dolce. La Pitagora è stata anche lei una scelta felice, io avevo pensato a una come la Strasberg, una che poteva essere molto bella o molto brutta da una scena all'altra, più trasandata. Il provino della Pitagora mi convinse subito, anche perché era una professionista, sapeva dire la battute, aveva già recitato.

(Marco Bellocchio)


Ero finito al Centro sperimentale, venendo dall'estero, con l'idea di fare l'attore e Marco cercava il protagonista per il suo film di debutto. Così mi ha fatto un provino, e durante il provino è successo un piccolo incidente che ha determinato il fatto che mi scegliesse: l'operatore aveva dimenticato di attaccare la spina alla batteria, e in tutto questo silenzio, "motore! azione!", non è scattato niente. Il clic della macchina mi ha fatto scoppiare a ridere di un riso irrefrenabile, quello che poi faccio in molte scene dei Pugni in tasca. Marco ha fatto dei salti di gioia e si è messo a gridare: "È lui, è lui, è spaccato!". E mi ha preso per quella risata. Mentre recitavo nel film, durante tutte le riprese io non pensavo affatto a tutte le implicazioni che la storia aveva e avrebbe avuto. Ma avevo dentro sicuramente quel tipo di tensione, di ribellione che era della nostra generazione, ci mettevo questo. Io venivo dalla Germania, e girando il film pensavo alla tensione della generazione tedesca, anche se può sembrare strano ci mettevo questo tipo di carica. La lavorazione era molto bella, perché andava tutto velocissimo e spontaneo, c'era un'atmosfera molto bella, ma tutti eravamo inconsapevoli, in fin dei conti. Ci divertivamo molto, ridevamo sempre. Le azioni che volta per volta faceva Ale le vedevamo con ironia, spesso come cose molto comiche, che però chiaramente io recitavo traducendole in modo molto drammatico. [...]
Il metodo di recitazione che io usavo era quello dell'immedesimazione, senza la dimensione doppia, senza il distacco che l'attore deve avere tra sé e il personaggio, tra la propria vita ed esperienza e la conoscenza dei confini precisi del personaggio che volta a volta recita. Invece c'era una simbiosi tra me e il personaggio, ed è una cosa pericolosa perché uno poi viene marchiato con quell'etichetta, diventa l'attore che può fare solo quel personaggio e basta. Mentre questa era invece solo una proiezione dei registi, di vedermi solo in questo modo, e allora entra in campo, mi pare, la nevrosi stessa del regista. Se il personaggio non viene visto criticamente, se ci si assorbe troppo nel personaggio, questo ha anche delle conseguenze nella vita reale dell'attore, nel suo comportamento. Credo che l'attore debba conoscere molto bene i limiti del personaggio e non andare oltre.

(Lou Castel)



Montatore e non solo: Silvano Agosti


La lavorazione fu un periodo molto bello della mia vita, con il gruppo di amici che si era formato, anche perché verificavo che potevo fare il regista, non avevo problemi, sapevo girare. Avvenne quasi tutta in una casa di mia madre, a Bobbio, il paese sopra Piacenza dove passavamo le vacanze. Erano i luoghi della mia infanzia, della mia adolescenza, ma nel film, piano piano, di autobigrafico non è rimasto quasi niente. Il ruolo di Doria era quello di produttore esecutivo, non era lui ad aver trovato i soldi, ma fu lui a garantire in qualche modo l'edizione, il doppiaggio, il lancio. Tutto il materiale girato lo affidai ad Agosti, che fece un lavoro fondamentale. Solo di recente ho cominciato a montare più o meno io quello che giro, allora mi era difficilissimo sistemare quello che avevo girato, dargli un ritmo, e Silvano fu indispensabile. Siccome avevamo fatto tutto tra amici, alla fine il costo del film non superò i 30 milioni in tutto, lira più lira meno.
Non sapevo, allora, chiamando il film I pugni in tasca invece che L'età verde, che il titolo fosse una citazione di Rimbaud, ma non mi è certo dispiaciuto saperlo. All'inizio il film avrebbe dovuto avere un'altra dimensione, quella della politica. Ale aveva degli amici che facevano politica, ma la politica non lo soddisfaceva e cosi pensava che solo attraverso atti estremi si poteva modificare la vita. Ma il suo problema era quello di scacciare i fantasmi e non quello di ammazzare la gente, come fa nel film. L'epilessia di Ale mi sembrava andasse bene proprio plasticamente: evitava al film quelle cose sentimentali, intimistiche, che ci sono spesso nelle opere prime, gli dava una certa violenza anche di immagini, e io volevo che fosse un film violento. Poi mi sono accorto che per lo spettatore medio è stato un discorso un po' limitativo, perché superfluo, dato che il film era già violento, senza l'epilessia. Esaurita la sua esperienza, al massimo del dominio familiare, Ale non poteva che esaurirsi, il finale è stato deciso proprio alla fine, con la crisi mortale di epilessia. È stato detto da molte parti che il film ha previsto il '68 e in qualche modo è vero, se si pensa che il '68 ha fatto esplodere delle tensioni frustrate, disperazioni e violenze familiari tenute accuratamente nascoste.

(Marco Bellocchio)





Tra il Centro Sperimentale e il lavoro con Marco per I pugni in tasca, c'era stato un periodo di un anno e mezzo passato a Mosca, dove tra l'altro divenni molto amico di Kulešov e maturai quel mio interesse per il montaggio che, dopo il film di Marco, mi è rimasto impresso come un marchio involontario più persecutorio che liberatorio. Ma ai Pugni in tasca ho partecipato in termini diversi da quelli del montaggio, per quanto concepito come costruzione di climi e non come esecuzione di un dato della sceneggiatura, ho partecipato a quell'atmosfera molto bella che c'era nella realizzazione del film, a quel clima di grande umiltà creativa. […]
Mentre Marco girava, io a Roma montavo. C'era tra noi, e intendo noi tutti, un clima di corrispondenza profonda e di grande semplicità, senza nessun tipo di competizione. Più che la sensazione di star facendo un film importante, c'era una sensazione di libertà che portava naturalmente all'entusiasmo per ciò che si faceva. A parte la fatica iniziale di avviare la macchina, c'era la sensazione di... assenza del padrone. E infatti non c'era un produttore, neanche un direttore di produzione, Doria era come un ispettore - e per fortuna ancora acerbo e incapace di pesare in senso negativo. Per I pugni in tasca ricordo anche benissimo il tempo che ho messo a montarlo: quaranta giorni a montare il film, un mese a montare l'ultima scena! Il protagonista "muore di montaggio". Non era previsto in sceneggiatura, ma è stato il film stesso a determinare questa fine. In Marco c'era una prudenza, diciamo di classe, nei confronti del personaggio e di se stesso: paura di autoferirsi, e anche, pensando in un primo tempo di non far morire il protagonista, di esprimere fino in fondo la rabbia che c'era dietro. Venendo da un'esperienza sociale diversa, credo di avere identificato immediatamente l'importanza del dato tragico del film, la negazione di possibilità di sbocco alla borghesia.

(Silvano Agosti)