L'adolescenza e la rabbia

L'adolescenza e la rabbia

Un esordio 'sconvolgente'

I pugni in tasca di Marco Bellocchio è probabilmente l’opera d’esordio più sconvolgente della storia del cinema
(Pauline Kael)


A metà anni Sessanta, l’arrivo folgorante nel cinema italiano di I pugni in tasca segna l’avvento di un regista venticinquenne che non mostra alcun legame né con il neorealismo né con la nouvelle vague francese cara a Bertolucci. Oltre a firmare da solo la sua sceneggiatura, distinguendosi così dal lavoro di gruppo che presiede alla scrittura dei film italiani, Bellocchio offre volti nuovi di attori della stessa sua generazione e ambienta il film nella regione dove è nato, l’Emilia-Romagna di Piacenza e Bobbio. L’ambiguità, la complessità della trama vanno di pari passo con l’eccezionale maturità di uno stile che rifiuta il compiacimento estetico tipico dei giovani per ricercare l’evidenza di una messinscena che rimanda a Buñuel e ai grandi americani con un montaggio secco e una prevalenza accordata al racconto e agli attori. La rabbia che si sprigiona dal film e che esprime la rivolta del protagonista Alessandro è accompagnata da uno sguardo lucido sul suo comportamento. Con freddo distacco, Bellocchio analizza una stagione nella vita di un giovane alla costante ricerca di scuse per la propria impotenza e in fuga da qualsiasi responsabilità personale. In questo cupo dipinto di una situazione senza sbocco non c’è alcuno spazio per l’‘umanesimo sentimentale’.

(Michel Ciment)




Bellocchio esplode con I pugni in tasca. Il film è segnato dalla irrequietezza gestuale di Lou Castel, inasprita dal montaggio ellittico. Questa gestualità inventata è forse la vera novità del film rispetto al cinema italiano dell'epoca. Sandro/Sandrino/Alessandro/Ale: neppure il nome riesce a stabilizzarsi. Il film, pur ruotando attorno al corpo dell'attore, è preda, poiché non sta mai fermo, di un'agitazione nervosa che lo alimenta, lo trascina, lo esalta e infine lo travolge e lo arresta: dopo il 'canto', in un fotogramma fisso e una coda nera. Il gesto iniziatico di Bellocchio si libera con violenza di patria, religione, famiglia, adolescenza, sentimento, raziocinio, cultura; troppo in fretta e troppo bene, se deve sacrificare, sia pure con una morte bella, il suo sovversivo.

(Adriano Aprà)







I pugni in tasca è stato uno degli esordi più importanti e discussi della storia del cinema italiano. Sostanzialmente autoprodotto dal regista grazie alla collaborazione di un gruppo di compagni di studi del Centro Sperimentale di Cinematografia, il film suscitò dibattiti su giornali e riviste, dovuti soprattutto all’atteggiamento dissacrante con cui raccontava il mondo della famiglia.
La cosa che più sorprende, nel riguardare I pugni in tasca e nel ripercorrere il dibattito che ne accompagnò l’uscita, è la sua ricezione in termini politici. Mentre oggi salta agli occhi proprio, si direbbe, la programmatica inutilizzabilità ‘pubblica’, ‘sociologica’ del personaggio di Ale, il suo carattere ambiguo e aporetico.
Molto si gioca, evidentemente, nel rapporto (istintivo eppure multiforme) tra il regista e il personaggio. Il nichilismo di quest’ultimo è solo in parte quello di Bellocchio; i due condividono solo l’impulso vitalistico, di base. Dove regista e personaggio si separano è proprio nella torsione parossistica e grottesca di quest’ultimo, nell’accento posto da Bellocchio sul nichilismo di Ale. Certo Ale non è in alcun modo un proto-rivoluzionario, la sua spinta ribellistica può contenere tratti quasi fascisti. (E infatti, nel girare nel 2009 Vincere, il regista in un primo tempo immagina il giovane Mussolini come un figlio, o un antenato, di Ale). Bellocchio non si identifica con il suo protagonista, ne è insieme attratto e respinto. Il suo stile a tratti ne mima le convulsioni, ma ad esempio nel finale sembra accomunarlo ai suoi simili e godere della sua agonia. […]
I pugni in tasca
, al contrario dell’altro Grande Esordio del cinema italiano cui spesso viene accostato, Ossessione, non aprirà nuove strade. Oggi ci appare come un film che chiude con il passato e che coglie convulsamente una situazione storica sospesa (l’anno dopo la ‘congiuntura’, tre anni prima del ’68), trasfigurandola in mondi visivi che da un lato già sono quelli del Bellocchio maturo, ma dall’altro hanno una potenza e un’urgenza che, proprio per la loro immediatezza, acquistano una profondità e una polisemicità ricche da esplorare ancora oggi nei loro intrecci col tempo storico. I pugni in tasca documenta anche l’incontro tra una sensibilità emergente e l’incerto manifestarsi di vecchio e nuovo (un film che “sceglie di rappresentare, come spesso è accaduto alla grande arte, il nuovo attraverso il vecchio”). Il suo paradosso è forse quello di essere un grande film giovanile che arrivava alla fine del momento di maggiore vitalità della società italiana e del suo cinema; un film, quasi, in leggera e feconda discrasia, controtempo senza saperlo.

(Emiliano Morreale)






 

Il film sviluppa in maniera compiuta l'analisi di un comportamento adolescenziale: una condizione di frustrazione e di sconfitta che induce l'individuo a un totale ripiegamento su se stesso senza via d'uscita. Si tratta senza dubbio di un caso estremo: uno di quelli che inducono all'omicidio plurimo e si concludono con il suicidio. Bellocchio, che conosce i limiti del personaggio, lo osserva con sguardo lucido, privo di sbavature sentimentali, ma non esente da un senso di sincera pietà. Ozioso e narcisista, Ale vorrebbe diventare adulto, ma crede di poterlo fare evitando la via più lunga e difficile, quella umile e redditizia del lavoro quotidiano. Sceglie la via più breve. Ma la sua idea di rinvigorire le sorti della famiglia eliminando i componenti a suo parere irrecuperabili è del tutto illusoria. Questa illusione, che assume gli aspetti di una vera e propria fascinazione diabolica, lo spinge al primo delitto, al quale inevitabilmente ne seguono altri. In questo modo Ale, invece di crescere, si trasforma definitivamente in un mostro. Ma basta osservare i primi piani di Castel per capire che all'origine di tanta accidiosa mostruosità c'è una sofferenza autentica, determinata da un rifiuto dell'ambiente circostante (vuoto e meschino), che non raggiunge il livello della consapevolezza, ma si esalta nella solitudine e sfoga la propria energia in un'area fantastica dominata dai sogni, dove la frustrazione e il senso di impotenza si sovrappongono e si moltiplicano reciprocamente.
La morte di Ale ha un evidente significato simbolico. Qualora avesse avuto un destino normale, Ale avrebbe superato, come fanno i più, la crisi adolescenziale e si sarebbe trasformato in uomo adulto. Sarebbe morta la sua condizione di minore, ma da quella morte lui sarebbe rinato a vita adulta. Il film radicalizza la situazione dando forma di morte reale a quel procedimento di trasformazione (morte e rinascita interiore) che appartiene all'esperienza comune di ogni individuo in crescita.

(Virgilio Fantuzzi)