Antologia critica

Antologia critica

Marco Bellocchio, quasi certamente, è e sarà un regista di prima, forse primissima grandezza. Pare che abbia soltanto venticinque anni. Ciò che ha saputo fare con I pugni in tasca ha perciò del prodigioso. Già i critici favoleggiano della sua carriera: due o tre anni di Centro Sperimentale, che non sono bastati ad addormentare la sua vitalità padana; e un anno a Londra che, in ogni caso, è bastato a riattivarla.
La fortuna del film di Bellocchio presso il pubblico, in Italia e all’estero, è straordinaria: soprattutto se si considera che i critici, pur lodando il film, non l’hanno capito. No, nessuno dei critici l’ha capito. Perché tutti lo hanno preso per un film tragico, mentre è un film non soltanto umoristico, ma francamente comico. Il pubblico, però, non ha sbagliato: ride dal principio alla fine, non perde una battuta né un gesto, né una situazione per divertirsi; e si divertirebbe di più se non fosse sviato dai critici e dal titolo. […]
Dopo tanti e tanti anni che una quantità di registi italiani insistono a girare film i cui protagonisti sono alienati, strani, mezzi matti (quante volte, dopo un film di Antonioni o Fellini, ho raccolto dalle labbra di uno qualunque del grosso pubblico, la seguente osservazione: “Insomma, si tratta un po’ – come dire? – di un caso di pazzia...”), ecco finalmente tutto un film dove tutti i personaggi sono matti. Tutti, compreso quello che sembra savio; ma matti da legare, proprio matti da manicomio. Una famiglia onesta, borghese, tradizionale, composta interamente da matti: da matti oggettivati concretamente, clinicamente. E la comicità nasce irresistibile dal fatto che ciascun membro della famiglia, pur avendo in qualche modo consapevolezza della propria pazzia, è talmente fiero della propria dignità borghese che non sospetta mai, neanche per un attimo, che sia necessario un ricovero in manicomio. Da questo punto di vista, il fratello che lavora e guadagna, l’unico che sembra veramente normale, è invece più pazzo degli altri: tanto è vero che non si rende conto della gravità della situazione, e permette così che il fratello ‘pericoloso’ massacri impunemente la madre e il fratello ‘scemo’ e muoia infine a sua volta per un attacco di epilessia. È davvero misterioso come il Bellocchio sia riuscito a serbare la mano leggera perfino nella scena atroce del matricidio. Ma, insomma, c’è riuscito.

(Mario Soldati, “Il Giorno”, 28 dicembre 1965)

 



Bellocchio mostra a profusione, con un umorismo acido che simula l’oggettività. Benché nascosto dietro l’alibi patologico, afferma con violenza cose che gli stanno a cuore, attraverso questa sorta di incubo buffonesco di cui ha probabilmente sognato le premesse, e che porta sullo schermo spingendolo ai suoi limiti estremi. Contrario a ogni ordine familiare e religioso, se ne vendica attraverso un oltraggio sfrenato, ma allo stesso tempo si guarda bene dall’identificarsi totalmente con il suo saccheggiatore, che caratterizza, mi pare, con alcune notazioni naziste (pronuncia in tedesco i suoi soliloqui blasfemi, stermina preferibilmente gli infermi...). I pugni in tasca, premiato a Locarno, invitato a Venezia, Rio, New York, Acapulco, fa il suo giro del mondo. Non è che giustizia per Bellocchio, la sola grande rivelazione dell’anno.

(Roger Tailleur, “Positif”, n. 72, dicembre 1965)





Marco Bellocchio ha dato fondo in questo suo I pugni in tasca a tutto ciò che di solito costituisce il mondo della giovinezza. In questo film c’è di tutto, davvero: odio e amore della famiglia, ambiguità dei rapporti fraterni, attrazione verso la morte, entusiasmo per la vita, volontà astratta di azione, furore impotente, malinconia morbosa, violenza profanatoria e infine, a sfondo di tutto questo, il senso cupo e fatale di una provincia senza speranza. Questa complessa e torbida materia non è però espressa in maniera crepuscolare come quasi sempre avviene nel cinema e nella letteratura italiana, bensì è affrontata, caso raro, drammaticamente. Il regista ha sentito che la violenza della sua polemica contro una certa società non poteva giustificarsi se non esplodendo in tragedia; e così si è posto il problema di come arrivare a inserire fatti grossi quali il matricidio e il fratricidio senza far saltare la fragile cornice naturalistica. Ma non ha saputo o voluto procedere sulla via maestra della normalità e ha preferito la scorciatoia della follia: infatti un uomo normale non può fare se non ciò che può fare, mentre un pazzo può invece fare qualsiasi cosa, salvo poi dare l’impressione che in fondo non ha fatto niente. C’era, però, il pericolo di cadere nel film orrido del genere di Chi ha ucciso Baby Jane? oppure nella tranche-de-vie verista di tradizione zoliana. Questa caduta è stata in gran parte evitata dal regista infondendo nel protagonista Alessandro una distorta e funebre coscienza. Marco Bellocchio con Alessandro ha inventato un personaggio molto bello e, specie nel cinema italiano, molto nuovo. L’originalità di questo personaggio sta nel fatto che la criminalità in lui non si nasconde, come avviene spesso nei veri delinquenti, dietro la facciata di un contegno corretto e normale bensì dietro una sistematica e ironica stravaganza. Il personaggio si salva e salva il film attraverso questa stravaganza di tipo amletico che finisce per dare un significato poetico anche ai suoi delitti, quasi riducendoli a espressioni bizzarre ma giustificate del suo stato d’animo.

(Alberto Moravia, “L’Espresso”, 2 gennaio 1966)





Lo si voglia o no, c’è una cosa che bisogna pur vedere in questo primo (e grande) film: Bellocchio ha, checché ne dica, rapporti ancora aspri e non distanziati con un’età a cui è ancora vicino e che ha compreso come pochi. I pugni in tasca è dunque un film partecipato, vissuto, nonostante tutte le trasposizioni simboliche di un soggetto spinto alle sue estreme conseguenze (malattia, crimine, incesto) e fino al limite del grottesco. È peraltro questo a dargli tutta la sua ricchezza e originalità, la sua profondità poetica dentro una narrazione tutta prosastica e di lontana base naturalistica. Totalizzando in sé problemi e difficoltà, solitudini e slanci di una ‘stagione della vita’, Ale diventa così, per lo spettatore, un punto di riconoscimento che non può essere, dopo le prime reazioni, altro che ‘compromettente’, e diremmo quasi lirico. In questo senso, si tratta veramente di un’‘opera prima’: in germe, su un terreno non solo volontaristico, vi sono gli elementi di un’opera che vuol divenire sempre più ‘pubblica’ e in cui la rivolta vuol dunque avere il primo posto affrontando i nodi, politici e umani, di una società determinata; si profondono nella regia tutta una serie di elementi autobiografici, naturalmente non diretti come troppo spesso capita ai giovani registi (e qui un paragone col bel film di Bertolucci Prima della rivoluzione sarebbe illuminante), ma con un bisogno, un’esigenza di catarsi e quasi d’esorcismo.
Quel che importa è che questa ambiguità sia stata canalizzata e controllata in un’opera che, nella sua estrema sincerità, è di straordinaria ricchezza e di una maturità quale il giovane cinema ha raramente raggiunto. Parlavamo di prosa, ma sarebbe meglio precisare che il punto di forza del film è proprio la oggi così vituperata sceneggiatura. Bellocchio sa costruire il suo film con una sicurezza inabituale; il suo cinema è fatto di azioni, movimenti, che si risolvono in crescendo e in pause intense, calcolate. Qui, veramente, più che la lezione dei Bresson-Antonioni cui Bellocchio ha dedicato la sua tesi, si avverte la conoscenza e influenza di certo cinema americano (Kazan, Brooks, Fuller, per esempio, o, per gli interni domestici, le tempeste attorno al tavolo, il Penn di Anna dei miracoli), e infine, oltre l’eco comune di Stroheim, Buñuel. Come Buñuel, Bellocchio rinuncia alle prodezze della macchina da presa e muove solo lo stretto necessario: a preoccuparlo è innanzitutto la necessità – ma anche il piacere – di raccontare una storia, lasciandone la interpretazione agli esegeti, dicendo tutto e purtuttavia tacendo, perché i fatti devono parlare da soli, con le loro molte implicazioni e i loro molti linguaggi, secondo risonanze determinate da associazioni non sempre coscienti.

(Goffredo Fofi, “Positif”, n. 76, giugno 1966, poi in Capire con il cinema, Feltrinelli, Milano 1977)




 

Questa sorta di rabbia ragionatrice, questa collera ponderata e metodica che definisce, fin dalle prime inquadrature, uno spazio radicalmente originale dove ciascuno può subito riconoscere e identificare i demoni della propria adolescenza, malgrado il carattere deliberatamente eccezionale dell'intreccio utilizzato, impone gli accenti di una contestazione che per la propria violenza e la propria portata si inscrive sulle tracce di L'Âge d'or e di Zéro de conduite: come Buñuel e Vigo, Bellocchio sa fondere gli argomenti del suo terribile regolamento di conti nel movimento di un poema drammatico, e contenere attraverso una costante ironia ciò che la tesi poteva offrire di eccessivo e di fuori misura.

(Jean-André Fieschi, “Cahiers du cinéma”, n. 179, giugno 1966)




 

L’equivoco in cui sono caduti molti critici è che Bellocchio sia in posizione di violenta polemica, provocatoria e demistificante, con le sacre istituzioni, i cosiddetti ‘valori’ borghesi. […] Ma Bellocchio non è così ingenuo da polemizzare con i ‘valori’ tradizionali tramite gli sberleffi di Alessandro. Il film, come ho detto, analizza il comportamento di un adolescente, e tale comportamento comprende anche certe reazioni, sprovvedute, infantili e di comodo, al mondo degli adulti. Il regista dà ben poco peso alle reazioni irriverenti di Alessandro, non solo non le prende sul serio, ma ci si spazientisce subito (e il suo film è un film impaziente per spettatori impazienti). Il motivo per cui il film mi sembra importante è che da esso traspare che non c’è nulla da profanare. I ‘valori’ sbeffeggiati da Alessandro non sono valori per Bellocchio, e quindi non richiedono una seria confutazione. Si è già con questo film in un periodo di molto posteriore alla ‘crisi dei valori’. Si riparte da zero. Se così non fosse, la ‘battaglia’ di Bellocchio sarebbe arretrata e, in qualche modo, interna al sistema. Né c’è traccia nel suo film di ansia di tipo mistico o religioso (come certi furbastri cattolici vorrebbero far credere), si descrive o si accenna a descrivere, un mondo borghese che è solo putrefazione e che non ha possibilità di riscatto. Anzi, non c’è nemmeno un mondo borghese, ma gli ultimi suoi rantolanti sussulti. Solo in questo senso è accettabile la definizione di film di rottura. Il film, ripeto, ha liquidato definitivamente, non solo il vecchio mondo di valori, ma anche la polemica con essi.

(Grazia Cherchi, “Giovane critica”, n. 12, estate 1966)