Truffaut sul film

Truffaut sul film

All'inizio era la storia di un ragazzino che non ha il coraggio di tornare a casa...

All'inizio doveva essere un cortometraggio di venti minuti dal titolo La Fugue d'Antoine. [...] Volevo girare una serie di scenette dedicate all'infanzia. Finito Les Mistons, non trovai subito i soldi necessari per girare gli altri cortometraggi e inoltre mi resi conto che erano troppo diversi dagli altri miei progetti, tutti più o meno autobiografici o tratti da esperienze diverse e che non volevo mescolare con Les Mistons. In partenza, La Fugue d'Antoine era la storia di un ragazzino che non ha il coraggio di tornare a casa dopo aver marinato la scuola e passa la notte in giro per Parigi, poi, a poco a poco, si è trasformata in una specie di cronaca dei tredici anni (l'età più interessante secondo me) tralasciando tutto un aspetto al quale tenevo molto, quello di Parigi sotto l'occupazione tedesca, della borsa nera ecc. La ricostruzione di quell'epoca mi era preclusa per motivi non solo economici, ma anche estetici, perché si cade facilmente nel ridicolo rievocando la moda di quei tempi.
[...]
Era da molto tempo che l'idea mi ronzava in testa. L'adolescenza è un modo di essere riconosciuto da educatori e sociologi, ma negato da famiglia e genitori. Per parlare da specialista, direi che lo svezzamento affettivo, il sopraggiungere della pubertà, il desiderio d'indipendenza e il complesso d'inferiorità sono segni caratteristici di quell'età. Basta un solo atto di ribellione e questa crisi viene giustamente chiamata "originalità giovanile". Il mondo è ingiusto, dunque dobbiamo sbrigarcela da soli: e si fanno i quattrocento colpi.

François Truffaut, intervista di Yvonne Baby, "Le Monde", 21 aprile 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 


Non tutto è autobiografico, anche se è tutto vero

Anch'io ho avuto una carriera scolastica molto movimentata, ma nei 400 colpi non tutto è autobiografico, anche se è tutto vero. Che quelle avventure siano state vissute da me o da un altro non ha importanza, l'essenziale è che sian state vissute.
L'idea del film mi è venuta da una trasmissione televisiva: "Si c'était vous". I realizzatori, [Marcel] Blüwal e Marcel Moussy intrattenevano il pubblico sui conflitti tra genitori e figli. Naturalmente Moussy è poi diventato il mio dialoghista. Se fossi stato solo, avrei rischiato di mostrare i genitori in modo molto caricaturale, di fare una satira violenta ma non obiettiva, e Moussy mi ha aiutato a rendere queste persone più umane e vicine alla norma. Lui non aveva mai lavorato per il cinema, ma ci siamo compresi benissimo. Ho capito subito che era impossibile scrivere dialoghi per ragazzini: così davamo loro in mano la situazione ed erano loro stessi a formulare le frasi. I dialoghi dei genitori, dei professori ecc. sono stati scritti da Moussy: trovo che siano perfetti. Moussy una volta era un professore e se n'è chiaramente ricordato per le scene di scuola.
D'altronde Moussy mi ha aiutato molto anche a mettere ordine nella sceneggiatura. Avevo pagine e pagine di appunti, ma erano così personali che non si riusciva a dar loro una struttura. Moussy, in questi casi, è formidabile, è unico nel riuscire a impadronirsi di un piccolo elemento della sceneggiatura e farlo rivivere, crescere. È riuscito a dare un'ossatura drammatica al film senza ricalcare un dramma teatrale.

François Truffaut, intervista di Yvonne Baby, "Le Monde", 21 aprile 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 



Girare con i bambini: una grande tentazione prima, un grande panico durante, un'immensa soddisfazione dopo

Girare con bambini è una grande tentazione prima, un grande panico durante (perché è una materia spaventosa che ti scivola tra le dita) e un'immensa soddisfazione dopo. Anche quando pensavo che tutto andasse alla deriva, c'era qualcosa che si salvava, e in ogni caso è sempre il bambino la cosa migliore che c'è sullo schermo.
Mi fa più piacere dirigere un bambino che un adulto, perché, essendo anch'io un debuttante, tendo a farmi intimidire dall'"anzianità" e quando i "grandi" non vogliono fare quello che dico io, mi capita di rinunciare a lottare e di farmi incastrare dai loro trucchi e non sono mai certo di avere ragione. Con i bambini è diverso, so di avere ragione. Per esempio, durante tutta la lavorazione ho lottato contro Jean-Pierre Léaud. Era un ragazzino formidabile, ma aveva il complesso di sembrare antipatico e voleva sempre sorridere. Per tre mesi gli ho impedito di sorridere... e so di aver avuto ragione.
Ho avuto una fortuna incredibile a incontrare quel ragazzino. Era un personaggio, o meglio, ha migliorato il film. Io vedevo Antoine più fragile, più indifeso, meno aggressivo, Jean-Pierre gli ha dato la sua forza, la sua aggressività, il suo coraggio. È stato un collaboratore prezioso, per istinto trovava i gesti giusti, rettificava il testo, sempre con esattezza e impiegava le parole che aveva voglia d'impiegare.

François Truffaut, intervista di Yvonne Baby, "Le Monde", 21 aprile 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.



 

I film sull'infanzia della mia vita

Ci sono due film sull'infanzia che ho amato molto e dai quali riconosco di essere stato influenzato: Zéro de conduite, di Vigo e Germania anno zero di Rossellini. Secondo me, spesso i film sull'infanzia non riescono per due motivi: primo, il più ricorrente, il bambino non è veramente il centro del film, perché viene legato a un personaggio interpretato da un divo adulto. Per esempio, la presenza di Gabin in Chiens perdus sans collier [Cani perduti senza collare, 1955, di Jean Delannoy] ne fa un film sui giudici per minori e non sulla delinquenza giovanile. Si potrebbe allora dire che non ci sono film sull'infanzia perché non ci sono bambini divi.
Riguardo agli interpreti bambini, credo che bisogna evitare le ragazzine dai cinque ai dodici anni. A quell'età le ragazzine usano lo charme, cercano di sedurre, non dicono una frase sincera e giocano a fare la Manon. [...]
Poi capita che il bambino sia tradito da un vizio di forma della sceneggiatura e allora spesso il bambino scompare, a beneficio di un oggetto o di un animale. Questi film partono semplicemente da un'idea drammatica, ma non cercano di entrare nel mondo dell'infanzia né di comprendere la verità. L'errore più grande è quello di voler essere poetici "a priori", ma un film si può definire poetico solo quando è finito, non prima. Ed è così che si fanno i film sui palloni rossi, i cavalli bianchi o i cervi volanti, ma non sui bambini.
Bisogna sempre ricordarsi che il bambino è materia patetica a priori, una materia alla quale il pubblico è molto sensibile. Però occorre anche fare attenzione a non essere mai sdolcinati o compassionevoli. Un bel primo piano del bambino che sorride, e la partita è vinta. Ma ciò che colpisce, quando li si conosce a fondo, è la loro serietà in rapporto alla frivolezza degli adulti.
E tutto ciò Rossellini l'ha espresso magnificamente, sia nell'episodio di Paisà in cui il bambino si comporta da adulto e il soldato negro da bambino, sia in Europa '51, dove il bambino muore suicida mentre i genitori giocano con il trenino elettrico, o in Germania anno zero, dove tutti i personaggi sono squilibrati rispetto al bambino, che alla fine dovrà pagare per loro.
Nel mio film c'erano alcuni compiacimenti che ho tagliato. Per esempio, quando abbiamo visto i giornalieri dei bambini al Guignol era fantastico e noi eravamo sconvolti. Ce n'era per una mezz'ora e, malgrado la tentazione, ne ho lasciato solo lo stretto necessario. Comunque, mi sembra che nel film ci sia almeno un compiacimento: è la scena in cui i bambini, che hanno appena rubato la macchina per scrivere, passano per strada dietro ai piccioni che volano via. È molto carina, ma gratuita. Come scusante di questa scena c'è, innanzitutto, il fatto che io sono cosciente che si tratta di una piccola prodezza di ripresa per [Henri] Decae, che l'ha girata in pieni Champs Élysées, senza che nessuno ci vedesse. Una vera prodezza.

François Truffaut, intervista di Pierre Billard, "Cinéma 59", n. 37, giugno 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 

La mia immaginazione funziona con la realtà, non con il cervello

Si pensa sempre che la gente dei "Cahiers du cinéma" debba fare film molto intellettuali, con abuso di inquadrature sapienti e movimenti di macchina. Io, per conto mio, non sono affatto un intellettuale, come non lo era il mio primo film, Les Mistons. Non sono passato per una scuola di cinema e non sono mai stato assistente; è un inconveniente e anche un vantaggio: si inventa.
Se fossi stato uno del mestiere, nella sequenza finale in cui il mio eroe corre verso il mare, in un lungo piano in movimento, avrei intercalato primi piani dei piedi che corrono, dei visi sudati. L'idea di questo effetto di montaggio l'ho avuta al festival, perché me l'hanno detto. Ciò che mi interessava di quella panoramica era il paesaggio che si modificava dietro al ragazzo che corre nella campagna normanna verso la Senna, la sua foce, il mare.
Ci si batte con la tecnica, e anche se le intenzioni sono chiare, spesso i risultati sono sfocati, incerti. Fortunatamente per Les Mistons e I 400 colpi sono stato aiutato da un amico, Philippe de Broca, assistente professionista. Un giorno dirigerà un film. Con la sua presenza spesso silenziosa, mi ha messo in guardia contro i gravi errori che avrebbero potuto intralciare il montaggio.
Per I 400 colpi avrei avuto grossi problemi a girarlo in una appartamento piccolissimo senza l'aiuto del mio operatore Decae. Lui riuscì a fare l'impossibile, in uno spazio molto ristretto. In studio, per girare in una cucina stretta, gli sarebbe bastato togliere una parete. In quell'appartamento ha dovuto sistemarsi fuori di una finestra, sospeso nel vuoto, con la sua macchina da presa a mano... Abbiamo anche fatto delle riprese a Place Clichy e nel métro Franklin-Roosevelt, con la cinepresa nascosta dietro un giornale che sollevavamo all'ultimo momento, senza che la gente avesse il tempo di rendersi conto che stavamo girando un film...
Non sarei capace di preparare un film con una sceneggiatura molto particolareggiata, preparata in anticipo, sequenza per sequenza. Io non sono un matematico e bisogna fare ciò per cui si è tagliati, altrimenti è finita. La mia immaginazione funziona con la realtà, non con il cervello. Io credo nell'improvvisazione.

François Truffaut, intervista di Pierre Billard, "Cinéma 59", n. 37, giugno 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 

Il pubblico rimase stupito

Finito il film ero molto demoralizzato per la sua qualità, ma alle prime proiezioni rimasi sorpreso, perché la gente ne era entusiasta, molto più di adesso. Oggi il film ha una sua fama, all'inizio non ne aveva nessuna, tranne quella che potevo dargli io, e io gliene davo senz'altro una cattiva, perché sono sempre demoralizzato tra l'ultimo giro di manovella e il mixage. Insomma, annunciavo a tutti la catastrofe.
La gente le prime volte rimase stupita, e anch'io lo fui del loro stupore. Credo che la cura che si mette durante e dopo le riprese incida solo sui dettagli, mentre l'essenziale passa. In un film, se si è fatto ciò che più o meno si voleva, senza costrizioni, senza cioè che qualcuno pretenda di cambiare i dialoghi o la sceneggiatura o di imporre gli attori, ebbene, si raggiunge un risultato molto vicino alle intenzioni. Mi accorgo che adesso la gente parla del mio film con le stesse frasi che mi sono detto io prima di farlo. Mi stupisce molto sentir dire che si tratta della solitudine di un bambino, perché è esattamente quel che io volevo fare nel film. E mi dico: ma allora funziona! Eppure ho la sensazione di aver sbagliato qualcosa; per esempio, la notte in giro per Parigi, ritengo sia sbagliata. Oppure una delle mie idee iniziali prima che la sceneggiatura fosse finita: vedevo il film come una specie di documentario sul marinare la scuola, e anche quel lato è fallito, insomma è scomparso dal film. Per il resto, credo che l'essenziale che volevo far passare ha funzionato. L'idea dell'infanzia considerata come un brutto momento della vita non si avverte molto, l'ho capito dalle discussioni che si sono fatte intorno a me; non si sa se il film è pessimista o ottimista, non si affronta il problema dallo stesso punto di vista. Ma su un piano il film ha raggiunto il suo scopo, quello di mettere i genitori di fronte ai problemi dell'educazione, al rapporto genitori-figli, al rapporto tra generazioni.

François Truffaut, intervista di Pierre Billard, "Cinéma 59", n. 37, giugno 1959, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 

Il film di un'epoca della mia vita

Questo è veramente il film di un'epoca della mia vita: se lo avessi realizzato tre anni prima, sarebbe stato più 'ribelle'. Adesso invece trovo che somigli troppo a un "ingranaggio". Al momento delle riprese mi sono fatto influenzare; credevo che il ragazzino fosse troppo antipatico e ho rinunciato a girare alcune scene di rubacchiamenti, taccheggi, sfacciataggine. Al contrario, oggi ricercherei quelle scene per dare al film un equilibrio più giusto tra la responsabilità degli adulti e quella degli adolescenti.
In fin dei conti, amo follemente I 400 colpi, perché so che non potrei più rifare un film così efficace. Tutto era depurato, ogni gesto era il solo possibile. Antoine mette la tovaglia, riempie la padella, vuota il secchio dell'immondizia: ogni dettaglio è conforme alla realtà, esattamente ciò che volevo ottenere. Lo vedo come un documento, ed è con quello spirito che è stato montato.

François Truffaut, intervista di Dan A. Cukier e Jo Gryn, "Script", n. 5, aprile 1962, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.

 


I 400 colpi è hitchcockiano

Mi rendo conto, quattro anni dopo, che I 400 colpi è hitchcockiano. Perché? Perché dalla prima immagine all'ultima ci si identifica con il ragazzino. A suo tempo qualcuno ha elogiato un film idiota di Robert Montgomery, The Lady in the Lake [Una donna nel lago, 1946]. Ma la cinepresa soggettiva è il contrario del cinema soggettivo: quando si sostituisce al personaggio, è impossibile identificarsi in lui. Si ha cinema soggettivo quando lo sguardo dell'attore incrocia quello dello spettatore. Perciò se il pubblico sente la necessità di identificarsi, si identificherà automaticamente con il viso di cui ha più spesso incontrato lo sguardo, con l'attore che è stato più spesso ripreso da vicino e di faccia. È ciò che è successo con Jean-Pierre Léaud. Facendo un documentario su di lui, io credevo di essere oggettivo, ma più lo filmavo di faccia, più lo rendevo presente, e più la gente si identificava in lui.
Era dunque un film totalmente naïf, fatto nell'ignoranza più totale di certe leggi del cinema; allo stesso tempo era inconsciamente scaltro, molto più di quello che fatto in seguito.

François Truffaut, intervista di Dan A. Cukier e Jo Gryn, "Script", n. 5, aprile 1962, tr. it. Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 1990.