Antologia critica

Con I 400 colpi F. Truffaut entra nel cinema francese moderno come nel collegio della nostra infanzia. Ragazzi umiliati di Bernanos. Ragazzi al potere di Vitrac. Ragazzi terribili di Melville-Cocteau. E ragazzi di Vigo, ragazzi di Rossellini, insomma ragazzi di Truffaut, espressione che passerà dopo l’uscita del film nel linguaggio comune. Si dirà presto i ragazzi di Truffaut come si dice i lancieri del Bengala, i guastafeste, i re della mafia, gli assi del volante, o anche per dirla in due parole i drogati del cinema. Ne I 400colpi la macchina da presa del regista dei Mistons sarà di nuovo non ad altezza d’uomo, come nel padre Hawks, ma ad altezza di ragazzo. E se si sottintende arroganza, quando si dice altezza, allora I 400 colpi sarà il film più arrogante, più orgoglioso, più testardo, più ostinato, in due parole per finire, il film più libero del mondo. Moralmente parlando. E anche esteticamente. Gli obiettivi della macchina da presa regolati da Decae ce ne riempiranno gli occhi come quelli del Trapezio della vita. Il découpage sarà vivo e arioso come quello di La stagione del sole. I dialoghi e i gesti mordenti, come in Faccia d’angelo. Il montaggio delicato come quello della Divina. La preziosità farà capolino come in Furia selvaggia. Questi titolo non si susseguono a caso sotto i tasti della mia Japy elettrica. Fanno parte della lista dei dieci migliori film dell’anno 1958 secondo F.Truffaut. Affascinante e bella famiglia alla quale I 400 colpi si integrerà alla perfezione. Per riassumerci, che dire? Questo: I 400 colpi sarà un film firmato Franchezza, Rapidità, Arte, Novità, Cinematografo, Originalità, Impertinenza, Serietà, Tragicità, Refrigerio, Ubu-Roi, Fantastique, Ferocia, Amicizia, Universalità, Tenerezza.

(Jean-Luc Godard, "Cahiers du Cinéma", n. 92, 1959)



Con I 400 colpi rientriamo nella nostra infanzia come in una casa abbandonata dopo la guerra. La nostra infanzia, anche se si tratta innanzitutto di quella di FT: le conseguenze di una bugia sciocca, il fallimento della fuga, I’umiliazione, la scoperta dell’ingiustizia, no, non esiste infanzia 'incontaminata'. Parlando di se stesso sembra parlare anche di noi: è il segno della verità, e la ricompensa del classicismo autentico, che sa limitarsi al proprio oggetto, pur vedendolo all’improvviso allargarsi e coprire tutto il campo dei possibili. L’autobiografia non è, per motivi che si possono facilmente immaginare, un genere affrontato molto spesso nel cinematografo; ma non è questo che deve stupirci, bensì la serenità, il ritegno, la costanza di voce con i quali viene evocato un passato così parallelo al proprio.
[...] Ora ne sono quasi sicuro: sullo schermo ho riconosciuto tutto, ho ritrovato tutto. La madeleine di Proust non gli restituiva altro che la sua infanzia; ma di una buccia di banana, trasformata in fondo al piatto in stella di mare, F.T. fa molto di più; e in un colpo solo ogni tempo è ritrovato, il mio, il tuo, il vostro, un tempo unico nella luce che non trovo aggettivi per qualificare, la luce inqualificabile dell’infanzia. Guardatelo bene: questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico. Non c’è nulla che denoti una qualche forma di esibizione
[...] Si potrebbe ancora insistere sulla straordinaria tenerezza con la quale F.T. parla della crudeltà, che non può essere paragonata ad altro che alla straordinaria dolcezza con la quale Franju parla della follia; in entrambi i casi, una forza quasi insostenibile nasce dall’uso continuo della litote, e il rifiuto dell’eloquenza, della violenza, della spiegazione, conferisce a ogni immagine un battito, un fremito interno, che ci raggiungono all’improvviso in brevi fulgori lucenti come una lama. Si potrebbe parlare, a ragion veduta, di Vigo o di Rossellini, o, più giustamente ancora, di Les mistons o di Un visite. Tutti questi riferimenti non vogliono dire, in definitiva, un granché e bisogna affrettarsi a farli finché si è ancora in tempo. Volevo dire soltanto, nel modo più semplice possibile, che ora abbiamo fra noi, non più un debuttante dotato e promettente, ma un vero cineasta francese, che sta alla pari con i più grandi, e si chiama François Truffaut.

(Jacques Rivette, Du côté de chez Antoine, "Cahiers du cinéma", n. 95, maggio 1959)


François Truffaut appartiene a quella famiglia di spiriti che vengono al mondo con l'ingiuria alla bocca. Adesso sappiamo che certi suoi atteggiamenti (una volta, a pranzo insieme a Bagutta, René Clément ci disse: “Truffaut? È un tipaccio”), certe sue patenti ingiustizie, altro non erano che sfoghi ambiziosi. Ora che è riuscito nei suoi intenti, si allineerà probabilmente con i suoi colleghi trascinati sino a ieri nella polvere.
I 400 colpi
è chiaramente autobiografico. […] Il film si ferma davanti all'oceano, ma noi sappiamo che il protagonista ha finito, come tanti, per acquietarsi nell'ordine borghese. Nulla di male se continuerà ad offrirci opere intelligenti e fresche come questa. Servendosi di piccoli interpreti di una simpatia straordinaria, Truffaut ha immerso il film in un clima freddo, in una Parigi nebbiosa, umiliata dalla scarsa luce dell'autunno. Né ha infierito, come c'era da aspettarsi, verso rappresentanti della società, genitori, guardie e giudici.
Bisogna dire che, pur essendo del tutto plausibile dal punto di vista ambientale e sociologico, I 400 colpi appare un film colmo di tenerezza. La piccola vittima mostra una saggezza da adulto.
In tutto il film corre come una sorgente chiacchierina. Con tutti i loro mali, quegli anni significano che il ragazzo fatto adulto ha un passato da ricordare. I 400 colpi appare dunque un'opera sincera, una pellicola che rompe con le convenzioni psicologiche e drammatiche che aduggiano il cinema corrente.
Ha anche pagine esemplari: il professore di ginnastica, che guida gli allievi per le vie della metropoli, sta in testa e quando giunge sul luogo destinato allo sport, tre quarti degli scolari se la sono svignata; le ore del protagonista nei commissariati di polizia, fra donnine e ladri da strapazzo; le scene del riformatorio, con le figlie piccole del custode messe in gabbia perché non abbiano a subire contatti con i reclusi in ricreazione. Vecchia verità che i carcerieri soffrono la prigione quasi come le loro vittime.
Infine (è il pezzo più bello!) l'interrogatorio da parte di una psicanalista che non si vede, di una malizia tutta francese. In conclusione, un film eccellente anche se è abbastanza chiaro che Truffaut ha preso le mosse da un vecchio capolavoro, Zero in condotta di Jean Vigo.

Pietro Bianchi, I 400 colpi, “Il Gatto Selvatico” , ottobre 1959



La reazione di Antoine all'ambiente domestico è […] la fuga. Con precoce serietà, egli informa i suoi genitori per lettera che la vita con loro non è più possibile, e scappa a vivere clandestinamente a casa di René dopo aver trascorso una notte in una tipografia. Il tema centrale – che la libertà sia inestricabilmente connessa con l'isolamento- è nuovamente illustrato qui mentre Antoine passeggia da solo oltre le vetrine di qualche negozio di biancheria femminile, e nell'alba grigia ruba una bottiglia di latte e la trangugia davanti a un manifesto pubblicitario di vacanze invernali – due aspetti di un mondo che è lontano centinaia di chilometri dal suo in questo momento. Fa un tentativo di integrarsi a una società le cui regole gli sono incomprensibili, come quando rompe il ghiaccio nella fontana di Place de la Trinité e si bagna il viso con qualche goccia d'acqua, prima di tornare a scuola.
Il mondo che Antoine abita è tanto affascinante e squallido quanto il brulicante sotterraneo parigino di Balzac di un secolo prima. Qui il crimine è all'ordine del giorno. Mauricet, lo spione della scuola, ruba dai genitori; così René; le tasche sono svuotate nel guardaroba; ognuno gestisce le i costi dei propri affari. Antoine e René vedono il crimine come un segno di raggiunta indipendenza, e allo spettacolo di marionette, in contrasto con la rapita meraviglia e la spontanea emozione di un bambino tra il pubblico, compiono il loro primo crimine. La sua esecuzione è affidata ad Antoine, René osserva. L'influenza di Hitchcock, rintracciabile già nei primi piani di Antoine, è ancora visibile qui nel modo in cui Truffaut gira il furto della macchina da scrivere, e successivamente nel tentativo fallito di Antoine di restituirla perché non sono riusciti ad impegnarla al Mont de Piété. La sequenza con Antoine in primo piano, visto dal punto di vista del portiere e interrotto improvvisamente da una mano sulla sua spalla, genera suspense in un modo che ricorda la scena in classe quando i genitori di Antoine compaiono sulla soglia e sono visti dall'insegnante, con la macchina da presa che carrella sul primo piano di Antoine, pietrificato, prima di tornare a mostrare i genitori.
La Parigi di Antoine è per lo più l'area di Montmatre-Pigalle con al centro Place Clichy, Place de la Trinité, la scalinata del Sacré Coeur – la stessa Parigi malfamata di prostitute, protettori e criminali, una Parigi le cui luci lo abbagliano mentre la camionetta della polizia lo porta en route al centro di detenzione. Il suo confinamento alla centrale della polizia per una parte della notte è poco più di un ribadimento del tema del suo isolamento dalla società. La serie di riprese di Antoine visto attraverso le sbarre – in una cella, ingabbiato nel “pollaio”, nella camionetta della polizia e nella cella del riformatorio – introduce il tema dell'imprigionamento, e garantisce la nostra totale identificazione con la condizione di Antoine. Il processo, in cui viene privato di tutti i suoi averi, vestito con una scialba uniforme, fotografato in due scatti che lo fanno sembrare un ombroso malvivente, è pensato per creare un oggetto de-umanizzato (un'eco questo de Il ladro di Hitchcock). E l'irreggimentazione a cui è ora soggetto è lì a indurre in lui una condizione di passiva obbedienza, per creare un accondiscendente automa che dev'essere poi reintegrato nella società.

Don Allen, François Truffaut, Secker and Warburg, London 1974



La libertà, certo, è il motivo poetico che in I 400 colpi unisce Truffaut a Vigo, ma oltre a prendere ala nel secondo tempo del film, non acquista sbalzi liricizzanti, non sfiora neppure lontanamente le rive di una possibile retorica, sebbene di stampo libertario e dunque più accettabile. Anzitutto Truffaut, per essere egli un autore, meno di altri coinvolto in rilevamenti sociologici, è in I 400 colpi un acuto fotografo delle trasformazioni che hanno riconnotato la piccola borghesia francese sul finire degli anni Cinquanta. La famiglia di Antoine Doinel è esemplare nella vivezza delle indicazioni fornite da una descrizione che, restituendo il sapore della quotidianità, non patisce di insistenze e di minutaglia informativa. L'angustia dell'alloggio, in cui abitano i Doinel, la consolazione serale dello spettacolo cinematografico, la fretta e l'estemporaneità che contrassegnano la preparazione di una cena arrangiata, il padre e la madre di Antoine che lavorano in uffici diversi dalla mattina alla sera, Antoine che disbriga sventatamente alcuni obblighi domestici, l'automobile che è in cima ai pensieri del signor Doinel, la guida Michelin che è il suo Vangelo, i programmi accarezzati nell'imminenza della domenica: in questi frammenti, che costellano litigi, battibecchi, borbottii e scontentezze alternate a pause distensive e rilassate, c'è un piccolo mondo che, uscito dalle miserie di una volta, aspira al benessere, a una maggior agiatezza, a un modello sociale più elevato, sebbene non ancora pienamente acquisito.
Le punzecchiature tra marito e moglie, l'esaurirsi di una remota intesa affettiva sono più scontati, quando l'adulterio consumato dalla mamma di Antoine, a insaputa del consorte, dietro una barriera di bugie e accorgimenti è scoperto da Antoine durante un'evasione dai doveri scolastici in compagnia di un caro amico. Ma fuori del comune e non in chiave di melodramma e di narrativa d'appendice appare la mostruosità dei genitori, che si accaniscono su Antoine nell'incomprensione e negli intenti punitivi. Nel conflitto confluiscono più cause: il benpensantismo e la stupidità paterna, il tacito segreto che lega la madre colpevole e il figlio cosciente, il cedevole compromesso-ricatto tra i due, la paura che Antoine spifferi la verità. Pertanto un gesto birichino – il furto di una macchina per scrivere nell'ufficio del papà e il tentativo di riportare al suo posto la refurtiva – costa ad Antoine un processo e la chiusura in riformatorio, su richiesta dei genitori esasperati dall'insubordinazione del ragazzo.
È la 'tranche' più amara e dura del film e sbugiarda le dichiarazioni di amore, che i Doinel avevano elargito ad Antoine mescolate a rimproveri, rampogne, arrabbiature e scontrosità. Non c'è la tragica solitudine dell'angoscioso e stupendo brano della passeggiata tra le macerie di Berlino che in Germania anno zero prelude al suicidio di Edmund, ma Truffaut raffigura una discesa agli inferi che non ha minor presa drammatica. Antoine, che nel cellulare si avvia verso un destino ingrato, richiama alla memoria gli afflitti protagonisti di Sciuscià. Come nel film di De Sica, la macchina da presa si posa sul volto del bambino avviato alla prigione e la soggettiva del prigioniero, attratto dalle ultime immagini del traffico urbano e dal riverbero delle luci al neon, preannuncia un calvario freddamente tratteggiato: la cella di isolamento, il giaciglio in terra, un pessimo caffè al risveglio, il rito delle impronte digitali, le foto segnaletiche, la vista di un recluso che, sfuggito ai guardiani, è stato riacciuffato dalla polizia, il colloquio con lo psichiatra. Una conversazione, questa magistralmente ricolta da Truffaut non mostrando mai la faccia dell'intervistatore e montando con dissolvenze incrociate varie inquadrature in cui l'intervistato è in posizione frontale rispetto al medico, che è una voce femminile senza corpo.

Mino Argentieri, La precoce condizione del dolore, in Goffredo De Pascale, Donatella Fossataro, Franco Santaniello (a cura di), Truffaut. L'uomo che amava il cinema, Rotazione & Rivoluzione, Napoli 1989



Uno dei pregi del film è di non aver fatto di Antoine un caso-limite: Antoine è un adolescente come tanti, né troppo cattivo né troppo sfortunato. Ciò che gli capita, potrebbe succedere a tutti, in una società come la nostra, alla sua età. Complice e vittima allo stesso tempo, egli è soprattutto solo. La sensazione di essere indesiderato da tutti e da tutti a stento sopportato, è la misura della sua angoscia. Figlio non voluto («…ho saputo che…mia madre avrebbe voluto abortire», confessa alla psicologa), allievo sgradito, la sua presenza è mal tollerata da insegnanti per nulla disposti a sopportarne l’irrequietezza e dagli stessi genitori, una coppia di ottusi piccolo-borghesi, distratti da interessi divergenti e afflitti dai mille problemi quotidiani cui stentano a far fronte. La stessa collocazione di Antoine nell’angusto appartamento esprime bene la sua condizione di ospite incomodo: il suo letto è ricavato in uno stretto corridoio che funge anche da vestibolo, con i disagi che si possono immaginare.
Non più bambino e non ancora uomo, non può avere amici e stabilire rapporti se non con chi è nelle sue stesse condizioni (René). Respinto dagli adulti (di cui prende a imitare il comportamento, provandosi a bere e a fumare), stenta a identificarsi nei ruoli infantili cui vorrebbero ancora obbligarlo. Al teatro dei burattini si diverte ma, durante la rappresentazione si distrae per concertare insieme a René il furto della macchina da scrivere. Le donne lo attraggono: ma, quando nella notte si unisce a Jeanne Moreau nella ricerca di un cane sfuggito al guinzaglio, è ancora un uomo (Jean-Claude Brialy) a prendere il suo posto, cacciandolo in malo modo. Tuttavia è abbastanza grande perché la polizia non ci pensi due volte a rinchiuderlo in cella con prostitute e rapinatori. La tragedia di Antoine è tutto qui: la ricerca delle cause che determinano l’emarginazione del ragazzo non sembra interessare Truffaut. Lo spettatore è lasciato libero di spiegarne le cause come meglio crede.
Ma l’apparenza documentaristica della narrazione (raramente la macchina da presa si sostituisce al protagonista e “vede” con i suoi occhi: significativa eccezione, la città di notte vista dall’interno del cellulare che trasporta Antoine al commissariato), si rovescia presto, per tendere all’identificazione soggettiva della spettatore con il protagonista. Antoine è pressoché sempre in campo, inquadrato da una macchina da presa che non lo abbandona neppure un istante, che spezza continuamente la continuità spazio-temporale con improvvisi primi piani, intenzionati a scrutare sul volto espressivo e mobile di Jeanne-Pierre Léaud i sentimenti di Antoine, il suo bisogno di affetto, la ribellione, la paura, la sensazione di solitudine e di frustrazione, che costringono lo spettatore a simpatizzare con il protagonista, senza riserve. Così l’oggettività della ripresa si rovescia nel proprio opposto: culmine di un procedimento stilistico siffatto – capace di trasformare in funzione soggettiva una soluzione documentaristica, di derivazione televisiva – è la celebre sequenza del colloquio con la psicologa, al riformatorio. Abolendo la soluzione drammatica tradizionale (il campo-controcampo), Truffaut riprende in primo piano Antoine mentre, in un lunghissimo piano-sequenza, risponde alle domande della dottoressa, fuori campo.
In questo modo Truffaut perviene, per il tramite di una finzione progressivamente sganciata dagli stilemi convenzionali, alla verità del cinema diretto, che è improvvisazione e reinvenzione continua delle proprie forme.
Uno dei film manifesto della Nouvelle Vague, dove tutto annuncia la lunga stagione dell'ambiguità. Dal titolo, che in francese vuol dire “farne di cotte e di crude” e nelle altre lingue assume connotazioni balistico avventurose. All'ideologia, sospesa tra anarchismo alla Vigo e moralismo da premio OCIC: i guai del piccolo Antoine non deriveranno dalla mancanza di una famiglia regolare?
Perfetta icona di ambiguità, il volto neutro di Jean-Pierre Léaud, che riassume i mutismi dell'età ingrata e le seduzioni fredde della fenomenologia. Il suo Antoine, più che una vittima della società o un piccolo ribelle, sembra un tipo insofferente e un po' informe, come sono spesso i tredicenni.
Truffaut, narratore moderno, drammatizza i suoi tentativi di costruirsi un destino romanzesco, ma ricordando che tutto, da un momento all'altro, potrebbe rientrare nel quotidiano. Anche l'episodio più avventuroso, il furto della macchina per scrivere, scivola implacabilmente nella banalità e Antoine non viene scoperto mentre ruba, ma quando, deluso e impaurito, torna nell'ufficio per restituire la refurtiva.
Insomma, più che la recitazione sono i ritmi a tradurre gli stati d'animo. Ritmi ellittici delle scorribande per Parigi, ritmi dilatati della routine casalinga, tempi reali da cinéma-verité nel colloquio con la psicologa, girato tutto sul primo piano del ragazzo (l'idea di montarlo così era nata per caso, perché l'attrice non era a Parigi).
Storie di improvvisatori raccontate con improvvisazioni di stile: è il marchio d'origine della Nuovelle Vague, poi rapidamente inflazionato.»

Oreste De Fornari, I film di François Truffaut, Gremese Editore, Roma 1986.



L’'oggettività' con cui la macchina da presa di Truffaut inquadra Jean-Pierre Léaud non è un mero espediente formale per evitare la trappola del lirismo e dell’autocompiacimento: è piuttosto la soluzione istintiva affinché il pubblico sia sollecitato a riconoscere Antoine Doinel e a riconoscersi in lui. Per riprendere un tema caro ai 'giovani turchi', la messa in scena è una «questione di morale». Stare dalla parte di qualcuno non significa mettere i propri occhi al posto dei suoi, cioè non significa rubargli le inquadrature, toglierlo di scena con una presunta immedesimazione […].
La prima preoccupazione spontanea di Truffaut, che userà sempre la macchina da presa per difendere e proteggere i suoi personaggi, è che Antoine Doinel, nel deserto affettivo che lo circonda, ottenga l’amore del pubblico senza fare ricorso a quegli espedienti di simpatia forzata che spesso caratterizzano le figure infantili (non a caso impedisce il più possibile a Léaud di ridere) e senza fare concessioni consolatorie a chi guarda (cosa che invece succederà in Spagna e in Urss, dove il finale verrà ammorbidito da un commento ottimista sul futuro di Doinel, inserito dai distributori). Se i mistons spartivano le inquadrature del loro film con la coppia di fidanzati che pedinavano, nei Quattrocento colpi è Doinel a essere pedinato instancabilmente dalla macchina da presa e ad avere un lungometraggio tutto per sé, come risarcimento dell’insensibilità che lo circonda. In questo contesto acquista un forte rilievo l’unica inquadratura propriamente in soggettiva dei Quattrocento colpi – a cui subito dopo ne segue un’altra in semisoggettiva, quasi a far sentire la presenza del regista alle spalle di Doinel, come angelo custode – in corrispondenza dell’unico momento di disperazione palese del protagonista: Antoine, sul furgoncino che lo sta portando in riformatorio, vede Parigi allontanarsi attraverso la grata, e Truffaut lo sottrae un attimo dal film per mostrarlo subito dopo con una sola piccola lacrima che gli riga il volto muto, impassibile. Non un urlo, non una smorfia, solo una lacrima e il silenzio: ecco il bambino secondo Francois Truffaut.
[…] La resistenza di Antoine Doinel si gioca tutta sul mondo parallelo creato attraverso la letteratura e il cinema: per questo non fa la fine dell’Edmund rosselliniano, totalmente permeabile all’influenza altrui perché privo di un universo espressivo autonomo. E Truffaut compare fuggevolmente (alla Hitchcock proprio all’uscita del rotore, sorta di stanza delle meraviglie dove la legge della gravitazione terrestre si trasforma in pura fiction: Antoine, grazie al veloce movimento rotatorio, è sospeso in un altro spazio e in un altro tempo, come in una sala buia illuminata dallo schermo (il rotore richiama lo zootropio, antenato del cinema), perde la percezione reale e può muoversi liberamente senza cadere. Non a caso sarà questa scena a chiudere l’intero ciclo di Doinel nell’Amore fugge.
Ma nei Quattrocento colpi, proprio perché letteratura e cinema sono legati alla resistenza irriducibile e clandestina del protagonista, i tentativi di Doinel in questo senso vengono duramente puniti. Il finale «plagiato» da Balzac si traduce in uno zero, la fotografia di Monica potrebbe costargli un castigo peggiore di quello subito in classe per l’immagine della pin-up, e soprattutto l’esperienza del rotore, in sé sublime, porta con sé la rivelazione più dolorosa. Appena uscito dal tamburo rotante dove si è recato marinando la scuola, ancora un po’ stordito e immerso «nel mondo dei sogni», Doinel ha un brusco risveglio vedendo la madre abbracciata all’amante: la magia della fiction dura lo spazio-tempo di un incantesimo, e Truffaut, con una semplice e struggente panoramica, disperde la forza centrifuga dell’illusione al primo contatto con la realtà.
I bambini, i tredicenni come Antoine, non possono né fuggire né sfuggire, soprattutto se hanno una madre seducente e indifferente come la signora Doinel, in casa sempre nervosa e del tutto priva di gesti affettuosi, fuori amante generosa e pubblica. Madre assente, madre desiderata: in una scena magistrale, Antoine, seduto al tavolino della sua toilette, tenta di rubarle qualche sensazione, qualche segreto, qualche briciola di affetto specchiandosi nel suo stesso specchio, pettinandosi con il suo stesso pettine, toccando gli oggetti più femminili che le appartengono. Perché l’antipatica signora Doinel non si può liquidare facilmente, anche se la si spaccia per morta a un maestro odioso: e le gambe femminili che Antoine vede di sfuggita nei Quattrocento colpi – mentre la mamma si sfila un paio di calze o mentre scavalcano a notte fonda il suo giaciglio – torneranno come un’ossessione in quasi tutti i film di Truffaut, belle e distanti, sinuose e inaccessibili, cercate, rincorse, pedinate da personaggi maschili timidi e avidi di affetto. I libri e i film consentono di evadere anche da questa visione proibita e struggente, e non a caso Antoine diventa tutt’uno con Balzac.

Paola Malanga, Tutto il cinema di Truffaut, Baldini&Castoldi, Milano, 1996