Rivoluzione Godard

Rivoluzione Godard

À bout de souffle appartiene per sua natura al genere di film in cui tutto è permesso
JLG

 



Sul ‘metodo’ di Godard, o sul suo formarsi, un’autorevole testimonianza è quella di Raoul Coutard, il giovane direttore della fotografia che il regista si è visto imporre da Beauregard ma che diverrà il suo più stretto collaboratore e complice per molti anni, che così ricorda le riprese del film: “Di giorno in giorno, a mano a mano che i dettagli del soggetto si precisavano, spiegava il modo di realizzarli: niente cavalletto per la cinepresa, niente luci, se possibile, carrelli senza binari... poco a poco noi scoprivamo un bisogno di sfuggire alle convenzioni e anche di andare contro le regole e la ‘grammatica cinematografica’. Durante le riprese confermò questa posizione, tanto più che la suddivisione in inquadrature era fatta a mano a mano, come i dialoghi. Il film si costruiva poco per volta, durante la visione dei ‘giornalieri’. Così lui non può dire il giorno prima, e nemmeno immediatamente prima, che cosa si sta per fare: è provando la scena che la decisione viene presa e a volte, dopo aver girato un ‘ciak’, si ricostruisce tutta la scena da un altro punto di vista […]. Non è raro che, se non ha ancora bene in mente una scena, decida all’ultimo momento di girare un’altra cosa, in un altro ambiente. A volte si ferma per un giorno intero per prender tempo e riflettere”.
Primato della ripresa e della sua immediatezza, uso di tecniche agili, non appesantite dalle consuete apparecchiature (anche a scapito di un principio che solo dopo diverrà imperativo, la presa diretta del suono), grande velocità di realizzazione e conseguente basso costo, tutto ciò fa parte del normale modo di procedere della Nouvelle vague e in genere di tutte le giovani cinematografie nazionali che emergono in questi anni. Ma per Godard non si tratta solo, riducendo il personale e la strumentazione tecnica, di assottigliare la barra che separa cinema e vita: Coutard sottolinea come l’obbiettivo principale sia andar contro le regole stabilite, riesplorare più in profondità le possibilità del mezzo.

Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, 2a ed. agg., Il Castoro, Milano 2002




Se all’inizio degli anni Sessanta, come già si era fatto vent’anni prima dopo Quarto potere, si è potuto dividere la storia del cinema in ‘prima’ e ‘dopo’ Godard, dipende dal fatto che la rivoluzione godardiana, ancora prima di essere una rivoluzione linguistica, o estetica, prende l’avvio da una nuova ‘pratica’ del cinema. Attraverso una radicale rimessa in questione – o, meglio, attraverso una ‘messa in crisi’ – di tutte le regole e di tutte le consuetudini tecniche di ciò che era divenuto, col passar del tempo, ‘il’ cinema.
Reinventare il cinema, per Godard, non vuol dire raccontare altre storie, e neanche raccontarle in un altro modo, ma in primo luogo significa ritornare all’origine (mito della ‘prima volta’ e di un’età perduta destinato ad ossessionare il cinema, dal momento in cui, con la Nouvelle Vague, è destinato a prendere coscienza di se stesso e di ciò che in lui finisce), significa ripartire dai ferri del mestiere, dallo strumento-cinema, per vedere che cosa ce ne si possa ancora fare, come usarlo in modo differente, perché sputi il rospo e possa partorire possibilità nuove, stanandolo dai suoi ultimi ridotti.
E non si tratta dunque tanto di fare un nuovo cinema, quanto di inventare un nuovo modo di fare i film, e che sia anche meno caro: il fattore produzione è importante. Per un nuovo cinema, nuove tecniche; per nuove tecniche, un nuovo cinema. Se Godard è stato un inventore di forme, è perché è stato, prima di tutto, un inventore di metodi. La sua rivoluzione consiste nell’aver forgiato e rimesso costantemente in causa, nel corso di un’ininterrotta evoluzione, un nuovo metodo di fabbricazione delle immagini e dei suoni. Lo sfruttamento e la sperimentazione di nuove tecniche (all’epoca di Fino all’ultimo respiro la Cameflex e la camera a mano, un nuovo sistema di illuminazione dall’alto, non effettistica, e che permetteva una maggior libertà di messa in scena, un lavoro sulle emulsioni in bianco e nero), come del resto la rimessa in discussione delle abitudini tecniche tradizionali e della successione delle operazioni di scrittura, sia in fase di ripresa che di montaggio, sono ora i fattori che condizionano e rendono possibile l’apparizione di nuove forme.

Marc Chevrie, Questioni di metodo, in Jean-Luc Godard, Centre Culturel français de Turin, Torino 1990




À bout de souffle è allo stesso tempo un saggio di estetica della nascente Nouvelle vague, un gesto cinéphile di amore per il cinema classico e uno dei tasselli più importanti del rinnovamento linguistico del cinema degli anni Sessanta. Con esso ha inizio il percorso radicale del regista nella trasgressione sistematica delle regole base della narrazione cinematografica: dal montaggio (la cui continuità logica è rotta da infrazioni all’epoca vistose, come i raccordi fuori asse e le ellissi cronologiche in una stessa scena) alla giustezza dell’inquadratura (sono frequenti gli sguardi in macchina, scene dove chi parla o il suo controcampo sono decentrati rispetto all’asse di visione, ecc.), il film effettua una serie di scelte stilistiche che permettono al regista un recupero della casualità e dei tempi morti in funzione espressiva che ha poche pietre di paragone, a parte il contemporaneo lavoro di Michelangelo Antonioni in Italia, e genera una sorta di effetto straniante continuo. Il gioco colto e provocatorio della citazione di codici e stilemi del cinema classico (dall’imitazione di divi come Bogart, intravisti su poster di film, al recupero della chiusura a iris come raccordo), insieme all’atteggiamento disincantato e scimmiottante dei personaggi che riflette lo sguardo anarcoide del regista-autore, cui va ad aggiungersi la suggestione del recupero della norma neorealista delle riprese effettuate in strada, fanno da griglia espressiva a un’accattivante non-storia fondata sull’incontenibile umoralità dell’amore, giocata in un’atmosfera che occhieggia al film poliziesco di serie B americano (come testimonia la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram). La ‘scorrettezza’ dei personaggi nelle loro ambigue scelte di vita e nell’assoluta mancanza di lealtà reciproca si riflette con irriverenza nella sconnessione e apparente spontaneità dei loro lunghi dialoghi e nei gesti incoerenti, che sottraggono importanza alla trama narrativa e creano una tensione di racconto situazionale, in gran parte basata sulla forza espressiva di Jean-Paul Belmondo e di Jean Seberg e sulla messa in gioco dei loro tic e delle loro manie. Anche il finale, drammatico e al contempo così calcato da diventare ironico, con l’esplicita allusione all’incomunicabilità e all’estraneità tra i due amanti, che va ben oltre il problema dell’incomprensione linguistica, è un segno del tempo (si pensi al finale, perfettamente coevo, di La dolce vita).
Altro aspetto sostanziale della ‘rivoluzione’ intentata da À bout de souffle fu quello della scommessa produttiva: girato a bassissimo costo, in diversi casi senza l’autorizzazione per le riprese in strada e in tempi ridottissimi, il film divenne di fatto una denuncia politica della retorica del cinema come gigantesca e irrinunciabile gabbia industriale. La novità nell’uso prepotente della colonna musicale, la nitida e movimentata fotografia di Raoul Coutard e le continue trovate di regia di Godard fruttarono al film immediati riconoscimenti da parte della giovane critica militante, contro cui poco poterono le vaghe accuse di anarchismo della critica ufficiale più paludata.

Serafino Murri, À bout de souffle, Enciclopedia del cinema Treccani. I film, 2004




La ricerca di una rottura estetica con il cinema francese degli anni Cinquanta, preoccupazione principale degli autori della Nouvelle Vague, non viene percepita da tutti, ma solleva ugualmente un vivo dibattito per due fondamentali motivi: prima di tutto, tra le voci che si levano in difesa della Nouvelle Vague si ritrovano quelle dell’anziano e venerato storico del cinema Georges Sadoul, di Louis Aragon e di Jean-Paul Sartre, monumenti viventi della cultura francese; i film della Nouvelle Vague, inoltre, riscuotono un vistoso successo di pubblico inizialmente insperato e, va detto, effimero.
L’epoca in cui nasce, nelle sue connotazioni più marcatamente politiche, non si riflette su Fino all’ultimo respiro che di sfuggita, eclissata dall’interesse dell’autore per la cronaca, la quotidianità degli individui e per il cinema come mondo a sé stante a cui attingere nei temi e nelle forme. Godard non parla di De Gaulle e della neonata V Repubblica, ma vi allude ironicamente quando mostra, in un breve passaggio documentaristico, il corteo presidenziale di De Gaulle attraversare Parigi in occasione della visita del presidente americano Eisenhower. Ciò che viene celebrato in pompa magna […] è rifuggito dalla coppia, sempre francoamericana, composta da Michel e Patricia. Fino all’ultimo respiro non fa riferimento diretto all’Algeria, ma non nasconde la propria ostilità verso l’esercizio del potere poliziesco che prelude alle torture di Le petit soldat […].
Si può dunque affermare che Fino all’ultimo respiro, e il cinema della Nouvelle Vague in generale, riesce a riscoprire solo a posteriori il proprio ruolo di sintomo di un momento storico, di specchio critico della realtà politica e sociale che la critica marxista avrebbe auspicato di riconoscere in termini chiari e netti nei temi trattati.

Jacopo Chessa, Fino all’ultimo respiro, Lindau, Torino 2005




Il primo gesto dei registi della Nouvelle Vague è stato innestare le loro finzioni su un sostrato documentario. Serge Daney notava giustamente che À bout de souffle è stato il primo film dove il personaggio apriva davanti alla macchina da presa il giornale dello stesso giorno delle riprese. Ovvero un giornale non programmato dalla sceneggiatura, imprevedibile, con le notizie aleatorie del giorno in cui si filmava quella scena. A differenza della generazione precedente di registi, per i quali fare film consisteva spesso (così potremmo tradurre gli attacchi di Truffaut) nell’innestare del ‘fabbricato’ sul già ‘fabbricato’ – dialoghi artificiali su interpreti polimorfi, testi letterari (adattati dai soliti sceneggiatori patentati) sul cartongesso di un décor artificiale –, i registi della Nouvelle Vague hanno fatto la scelta, oggi ben nota, di innestare le loro finzioni sulle strade vere di Parigi, strade con i loro veri passanti e le loro vere macchine, e di filmare all’interno di vere stanze, come quelle dove essi stessi vivevano. Jean-Luc Godard, sempre in Fino all’ultimo respiro, si spinge oltre, fino ad innestare la storia di Michel e Patricia sulla visita storica di Eisenhower a Parigi, in coincidenza dello stesso giorno delle riprese, integrando così l’uomo di Stato, all’insaputa di questi, nella finzione. Questo piacere e questa morale del cinema che consiste nell’innestare la finzione sulla realtà, è per larga parte eredità del gesto rosselliniano.

Alain Bergala, La Nouvelle Vague o il cinema come arte dell’innesto, in Nouvelle Vague, a cura di Luca Venzi, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2009