Il cinema è il cinema

Il cinema è il cinema

I nostri primi film sono stati soltanto dei film di cinéphiles

JLG

 

À bout de souffle è intessuto di citazioni, di allusioni, di riferimenti che spesso solo i cinefili, o addirittura solo gli amici, possono cogliere. E se è vero che esso è ormai un classico della storia del cinema (o della sua età moderna) come tutti i testi classici, e come poi tutti gli altri film di Godard, dovrebbe essere letto in edizioni con note a piè di pagina, che segnalino appunto i ‘calchi’, i prestiti, i riferimenti culturali e cinematografici, le presenze significative. Esse individuerebbero le partecipazioni in ruoli minori di cineasti come Philippe de Broca, José Bénazéraf e soprattutto il ‘maestro’ Jean-Pierre Melville nella parte dello scrittore Parvulesco. O di colleghi critici come Labarthe, Douchet e Domarchi. O le citazioni di romanzi, i cui titoli sono calati anche direttamente nel dialogo: Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di Francoise Sagan o Abracadabra di Maurice Sachs. E naturalmente sono numerosissimi i riferimenti al mondo del cinema, con battute dei dialoghi (“Il mio amico Toni di Marsiglia”: allusione al film di Renoir) o inquadrature di sale cinematografiche, in cui si proietta Hiroshima mon amour di Resnais, Dieci secondi col diavolo di Aldrich, L’oro della California di Budd Boetticher e Il colosso d’argilla, l’ultimo film di Humphrey Bogart. Ma accanto al cinema c’è la vita: i nomi di molti personaggi (Parvulesco, Tolmatchoff, Berruti ecc.) sono quelli di amici svizzeri di gioventù. Ritrovare e sottolineare tutti questi rimandi può sembrare un’operazione peregrina e accademica, ma nei film di Godard essi non sono solo autocompiacimenti culturali o private jokes, sono i mezzi specifici attraverso cui egli supera la narratività tradizionale in cui ogni elemento deve essere funzionale al racconto per proporre una forma ad accumulazione, un nuovo genere di film-saggio, come si dirà negli anni successivi, in cui discorso critico e discorso narrativo sono compenetrati.

Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, 2a ed. agg., Il Castoro, Milano 2002




I nostri primi film sono stati semplicemente film di cinefili. Ci si può servire anche di quello che si è visto al cinema per fare deliberatamente delle citazioni. Questo è stato soprattutto il mio caso. Ragionavo in funzione di atteggiamenti puramente cinematografici. Facevo certe inquadrature sulla falsariga di altre che già conoscevo, di Preminger, Cukor, e via dicendo. Del resto il personaggio di Jean Seberg deriva da quello di Bonjour tristesse. Avrei potuto prendere l’ultima inquadratura del film e proseguire la sequenza in dissolvenza incrociata con un cartello che dice: “Tre anni dopo...”. È una cosa che si collega al mio gusto per la citazione, che ho sempre conservato. Perché rimproverarcelo? La gente nella vita cita quello che gli pare e piace. Noi abbiamo il diritto di citare quello che ci pare e piace. Io filmo gente che fa delle citazioni: solo che faccio in modo che citino cose che piacciono anche a me. Negli appunti in cui metto tutto ciò che può servire al mio film, metto anche una frase di Dostoevskij, se mi piace. Perché vergognarsi? Se uno ha voglia di dire una cosa, c’è un’unica soluzione: dirla.
Per di più Fino all’ultimo respiro era il genere di film in cui tutto era permesso, era nella sua natura. Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto. Volevo anche dare l’impressione che avessimo appena trovato, o provato le tecniche del cinema per la prima volta. L’apertura con il diaframma a iride dimostrava che era permesso tornare alle origini del cinema e la dissolvenza incrociata capitava lì, da sé, come se fosse appena stata inventata. Se non c’erano altre tecniche era anche per una sorta di reazione contro un certo tipo di cinema, anche se non dovrebbe essere una regola. Ci sono dei film in cui sono necessarie: certe volte bisognerebbe adoperarle. C’è una storia che circola: Decoin è andato a trovare la sua montatrice a Billancourt e le ha detto: “Ho appena visto Fino all’ultimo respiro, da adesso in poi basta coi raccordi!”
[...] Quello che mi ha fatto penare è stata la fine. Il protagonista doveva morire? All’inizio pensavo di fare il contrario di, per esempio, Rapina a mano armata, il gangster ce la faceva e scappava in Italia coi soldi. Ma era un’anticonvenzione molto convenzionale, come far avere là meglio a Nanà di Questa è la mia vita e far vedere che si è comprata la macchina. Alla fine ho pensato che, siccome dopotutto le mie ambizioni dichiarate erano di fare un normale film di gangster, non dovevo contraddire sistematicamente il genere: il tipo doveva morire. Se gli Atridi non si massacrano più tra di loro non sono più gli Atridi. [...]
Solo che non si fa mai esattamente quello che si credeva di fare. A volte si arriva addirittura a fare il contrario. Almeno, a me capita così; ma allo stesso tempo rivendico tutto quello che ho fatto. Così mi sono accorto dopo un po’ di tempo che Fino all’ultimo respiro non era affatto quello che credevo. Credevo di aver fatto un film realista come, diciamo, Criminale di turno di Richard Quine; invece non è per niente così. All’inizio non possedevo il bagaglio tecnico sufficiente e mi è capitato di sbagliarmi, poi ho scoperto che non ero tagliato per questo genere di film. C’è anche un gran numero di cose che vorrei fare ma che non mi riescono. Per esempio delle inquadrature di macchine che corrono nella notte come nella Fossa dei disperati. Vorrei fare anche, come Fritz Lang, delle inquadrature che fossero straordinarie in se stesse, ma non ci riesco. Quindi faccio altre cose. Mi piace tantissimo Fino all’ultimo respiro, di cui per un certo periodo mi sono vergognato, ma lo colloco là dove deve stare, insieme ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Io credevo che fosse Scarface.

JLG




La prima dinamica degli sguardi nella prima sequenza del primo lungometraggio di Godard si presenta subito come un’operazione linguistica duplice, diegetica ed extra-diegetica, integrata allo sviluppo della fabula e allusiva, proiettata sul cinema medesimo. Jean-Paul Belmondo/Michel Poiccard, infatti, con un particolare gioco di sguardi e di mimica, comunica con un’amica e complice per realizzare il furto di un’automobile. Il gioco di sguardi, le espressioni del volto, la recitazione sono eccessivamente espliciti, troppo sottolineati e sopra le righe, e vogliono subito farci vedere non solo un microevento particolare ma anche e soprattutto le procedure specifiche del racconto filmico e il modo di organizzare e di codificare la narrazione.
Poi, subito dopo, nel viaggio in auto verso Parigi, prima dell’omicidio, Michel Poiccard opera un’interpellazione diretta dello spettatore, con uno sguardo palesemente rivolto alla macchina. Le situazioni da film noir di serie B, la figurazione di un soggetto esistenziale assolutamente disponibile, con lui si apre Fino all’ultimo respiro, sono raddoppiate e risignificate da procedure e soluzioni più o meno apertamente metafilmiche.
Così fin dall’inizio, il cinema di Godard si rivela come una scrittura doppia, a un tempo narrativa e metafilmica, che si propone di interpretare il mondo in relazione ai metodi rappresentativi del cinema e al tempo stesso di svelare i codici della messa in scena nella loro particolarità significante.
Questo processo articolato di ridefinizione della comunicazione cinematografica mentre coinvolge emotivamente lo spettatore con il susseguirsi delle attrazioni narrative, al tempo stesso sollecita e rende necessaria una percezione consapevole e dunque pienamente intellettuale e stimola l’attività cognitiva del fruitore. Il metafilmico infatti è sempre una procedura di oggettivazione del lavoro di messa in scena, di palesamento delle strutture del cinema che implica una lettura intellettiva e al tempo stesso realizza una precisa instaurazione del cinema nel pensiero.

Paolo Bertetto, Le forme del pensiero, in Jean-Luc Godard, Centre Culturel français de Turin, Torino 1990