"Il cinema messicano sono io!": 'El Indio' Fernández

Il nostro cinema non è antiquato. Noi siamo sentimentali per temperamento. Quando c'è la luna piena usciamo a guardarla. Ci piace ammirare la natura. Ci piace vedere un bel fiore. Sentimentali? Per la gente del nord forse siamo svenevoli. Questo dà alle nostre anime una sensibilità tremenda e meravigliosa. Per la nostra gente è naturale erompere nel canto. Più la gente è semplice, più è bella.

Emilio Fernández

 


'El Indio' Fernández è il cinema messicano. Così come un'intera epoca del cinema giapponese è rappresentata da Kurosawa, il cinema dell'India da Ray e quello svedese da Bergman. Il Messico dell''Indio' è molto idealizzato, con una sorta di romanticismo esaltato che si accorda con il nazionalismo trasformato in rito. È un cinema religioso, molto cerimoniale, rituale, totalmente mistificante rispetto alla realtà messicana. Ma nello stesso tempo rivela una sensibilità prepotentemente messicana. Voglio dire che dietro a tutte quelle falsità e a quelle esaltazioni, bisogna riconoscere un personaggio molto messicano. Con questo ci avventuriamo sul terreno della psicologia e della sociologia. Il personaggio dell''Indio' è molto interessante, ma non è affatto facile caratterizzarlo in due parole. Come persona era pericolosissimo. [...] Emilio Fernández, 'El Indio', era un innamorato. Chiarisco: era un innamorato nel senso che il popolo messicano suole dare a questa parola per alludere non a una situazione di innamoramento, ma a una condizione esistenziale. 'El Indio' era un innamorato perché la sua vita - e la sua opera - sono state ossessionate da un'immagine ideale della coppia: l'uomo - lui stesso e nessun altro - riesce a conciliare nel suo rapporto con le donne - una sola, e tutte loro - la sensualità con la devozione. La sensualità ne rimane esaltata, resa più bella dalla sottomissione alla devozione, e l'estasi amorosa prende le forme rituali proprie di un temperamento profondamente religioso [...]. L'innamorato era tale in quanto religioso, e se i momenti più belli della sua opera sono i momenti dell'amore, nel senso che l'estasi è la maggiore aspirazione della poesia mistica, i più tragici sono quelli che descrivono la separazione della coppia o l'irraggiungibilità della donna amata da parte dell'uomo. Quei momenti, gli estatici e i tragici, sono non soltanto i migliori del cinema dell''Indio' Fernández, ma anche, forse, gli unici che danno un valore assoluto, non contingente, a un'opera acclamata soprattutto per i suoi a volte discutibili valori formali.

Emilio García Riera, in L'età d'oro del cinema messicano 1933-1960, Lindau, 1997




Formatosi come generico a Hollywood, e più tardi come attore e/o sceneggiatore del nascente cinema sonoro messicano degli anni Trenta, Emilio 'El Indio' Fernández riuscì a debuttare nel campo della regia con La isla de la pasión [L'isola della passione, 1941], un esaltato melodramma ambientato nel periodo iniziale della rivoluzione messicana, che lascia già trasparire le ansie nazionaliste che avrebbero caratterizzato l'opera dell'autore. In seguito alla sua seconda esperienza di regista (Soy puro méxicano [Sono un vero messicano], 1942), Fernández entra a far parte dell'equipe sorta attorno alla casa di produzione Films Mundiales, che a quel tempo era diretta da Augustín Fink, e potrà realizzare una serie di quattro film con cui, in brevissimo tempo, otterrà premi raggiungendo una fama nazionale e internazionale: Flor Silvestre (Messico insanguinato, 1943), María Candelaria (La vergine indiana, 1943), Las abandonadas (Abbandonata, 1944) e Bugambilia (Amore maledetto, 1944). Insieme al direttore della fotografia Gabriel Figueroa, allo scrittore Mauricio Magdaleno e agli attori Dolores del Rio (di illustri precedenti hollywoodiani) e Pedro Armendáriz, 'El Indio' Fernández fa conoscere l'immagine tragica, ieratica, di un paese che si dibatte intensamente fra tradizione e modernità. Beneficiarie della migliore eredità del movimento muralista messicano degli anni Venti (José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Siquieros, Gerardo Murillo ecc.) e delle concezioni estetiche del progetto incompiuto di Sergej M. Ejzenštejn, ¡Qué viva México! (1930-1932), le citate opere di Emilio Fernández hanno l'indubbio merito di essere state realizzate con una mistica che in quegli anni appariva autentica e commovente. Grazie al prestigio guadagnato nel biennio 1943-1944, Fernández poté contare sull'appoggio di altre case di produzione, e questo gli permetterà di dotare la sua opera di uno stile pregevole, che aspirava a una poetica sostenuta dall'eccezionale talento per le immagini di Gabriel Figueroa e da una concezione di cinema dal respiro rituale. I migliori film della seconda tappa dell'interessantissima carriera dell''Indio' - La perla (La perla), Enamorada (Enamorada), Río Escondido (Il mostro di Rio Escondido) e soprattutto Pueblerina (Dimenticati da Dio), girati tra il 1945 e il 1948 - risultano pertanto gli esempi più riusciti di una tendenza che tentò di utilizzare gli anni del dopoguerra per consolidare sul piano cinematografico il processo culturale originato dalla rivoluzione messicana del 1910-1917.

Eduardo de la Vega Alfano, in L'età d'oro del cinema messicano 1933-1960, Lindau, 1997




Prima che scoprissimo, con gli anni Sessanta, la letteratura messicana, conoscevamo (male) il Messico attraverso il cinema hollywoodiano sciovinista o paternalista, e (bene) attraverso l'Indio Fenández e i suoi attori, ambasciatori pioneristici della cultura del loro paese. [...] A Fenández si torna da più parti, e si continua a tornare amandolo e detestandolo perché Fenández ha colto e fissato in un'epoca precisa una tipologia narrativa e figurativa, con una confusione di ieraticità e di retorica di cui lui solo ha conservato il segreto. Egli ha contribuito a formare l'immaginario popolare concernente innanzitutto la rivoluzione messicana; ha fissato in secondo luogo un'idea (oleografica) della civiltà degli indios e della vita del 'pueblo', e in terzo luogo, in modo stavolta non originale ma comunque pregnante, il confronto e scontro tra civiltà e barbarie, legate la prima ad un concetto alto dell'istruzione come il portato migliore ('femminile') della storia, tuttavia sanguinosa e 'maschile', della Rivoluzione. [...] Nella ieratica, lenta, misurata bellezza formale dei suoi film, disposta a lasciarsi trascinare dalla furia delle passioni come da quella della storia, questo maestro eccessivo cerca una misura per lui impossibile, una soluzione e un equilibrio che non basta la forma ad assicurargli. La sua contraddizione è infine quella di una cultura destinata a essere messa in crisi dai suoi stessi ideali di partenza (la giustizia, l'educazione, il rispetto) che cozzano con la natura violenta, passionale, narcisistica, del regista con la sua confusione ideologica. Ma è qui che le sue opere prendono vita, opere di contraddizione che lo forma non riesce a irrigidire e soffocare, e che le sue eroine, alla fine, come María Félix sovrana regina su uomini brutali, finta sottomessa, ardita nelle sue scelte e non scelta, non domata dal caso degli incontri e delle regole sociali, la vincono sugli esseri brutali che intendono dominarle: che sono costretti a scendere a patti, a rinunciare a qualcosa della loro protervia e a scoprirsi nella loro debolezza. È qui, nella lotta contro le condizioni sociali ma anche nell'eterno conflitto dei sessi, che per Fenández nasce la tensione del melodramma, ed è su questo terreno che sono nati i suoi film più affascinanti e vitali.

Goffredo Fofi, in El Indio Fenández, Spoleto Cinema '95, 1995