I cieli di Gabriel Figueroa

I cieli di Gabriel Figueroa

I film che Emilio 'El Indio' Fernández diresse tra il 1943 e il 1950 sono la manifestazione più pura e di maggior successo di una forma cinematografica tipicamente messicana ed esemplificano perfettamente il cinema messicano classico. Il suo principale collaboratore nello sviluppo di una poetica nazionale attraverso questi film fu il talentuoso Gabriel Figueroa, considerato, negli anni della sua vita, uno dei più grandi direttori della fotografia del mondo. La loro inimitabile combinazione di stile visivo e critica culturale si sviluppò nel corso di una lunga e proficua collaborazione che iniziò con la tragica storia d'amore d'epoca rivoluzionaria di Flor silvestre (1943) e ottenne fama internazionale quando il loro film successivo, María Candelaria (1943), vinse la Palma d'oro a Cannes nel 1946. Fernández e Figueroa lavorarono insieme per quindici anni e ventiquattro film, ma è in quelli realizzati nei primi sette anni, dal 1943 al 1950, che lo stile del cinema classico messicano è più evidente. [...]
"Fu con Fernández", ricordava Figueroa, "che iniziai a sviluppare un mio stile". In Fernández, Figueroa trovò un regista dinamico la cui ricerca di un cinema autenticamente messicano corrispondeva perfettamente alla sua ricerca di una 'fotografia messicana'. "Parlavamo la stessa lingua" sosteneva Figueroa. "Pensavamo per immagini". Il loro lavoro era basato su una reciproca fiducia che si sviluppò da subito. "Gli piacque il mio lavoro fin da quando posizionai la camera le prime volte", raccontava Figueroa a proposito dell'inizio della loro collaborazione per Flor silvestre.
Di solito Fernández spiegava cosa voleva ottenere da un'inquadratura e lasciava definire il quadro, le luci e la composizione a Figueroa. Come ricordava lo stesso Figueroa: "mi permetteva di comporre la scena come volevo. All'inizio descriveva l'inquadratura, spiegava cosa voleva comunicare, e poi diceva qualcosa tipo 'Ecco, ora disponi le luci e metti la camera dove preferisci'. Così posizionavo la macchina da presa, sceglievo l'angolazione, e illuminavo la scena, sempre cercando di ottenere l'effetto desiderato". [...]
Una delle tecniche compositive preferite da Figueroa prevedeva di collocare un elemento in primissimo piano, solitamente in uno degli angoli in basso dell'inquadratura, come una specie di ancora per il resto dell'immagine. Questo aggiungeva subito profondità creando una tensione tra primo piano e sfondo. [...] Un motivo che potrebbe aver preso in prestito da José Clemente Orozco, che probabilmente aveva influenzato anche Ejzenštejn. [...]
Come Orozco, le cui figure umane erano spesso viste da sotto l'altezza dello sguardo, e come Ejzenštejn e Tisse, per i quali l'inquadratura dal basso era una sorta di punto di vista standard, la composizione di Fernández-Figueroa guardava ai propri soggetti dal basso verso l'alto. Questo dava forza e imponenza ai loro personaggi all'interno dell'inquadratura ed era coerente con gli obiettivi del loro nazionalismo artistico, ossia dichiarare l'importanza del Messico e la dignità della sua gente.
Figueroa probabilmente era influenzato dal lavoro del suo mentore, Gregg Toland, che prediligeva le angolazioni dal basso, mentre Fernández sicuramente si ispirava ai film di John Ford, che ugualmente cercava di conferire maestosità ai suoi personaggi. Fernández considerava Ejzenštejn e Ford i suoi maestri. Ammirava il primo, ma aspirava ad eguagliare il secondo: "Il più grande poeta del cinema è John Ford. Nella concezione del paesaggio è un poeta, un pittore". [...]
Un'altra fonte d'ispirazione centrale per Fernández-Figueroa fu l'artista messicano Gerardo Murillo, più conosciuto con lo pseudonimo di Doctor Atl (1875-1964). Noto come fondatore del movimento artistico nazionalista in Messico e come "primo paesaggista contemporaneo", creò, stando alle parole di un critico d'arte messicano, "una geografia estetica delle montagne e delle valli del Messico". [...] Uno degli elementi chiave dei paesaggi di Doctor Atl era il modo in cui le nuvole dominavano il cielo e la terra. Per ritrarre accuratamente il Messico e coglierne appieno l'essenza era necessario comprendere che i cieli sono importanti quanto la topografia.
Figueroa è giustamente noto per aver sviluppato una tecnica capace di catturare le nuvole, chiamata 'i cieli di Figueroa'. Ma tradurre al cinema quella specie di tridimensionalità che avevano i dipinti di Doctor Atl era molto complesso. Fotografare semplicemente il cielo rende le nuvole un caos confuso, piatto e lattiginoso, senza contorni e definizione. Cercando una soluzione, Figueroa studiò la pittura rinascimentale. "Iniziai a pensare a cosa c'era tra l'obiettivo e il paesaggio, e iniziai a sperimentare dei filtri in bianco e nero per contrastare quello strato di aria che non mi piaceva". Usando del filtri ultrarossi per ridurre la foschia atmosferica produsse un'immagine più nitida. "Usavano questi filtri durante la guerra per fotografare di notte, e mi venne in mente di provare a usarli di giorno [...]. Dovevamo dipingere di marrone le labbra degli attori perché sembrassero bianche; a parte questo, non avevamo problemi". La combinazione di inquadrature dal basso, e la conseguente linea dell'orizzonte bassa, e di cieli con nuvole rotonde, tridimensionali, diede alle riprese in esterni dei film di Fernández-Figueroa il loro carattere unico. Figueroa creò al cinema quello che Doctor Atl aveva ottenuto in pittura, una combinazione unica di paesaggi e 'cieli' identificabile solo ed esclusivamente con il Messico.

Charles Ramírez Berg, The Classical Mexican Cinema, University of Texas Press, 2015




Potrà esserci anche - Figueroa fu accusato di cadervi - un lirismo sospetto, un compiacimento estetico. È il caso però di ricordare che Figueroa non ha inventato il paesaggio messicano. Le nubi erano lì, sono così e non in un altro modo, e Figueroa, invece di ammettere quella stupefacente evidenza naturale e adattarvisi (o limitarsi a celebrarla, come potrebbe fare un Keats, ma non un Figueroa), ha voluto aggiungervi un elemento creativo che è artificio. Non si fotografa impunemente il paese più fotogenico del mondo, a meno che, senza tradire la bellezza, non si indichi nell'immagine che con l'atto stesso del vedere trasformiamo ciò che vediamo, sottolineiamo un'impressione naturale fino a deformarla, a ricrearla e ad aggiungervi, in certo qual modo, il margine critico della sua stessa bellezza. Quella bellezza è lì, è vera, ma Figueroa la amplifica perché abbia la libertà di riflettere su se stessa, di ricrearsi, di deformarsi e, forse, anche di perdersi. Dirò di più: la bellezza delle immagini di Figueroa non solo nasconde una volontà di artificio, ma indica a sua volta la volontà, non di riflettere, ma di aggiungere queste immagini al mondo, di restituirle non come un impossibile duplicato, ma come qualcosa che esiste di per sé. La stessa realtà su cui queste immagini sono basate cesserà un giorno di esistere (l'ecocidio, se non altro, provvederà a cancellarla), e allora le metamorfosi dell'arte verranno viste come la realtà vera: vedremo il Messico di Figueroa, e non quello che è stato veramente. La verità, qui, è sempre in disaccordo con i fatti.
Questo passaggio dalla natura invisibile (giacché la natura può perfettamente esistere senza che noi la vediamo; senza che nemmeno ne concepiamo l'esistenza) alla visibilità artificiale, è ciò che apre le porte alla creazione nell'arte di Gabriel Figueroa. Questa natura, che potrebbe esistere eternamente senza essere vista, è vista da un essere umano. Non vi è panico più terribile nel cosmo, avverte Hölderlin, che sentirsi parte della natura e insieme separati da essa; partoriti dalla natura all'essere, e da essa allontanati per continuare ad essere. Questa separazione si chiama storia. L'unico ricongiungimento possibile a partire dalla separazione storica si chiama arte.
La natura di Figueroa è un bellissima orchidea, sì, ma è un fiore carnivoro, e dovremo reggere milioni di sguardi, torbidi, vitrei, spaventati, trascurati, inteneriti, fatali, ciechi, arditi, assassini e volenterosi nell'arte di Figueroa, per renderci conto della qualità di questo terrore, di questa fascinazione dinanzi a ciò che si guarda, sempre temendo che se smettiamo di guardarlo, continui a esistere con noi, e che se continuiamo a guardarlo, ci raggiunga, ci stritoli in un abbraccio mortale, ci integri al mondo della natura messicana, così immediata, così recentemente vinta dalla pietra e dal giardino, da mani estranee e dalla carta dorata.

Carlos Fuentes, in L'età d'oro del cinema messicano 1933-1960, Lindau, 1997