La parola al regista

La parola al regista

Come ha convinto la squadra del sindaco a lasciarsi riprendere?

Non avevo mai incontrato Martin Walsh prima del film. Ho mandato una lettera al suo ufficio spiegando che cosa volevo filmare e come intendevo procedere. E con mia grande sorpresa pochi giorni dopo ho ricevuto una risposta dal suo braccio destro, Joyce Linehan. Aveva visto molti miei film ed era interessatissima all’idea di un documentario sul Comune. Grazie a lei ho ottenuto il permesso di filmare, e ha reso molto più facili le riprese, non esitando a prendere in mano il telefono e a intervenire personalmente per aprirmi le porte dei vari servizi: l’assessorato all’urbanistica, la nettezza urbana, l’ufficio disinfestazione…

 

Le ha imposto dei limiti?

Ho avuto accesso a quasi tutte le riunioni, tranne le riunioni politiche incentrate sulla rielezione del sindaco. Ma questo non mi ha creato problemi perché ero soprattutto interessato all’amministrazione della città. E poi non sono stato autorizzato a salire sul veicolo della polizia municipale. Ma ho potuto girare nel commissariato del distretto di Roxbury e riprendere liberamente tutte le attività.


Durante le riprese ha instaurato una rapporto più personale con il sindaco?

Prima di iniziare a girare gli avrò parlato appena una trentina di minuti. Mi è apparso così com’è nel film: diretto, intelligente, sensibile. Mi ha detto che non aveva niente da perdere o da nascondere, che la sua amministrazione era trasparente, cosa che si è rivelata vera. Tradizione vuole che il sindaco di Boston abbia origini irlandesi. Lui è riuscito a farsi eleggere grazie a una collaborazione con i vari gruppi etnici della città. Ha instaurato legami con la comunità nera, gli ispanici, la comunità haitiana di Boston. L’alleanza tra queste diverse comunità gli ha permesso di vincere una prima volta e di essere rieletto cinque anni dopo.

[...]

 

In una delle prime scene del film lo si vede presiedere una riunione con la polizia per discutere di una serie di omicidi commessi in un quartiere della città.

Non so molto di questa storia. A quanto pare si trattava di un regolamento di conti. Era stato ucciso un uomo ed era in corso una vendetta. I poliziotti di quartiere tentavano di evitare che si innescasse una spirale di violenza. Dato che in un lasso di tempo piuttosto breve c’erano stati otto morti, il sindaco temeva un’escalation di violenza e propose di rafforzare il coordinamento tra alcuni servizi della città.

 

Oggi la scena con i poliziotti fa una certa impressione, perché abbiamo tutti in mente il recente omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto bianco.

Boston non è Minneapolis. Il capo della polizia è nero e molti poliziotti sono neri o ispanici. Ma se andiamo un po’ indietro nel tempo è vero che quindici anni fa Boston era Minneapolis. Una delle funzioni del governo è di proteggere la società dalla violenza. Il contratto sociale si basa sulla questione dell’ordine pubblico. Quella scena è un buon esempio di ciò che cerco di fare in tutti i miei film: avere due livelli di lettura, uno letterale e un altro più astratto. Se si guarda la scena da un punto di vista letterale si vede il sindaco che dopo otto omicidi vuole rafforzare il coordinamento tra le sue squadre. Da un punto di vista astratto quella scena ci ricorda che nelle società democratiche solo il governo può usare legittimamente il monopolio della forza. Volevo affrontare la questione dell’ordine pubblico sin dall’inizio del film perché essa ha molte conseguenze, come il divieto di farsi giustizia da soli. Tutto questo ci ricorda la responsabilità di colui che governa.

 

In tutti i suoi film i primi dieci minuti sono estremamente importanti perché annunciano l’intera problematica. City Hall inizia con le chiamate al centralino del comune, quindi c’è la riunione con la polizia per poi passare a una spiegazione pubblica del bilancio comunale e infine alla celebrazione di un matrimonio. Quattro scene che sulla carta potrebbero sembrare slegate ed eterogenee.

Sono le tre prerogative dello Stato: l’uso della forza, la facoltà di riscuotere tributi e la registrazione dello stato civile degli individui. Per sposarsi occorre che il matrimonio sia iscritto nei registri della città, e questa cerimonia avrà conseguenze legali su tutta una serie di eventi della vita di un individuo: i figli, i soldi, ecc. L’amministrazione di una città colpisce molti più aspetti della vita di un individuo di quanto non faccia il governo dello Stato o perfino il governo federale: l’amore, le nascite, le ispezioni nei ristoranti, la salubrità delle abitazioni. Sono i criteri minimi per una convivenza. È questo che rende necessario un governo e spiega l’adesione degli individui.

 

Questi primi dieci minuti possono essere visti come una domanda fondamentale alla quale risponde tutto il film: di fronte alla molteplicità di problemi provocati dalla convivenza sociale (le chiamate al centralino), come assicurare l’ordine pubblico (la riunione con la polizia) con efficacia (il bilancio positivo delle spese del comune)? La scena del matrimonio sembra rispondere: con l’ascolto, il rispetto e l’aiuto reciproco.

Sì, e con esiti talvolta comici, come quando la persona incaricata di sposare le due giovani fa un lapsus.

 

Lei dissemina il suo film di riprese in esterni: i grattacieli di Boston, i suoi monumenti, le statue, il porto. Ma l’immagine emblematica del film, che torna incessantemente, è piuttosto quella di un tavolo da riunione.

Sì, girando ho capito che a Boston le persone parlano tra loro. In passato le decisioni venivano prese da un unico gruppo ristretto. Oggi il numero di gruppi che partecipano alle decisioni si è allargato. Il sindaco, anziché essere un dittatore, si sforza di ascoltare tutti. La scena della riunione sulla cannabis è un buon esempio: vi si vede tutta la complessità delle opinioni, la molteplicità dei punti di vista.

 

Guardando City Hall non si può fare a meno di pensare al suo film precedente, Monrovia, Indiana. Il primo ritrae una grande città della costa Est, l’altro una cittadina rurale del Midwest: due realtà completamente opposte, sotto molti aspetti.

Sì, non mi è sfuggito che la gente non si vestiva allo stesso modo e che le questioni sociali erano molto diverse. Ero perfettamente consapevole che Boston non è Monrovia, così come Monrovia non è New York, ma girando bisogna concentrarsi soprattutto su ciò che si vede nel momento in cui si gira, senza pensare agli altri film. Quando ho filmato Boston non pensavo neanche ad Aspen o a Belfast [Belfast, Maine].

[...]

 

Lei è il regista delle istituzioni. In City Hall si occupa di un’istituzione che ne comprende altre: l’edilizia popolare, la biblioteca pubblica, la polizia… Il suo film rimanda a molte sue opere precedenti come Public Housing, Ex Libris: The New York Public Library

Sì, è voluto. Molte istituzioni che ho messo al centro dei miei film fanno parte dei servizi cittadini. In City Hall ho fatto perfino un riferimento al bianco e nero di Law and Order riprendendo ciò che accade nel quartiere nero di Roxbury. E la scena della riunione del consiglio scolastico ricorda i miei due High School.

 

È un metafilm su una meta-istituzione?

Era già così nel caso di Belfast, Maine. Ma in City Hall mi sono concentrato soprattutto sull’amministrazione della città. In Belfast non ero altrettanto interessato agli aspetti politici del governo della città. E in Aspen volevo filmare soprattutto la vita sociale.


Nel corso del film si serve del montaggio per legare scene la cui correlazione spinge a interrogarsi. Penso per esempio alla sala di controllo delle videocamere di sorveglianza del traffico, cui seguono le immagini di un’opera d’arte moderna che commemora la Shoah.

È un modo per sollevare la questione dello Stato e del suo potere di sorveglianza. Lo Stato può guardare ovunque. Qui serve a risolvere i problemi legati al traffico. Ma tra le mani di un altro tipo di governo questo potere può essere tutt’altro. Può diventare Grande Fratello.

[…]

 

Per molto tempo Boston ha avuto fama di città razzista: “Racist Boston”.

Sì, già nell’Ottocento i discendenti dei primi coloni inglesi giunti nel Seicento si opponevano all’arrivo degli irlandesi. Poi gli irlandesi si sono opposti agli italiani. E gli irlandesi e gli italiani ce l’avevano con gli ebrei che venivano dall’Europa dell’Est. Il sindaco dà consigli ai rappresentanti delle comunità, ricorda che è importante partecipare alla vita politica locale per far sentire la propria voce e acquisire potere. Il sindaco vuole far leva sulla NAACP per incitare le altre comunità a impegnarsi.

 

Quanto era importante richiamare la storia americana nel corso di tutto il film?

Nel film ci sono riferimenti alla guerra degli immigrati inglesi contro gli indiani, alla dichiarazione d’Indipendenza dall’Inghilterra, alla guerra di Secessione e all’abolizione della schiavitù. Ma questi riferimenti suggeriscono anche che l’America è costantemente in guerra. In un’altra scena ci sono ex soldati della Seconda guerra mondiale, reduci della Corea, del Vietnam, dell’Iraq e dell’Afghanistan. A un livello più astratto l’idea è che il governo è associato alla guerra. Senza governo è la guerra. La missione dello Stato è proteggere le persone. E questo significa tanto mantenere la pace quanto proteggere la gente facendo in modo che il cibo che mangia nei ristoranti sia sano. Il governo pone dei limiti, senza i quali i cittadini sarebbero costantemente in guerra.

 

Abbiamo parlato dei primi dieci minuti. Ma sono estremamente importanti anche gli ultimi dieci minuti del film. Ci sono le bandiere, una parata, l’inno nazionale… È molto patriottico!

Non sono nazionalista. Ma mi piace l’idea che le persone possano collaborare. Perché in questo momento con il governo federale è la guerra! Secondo me il sindaco di Boston rappresenta il lato buono dell’America. L’America delle persone di buona volontà.

 

È l’anti-Trump?

Mentre giravo non ho mai pensato di fare un film anti-Trump. Ma Martin Walsh dimostra che è possibile collaborare e che per un governo democratico è anzi necessario farlo. Occorre fare compromessi. E non voler dominare a tutti i costi. Ma noi abbiamo un Presidente che invece viola tutte le regole. Viola perfino la Costituzione. Il governo federale non rispetta il diritto. Non persegue l’equità: con il lockdown era stato assegnato a ciascuno un sussidio di 600 dollari a settimana per garantirgli un minimo per vivere. Ma i repubblicani al potere hanno deciso di porre fine a questa misura.



L’Amérique des gens de bonne volonté, “Positif”, intervista di Lætitia Mikles, 25 agosto 2020

 

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City Hall, che negli Stati Uniti esce in periodo preelettorale, è il suo film più dichiaratamente politico da molti anni a questa parte. Lei appartiene alla generazione che si è dedicata al documentario grazie all’avvento delle macchine da presa leggere e del suono in presa diretta, e per la quale la mobilità tecnica andava spesso di pari passo con una spiccata coscienza politica.

Il film che più mi colpì quando volevo “fare film” senza ancora pensare in termini di finzione o di documentario è Mooney versus Fowle di James Lipscomb, con D. A. Pennebaker alla macchina da presa, sulla rivalità tra due allenatori di squadre di football del liceo durante un campionato a Miami. A parte il fatto che amo il football, quel documentario mi fece veramente intravedere le possibilità delle nuove attrezzature cinematografiche. A quel punto mi venne l’idea di ritornare a Bridgewater, l’ospedale psichiatrico giudiziario dove portavo i miei studenti quando insegnavo giurisprudenza, e che mi aveva segnato in maniera indelebile.

[…]

 

Come filmare elevando quello che lei definisce il “livello di analisi”?

Non ho una risposta preconfezionata sul come conseguire una forza d’analisi senza risultare didascalici. Sono costretto a fare un film per me, senza pensare agli spettatori, oppure presupponendo che il pubblico sia tanto stupido e tanto intelligente quanto me. Ma quello che spero, soprattutto perché ho letto molta letteratura – i racconti di Nathaniel Hawthorne, di Edgar Allan Poe, Stephen Crane, Henry James, che ammiro enormemente, Nathanael West… –, è che i miei film riflettano la complessità umana, come può fare il romanzo.

 

Lei parla di romanzi, ma i critici hanno paragonato i suoi film alle analisi del sociologo canadese Erving Goffman.

Ho tentato di leggere Asylums di Goffman, ma ho desistito. Dato che era professore invitato all’università in cui insegnavo, uno dei colleghi me l’ha “portato” mentre montavo Titicut Follies. Gli ho mostrato la scena in cui la guardia carceraria, che è anche becchino, prepara la salma di un detenuto. Mi ha detto: “Guardi questa scena, è tipica dell’indifferenza delle guardie carcerarie verso i pazienti detenuti, del loro grado di disumanizzazione. La prova è il fatto che non parla al prigioniero”. Non si era nemmeno accorto che l’uomo era morto! Sic transit Goffman… È solo un aneddoto, ma riassume bene il mio metodo: l’esperienza umana è complessa, e io cerco di riflettere questa complessità nel montaggio. Ho orrore del didattismo, flagello dei documentari realizzati tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. […] Il documentario classico mi dà sempre l’impressione di dover vendere un’ideologia, e io tendo – ero già così all’epoca – ad adottare per reazione il punto di vista opposto a quello della voce fuori campo, o a cadere nella totale indifferenza.

[…]

 

I suoi film sono sempre stati particolarmente attenti alle divisioni territoriali, all’assegnazione di razza e classe sociale, senza peraltro commentarle direttamente.

Va detto che dal 1966 al 1970, oltre a girare film, lavoravo su questioni sociali legate alla politica: il governo di Lyndon B. Johnson aveva sovvenzionato ricerche sull’edilizia popolare, sul legame tra povertà ed etnicità, sulle race relations. Avevo fondato con un amico uno studio di consulenza che era la mia fonte di reddito. E montavo i miei film la sera e durante il fine settimana. Sono tutti film politici, ma in maniera a volte poco evidente. Law and Order, per esempio, nel 1967 non era considerato politico ma oggi sì, alla luce delle recenti violenze della polizia: oggi non si percepisce allo stesso modo la scena della manovra di soffocamento sulla prostituta. Anche Welfare è politico: la lunga scena in cui una coppia chiede i sussidi sociali di emergenza e si vede l’uomo, egli stesso ex dipendente della previdenza sociale, mentire sfacciatamente, è una delle mie preferite. La domanda che pone è: lo Stato deve offrire assistenza ai bugiardi? […] I miei soli film apertamente “sulla” politica sono State Legislature e City Hall, ma Public Housing e Belfast, Maine e la maggior parte degli altri mostrano aspetti dell’attività dello stato.

 

In City Hall la politica si incarna in un uomo, Marty Walsh, il sindaco di Boston. Un formidabile storyteller: non esita ad attingere esempi dalla sua vita privata, il cancro cui è sopravvissuto da bambino, il costo dei farmaci di suo padre o il passato da alcolista.

È al centro del film, è vero, anche se scene come quella dell’assessore all’urbanistica che visita un complesso in costruzione o quella del derattizzatore che interviene nell’appartamento di un veterano di guerra sono altrettanto importanti. Mostrano che la città svolge un ruolo negli aspetti più quotidiani e personali della vita dei cittadini, dato che deve approvare i progetti di costruzione di una nuova abitazione, verificarne la conformità. Il sindaco fa tre discorsi al giorno ed è vero che indossa, anche letteralmente, diversi panni, svolge diversi ruoli. Ma che i politici siano attori non è una novità, e se fosse stato un cattivo sindaco si sarebbe visto nel film. Per me Marty Walsh è l’esatto opposto di Trump, parla di alloggi sociali, di accoglienza degli immigrati, di naturalizzazioni, di aumentare l’impiego per le minoranze. Penso che sia sincero perché vedo che fa quello in cui crede. La diversità etnica di cui parla si ritrova nella sua squadra, a tutti i livelli.

[…]

Il montaggio, a cui dedica interi mesi di lavoro, corrisponde per lei a una forma di analisi di ciò che ha registrato (è lei stesso a tenere l’asta del microfono) e che ha chiesto al suo operatore John Davey di inquadrare?

È un modo di trovare una forma, di spiegare la realtà a me stesso. Le migliaia di ore che ho girato nel corso degli anni comportano centinaia di migliaia di scelte – di soggetti, di luoghi, di momenti – durante le riprese e il montaggio. Si tratta quindi chiaramente di fiction, o di ciò che una volta ho definito scherzando reality fiction. Visiono il girato a mano a mano, tutte le sere, con il mio operatore, ma non monto progressivamente. Le giornate sono troppo stancanti e il montaggio è un’operazione molto precisa, non è un’attività mentale.



"Cahiers du cinéma", intervista realizzata da  Charlotte Garson il 1° settembre 2020