La genesi del film secondo Polanski

La genesi del film secondo Polanski

Come trasformare una matassa troppo complicata in un noir avvincente

Jack Nicholson un giorno mi telefonò per dirmi che c'era un soggetto che dovevo assolutamente leggere e di cui avrei potuto fare la regia: non avevo che da chiederlo. Ma non lo feci. I mesi trascorsi a Roma mi avevano convinto che l'Europa era la mia vera patria - amavo la vetustà, amavo quell'asimmetria che la rende così diversa dalla moderna, geometrica America -, e non avevo alcun desiderio di riaprire antiche ferite tornando a Los Angeles; e mi incaponii nella mia riluttanza, finché Bob Evans mi telefonò a sua volta per implorarmi di unirmi a lui nella realizzazione del film che lui stesso avrebbe prodotto, pur restando vicepresidente della Paramount - concessione senza precedenti da parte della società.
Al mio arrivo a Hollywood, Bob Evans mi diede da leggere un voluminoso soggetto. Era pieno di idee, con uno stupendo dialogo e personaggi magistralmente caratterizzati, ma con un difetto: una vicenda eccessivamente complicata che straripava da tutte le parti.
Intitolato Chinatown nonostante la totale assenza di ambientazioni o personaggi estremorientali, non avrebbe potuto assolutamente essere tradotto in film così com'era, sebbene una splendida pellicola fosse celata in quelle centottanta e più pagine.





La vicenda rientrava nella miglior tradizione chandleriana, ancorché il protagonista, l'investigatore privato J.J. Gittes, non fosse affatto una pallida, pedissequa imitazione di Marlowe.
Robert Towne, il soggettista, l'aveva immaginato quale un affascinante detective di successo, elegantemente vestito e dai modi freddamente insolenti: una nuova, archetipica figura di investigatore. Disgraziatamente il personaggi di Gittes era soffocato dall'intricata e pressoché incomprensibile trama, per cui la sceneggiatura richiedeva tagli massicci e una drastica riduzione, oltre all'eliminazione di parecchi personaggi di secondo piano, tutti perfettamente delineati ma che non aggiungevano nulla all'azione.
Bob Towne si era dedicato alla stesura di Chinatown per due anni, e giustamente la riteneva la miglior cosa che avesse mai fatto, ma io lo conoscevo abbastanza bene per sapere che non era necessario ricorrere a giri di parole.
Gli dissi quel che pensavo del suo testo mentre pranzavamo da Nate 'n Al's, a Beverly Hills; com'è ovvio, fu deluso dal mio giudizio professionale, e può anche darsi che essendo giù di morale io sia stato un tantino eccessivo: mi trovavo a Los Angeles, una città in cui ogni angolo di strada mi rammentava la tragedia; inoltre, stavo per compiere i quarant'anni, un momento delicato nella vita di qualsiasi uomo.





Towne accondiscese a stendere una versione più breve e semplificata del suo soggetto, e io ripartii tutto contento per Roma. L'idea di lavorare di nuovo a Hollywood non mi attirava, ma ben presto fu chiaro che per il bene comune era necessario che qualcuno guadagnasse un po' di quattrini.
Una volta completato, il nuovo testo di Towne si rivelò lungo quanto il precedente e addirittura di più difficile comprensione: se mai Chinatown era destinato a diventare un film, ci sarebbero voluti due mesi di intensissima collaborazione, smembrando il soggetto e ricostruendolo da capo.
Benché Los Angeles fosse l'ultimo posto dove avrei voluto stare, desideravo fare il film, e non solo per i soldi, che erano parecchi - oltre al compenso per la regia, una percentuale sugli incassi quale non mi era mai stata offerta prima - ma perché ero ansioso di tentate di realizzare qualcosa di completamente diverso, nel caso specifico un noir teoricamente di prima qualità che dimostrava come la storia e la fisionomia di Los Angeles fossero state plasmate dall'avidità umana.
Prima di mettermi al lavoro con Bob Towne, mi sistemai nell'enorme, buio appartamento Art Déco di Dick Sylbert in Fountain Avenue, una casa che Dick adorava ma che su di me aveva l'unico effetto di accentuare lo stato di depressione che già avvertivo.
Beverly Hills era cambiata dal tempo del delitto Manson, che in un certo senso aveva suggellato l'era degli hippies, dei figli dei fiori. In declino era anche l'uso relativamente innocuo di acido e di erba, sostituiti adesso dalla cocaina e dagli psicofarmaci, come il Quaaludes; quasi tutti i miei amici erano morti o se n'erano andati da un pezzo, e le loro case erano chiuse e abbandonate. Avevo perso persino il mio agente: un giorno, Bill Tennant se n'era semplicemente uscito dall'ufficio, senza neppure preoccuparsi di svuotare i cassetti della scrivania, e non aveva più fatto ritorno; poco dopo aveva lasciato anche la moglie. Fu il totale isolamento, unito al bisogno di una qualche attività extralavorativa, a rammentarmi la mia decisione di prendere lezioni di pilotaggio, così comincia a trascorrere ogni momento libero all'aeroporto di Santa Monica.



 

Un film sugli anni Trenta visto con gli occhi dei Settanta

Dopo aver lavorato otto ore al giorno per otto settimane, mi pareva che avessimo elaborato un copione straordinario sotto ogni aspetto, tranne due: io solo volevo che Gittes e Evelyn Mulwray finissero a letto insieme, e Towne e io non eravamo d'accordo sul finale; lui voleva che il diabolico magnate morisse e che Evelyn, sua figlia, continuasse a vivere; mirava insomma al lieto fine: dopo un breve periodo trascorso in carcere, per lei tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
Io invece sentivo che se volevamo che Chinatown fosse qualcosa di diverso, non semplicemente l'ennesimo noir dove alla fine i buoni trionfano, Evelyn doveva morire: se gli spettatori si fossero alzati dai loro posti senza sentirsi indignati dall'ingiustizia di tutto quanto era successo, l'impatto drammatico del film sarebbe andato perduto.
E un adeguato finale era importante per parecchi motivi: Chinatown era un bellissimo titolo ma, a meno che girassimo almeno una scena nella vera Chinatown di Los Angeles, ci saremmo resi colpevoli di una sorta di truffa, attirando il pubblico con l'inganno.





Lavorando alla sceneggiatura non superammo mai questi due ostacoli, e io riscrissi entrambe le scene la notte prima di girarle effettivamente. Ancora oggi Towne ritiene che il mio finale sia sbagliato, e io sono convinto che il suo, più convenzionale, avrebbe potuto gravemente indebolire il film.
Mentre eravamo tutti presi dalla stesura, Dick Sylbert e Howard Koch Jr., il mio assistente, cercavamo gli esterni, e Anthea Sylbert disegnava gli abiti, e ci vollero molti sforzi per ricreare lo stile degli anni Trenta. Diversamente da Bob Evans, per me Chinatown non doveva essere un film 'retro' o una voluta imitazione di pellicole classiche girate in bianco e nero, bensì un film sugli anni Trenta ma visto con gli occhi dei Settanta. Volevo che rievocasse il mondo e l'epoca di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, ma esigevo che lo stile di quel periodo fosse ridato mediante una ricostruzione scrupolosamente esatta degli ambienti, degli abiti e del linguaggio: non dunque una voluta imitazione, nel 1973, delle tecniche cinematografiche di quarant'anni prima.
Di questo, Evans e io discutemmo a lungo; se avessimo volutamente imitato lo stile, diciamo, de Il falcone maltese - tale il mio ragionamento -, la principale caratteristica di Chinatown sarebbe stata la sua somiglianza con un buon vecchio film noir hollywoodiano; io volevo girarlo in Panavision e a colori, ma volevo anche un operatore in grado di identificarsi con quel periodo. Ancora euforico per il successo di Il padrino, Evans voleva a ogni costo servirsi di Gordon Willis, che però non era disponibile, e comunque io avevo in mente qualcosa di diverso. A mio parere, Stanley Cortez sarebbe stato il tipo adatto, perché aveva lavorato con Orson Welles a L'orgoglio degli Amberson, una straordinaria rievocazione di un mondo scomparso.

 


La scelta degli attori, le musiche

Non ci furono mai dubbi si chi avrebbe dovuto impersonare Gittes. Jack Nicholson era un vecchio amico di Towne e fin dall'inizio aveva avuto a che fare con Chinatown, studiando con Towne il personaggio principale ben prima che ci fosse qualcosa di scritto, e sperando persino, per un momento, di produrre il film lui stesso.
Quanto ai Cross padre e figlia, fin dal primo istante avevo pensato a John Huston e a Faye Dunaway. Sul primo tutti si dichiararono d'accordo, ma per la parte di Evelyn Bob Evans preferiva Jane Fonda, che però rifiutò la proposta; così Faye fu scritturata nonostante le obiezioni di Evans il quale sosteneva che di trattasse di un'attrice 'difficile'. Io la conoscevo bene, o così almeno credevo. Ex fidanzata di Jerry Schatzberg, l'estate precedente era stata con noi a Roma per un breve periodo, all'epoca di un romantico intermezzo con Andy Braunsberg. Ero sicuro di riuscire a tenerla a freno.
Il resto del cast non presentava quasi nessuna difficoltà, poiché Hollywood è un posto dove è facile trovare gli interpreti per i ruoli secondari. In quasi tutti i miei film almeno una particina è interpretata da un dilettante, poiché ci sono facce che 'esigono' di venir inserite in una pellicola cinematografica; in Chinatown, il direttore dell'istituto per vecchi fu Jack Vernon, il proprietario del negozio dove avevo acquistato la giacca edoardiana che avevo indossato al mio matrimonio.





[...] Terminate le riprese risultò che ne era valsa la pena: di tutto, comprese le crisi isteriche di Faye Dunaway. Grazie a un'équipe di montatori che comprendeva Sam O'Steen e molti altri di coloro che avevano lavorato con me a Rosemary's Baby, l'operazione procedette rapidamente e senza difficoltà; l'unica persona di cui Bob Evans e io sentimmo moltissimo la mancanza, fu Chrisopher Komeda. A scopo sperimentale, mixai una scena con musica di Philip Lambro, un giovane compositore che ci aveva inviato un suo disco perché lo sentissimo, e Evans ne restò così favorevolmente impressionato che lo assoldò. Purtroppo, il commento musicale di Lambro si rivelò deludente. Bronislau Kaper, che avevo portato con me all'anteprima a Santa Barbara, dichiarò ottimo il film, soggiungendo però che il commento musicale non era all'altezza. Sapevo che aveva ragione, ma non avevo osato dirlo per rispettare i tempi: le date di immissione nel circuito commerciale sono di regola sacrosante, ed è impossibile cambiarle; ma Bob Evans, per il quale solo il meglio era abbastanza buono, si diede tanto daffare che riuscì a infrangere la regola: insistette perché si rifacesse il commento musicale e persuase la società a rinviare la programmazione. Jerry Goldmith fu incaricato di preparare una nuova colonna sonora, e la eseguì in tempi record.
Non assistetti a questa fase della lavorazione, e ne ebbi notizia solo dalla stampa.
Il film, che si rivelò subito un successo di critica oltre che commerciale, ricevette parecchi Golden Globes e undici designazioni per l'Academy Award, e Bob Towne un ben meritato Oscar per il suo soggetto, sicché leggere i giornali era un piacere, con un'unica eccezione. Tra i ritagli che mi erano arrivati, c'era quello contenente un intervista a Bob Evans, stando al quale avrei assunto un 'vecchio amico' per riscrivere la musica, e lui aveva dovuto intervenire assoldando Goldmith per rimettere le cose a posto; mi definiva inoltre 'brillante a patto di essere tenuto opportunamente a freno', aggiungendo che purtroppo ero circondato da tirapiedi adulatori, 'ed è per questo che i suoi film fanno una brutta fine', continuava Evans. 'Bisogna avere polso per fare il produttore, e io ne ho.' E concludeva che, visto il successo di Chinatown, mi ero reso conto che lui aveva avuto perfettamente ragione e 'ben presto faremo un altro film assieme.'
Ma non ci rimettemmo più assieme, e per evitarlo escogitai sempre nuovi pretesti: a indurmi a dire di no era il ricordo di quell'intervista. Avevo considerato Bob Evans più di un produttore: un amico. Ma, non per la prima e neppure l'ultima volta, un'esperienza hollywoodiana era stata per me fonte di delusione.

Roman Polanski, Roman Polanski, Bompiani, Milano 1984

 



Come se fosse raccontato in prima persona

Chi guarda dal di fuori può dirmi se ho uno stile costante in tutto quello che ho fatto. Ogni film è qualcosa di diverso per me ed esige un approccio differente. Ogni film richiede così tanti tempo che, quando l'hai finito, sei in qualche modo leggermente diverso. Hai già un approccio diverso. Non è come per un pittore, che può uscirsene ogni anno con cinquanta quadri, o almeno cinque. Puoi parlare del suo periodo blu o dei suoi due o tre anni surrealisti...
[...] Penso che si tratti soprattutto di una questione d'approccio, un tipo di approccio al lavoro che ho sviluppato attraverso l'esperienza fatta con questa professione: cioè, ogni volta dispongo gli attori sul set senza pensare alla macchina da presa. Li osservo mentre provano e poi, in seguito, provo a filmare. Questo è sistematico anche in Chinatown. Quando arrivo allo studio, non so che cosa sto per girare, nel senso che non so dove metterò la macchina da presa. Spesso non so nemmeno che scena girerò, perché non mi preoccupo di quello che sto per fare. Preferisco piuttosto che gli incaricati della produzione mi dicano: domani dobbiamo fare questo e quest'altro. Fino a un certo punto, ovviamente. Poi provo la scena con gli attori: lascio che la facciano per conto loro, così trovano istintivamente il posto giusto in cui mettersi, poi la modifico leggermente e la giro, quasi come se filmassi un documentario che si sta svolgendo sulla scena. Questo dà un certo stile ai miei film perché la mia macchina da presa è sempre dietro l'attore principale, in osservazione, in un modo o nell'altro. [...] La sceneggiatura di Chinatown prevedeva spesso azioni simultanee. La macchina da presa andava in posti in cui il detective, invece, non poteva essere stato presente. L'ho cambiata tutta e l'ho resa completamente soggettiva. Nel film non c'è praticamente ripresa - con qualche piccolo inganno qua e là - che non possa essere vista dal punto di vista dell'uomo. Il film è stato fatto quasi come se fosse raccontato in prima persona, come in Rosemary's Baby. [...] È come se mi venisse offerta una scelta di certi colori, senza badare al mio stato emotivo; io sceglierò più o meno lo stesso gruppo di colori e questi varieranno un po', ma non sceglierò mai il grigio o il marrone. Si tratta semplicemente del mio carattere, della mia personalità, che in qualche modo sono legati a questa scelta, come dice lo psichiatra svizzero Luscher.

Roman Polanski, estratto da una conferenza tenuta all'American Film Institute, Dialogue on Film, vol. 3, n. 8, agosto 1974

 


I produttori

Quando si fa un film per uno studio, l'obiettivo che ti impongono è quello di produrre per il pubblico. Anche se hai ambizioni artistiche e conservi la tua integrità, lavori comunque in quell'atmosfera. In Francia, i produttori pensano prima di tutto ai finanziamenti. Il loro problema consiste nel mettere insieme i fondi perché il progetto si possa fare, senza preoccuparsi molto del risultato finale. Si dice monter, 'montare' un film. Per me, montare significa sedersi al tavolo di montaggio! Per un produttore francese, significa approfittare di una serie di circostanze perché il film sia girato e spesso senza pensare al finale, salvo poi stupirsi se si fa fiasco. In America non si gioca alla roulette, sono ossessionati dal risultato finale e vogliono fare tutto bene. In Europa, si vuole prima di tutto poter iniziare, poi finire a ogni costo.
[...] Robert Towne ha una grande memoria verbale. Ha un buon orecchio per il dialogo, che suona sempre azzeccato. Ha sempre molta immaginazione e fa molte ricerche. La cosa che gli manca non è tanto in senso visivo, ma quello della costruzione. Non si rende conto che non si possono raccontare alcune cose cinematograficamente nei tempi che si hanno a disposizione. La prima sceneggiatura di Chinatown era lunga più di duecento pagine, con scene d'azione che, se fossero state portate sullo schermo, avrebbero dato vita a un film di quattro o cinque ore. Il mio lavoro è consistito dunque nel semplificare il testo in modo da renderlo filmabile. Spesso, inoltre, presentava le cose attraverso i dialoghi, dunque in modo letterario. Quindi ho cercato di presentare gli avvenimenti attraverso l'immagine e l'azione, come si addice al cinema. C'erano anche troppi personaggi secondari che è stato necessario eliminare. Poi si è cercato di far accadere diversi eventi nello stesso tempo. Una sceneggiatura visiva e una che non lo è hanno la stessa differenza che separa Shakespeare da Racine. In Racine un personaggio di rivolge al pubblico e racconta come è avvenuta la battaglia. In Shakespeare due uomini arrivano con le spade e si battono sulla scena.

Roman Polanski, da Entretien avec Roman Polanski, a cura di Michel Ciment e Michel Sineux, "Positif", n. 237, maggio 1988

 



John Huston

È un uomo molto simpatico e un buon attore. Essendo regista, capisce un collega, anche se molto più giovane. Ho subito pensato a lui come patriarca californiano molto legato al Messico, in cui Huston ha realizzato dei film e in cui vive da qualche tempo. All'epoca di Chinatown la California era ancora molto spagnola. Era un piacere lavorare con lui. Il mio solo rammarico è stato scoprire in fase di montaggio - ormai era troppo tardi - che teneva il coltello e la forchetta come un europeo per mangiare il pesce. Mi sono stupito di non averlo notato durante le riprese: gli americani usano il coltello solo per tagliare, poi lo posano sul tavolo e prendono la forchetta.

Roman Polanski, da Entretien avec Roman Polanski, a cura di Michel Ciment e Michel Sineux, "Positif", n. 237, maggio 1988