Antologia critica

Chinatown è fondamentalmente un lamento. Piange la morte dell'eroe: l'eroe simbolico che alla fine rimane paralizzato, privo di difese, mostrato come un uomo bloccato e sconfitto dal 'sistema'. Jake è un detective che per poco tempo esce dal suo ruolo; Evelyn è una nevrotica condannata che non potrà salvarsi. Ma queste rivelazioni conclusive non li ridimensionano. Essi, forse grazie alla simpatia che ispirano, forse attraverso il supporto iconografico del genere, conservano ancora una statura che esprime qualcosa di più del pathos. [...] I detrattori di Polanski spesso citano la sua crudeltà: Robin Wood lo colloca senza fare distinzioni tra quei registi che definisce emozionanti ma inumani, 'masochisticamente indulgenti nel dolore'. [...]
In realtà un regista inumano non avrebbe potuto renderci così partecipi del destino di Jack ed Evelyn come ha fatto Polanski; un regista inumano non avrebbe manifestato la stessa presa di distanza da quelle forze negative che portano alla sconfitta.
[...] Polanski non esprime semplicemente un nostalgico sentimento di pietà. Con la sua maniacale precisione e il suo cinico umorismo ci spinge inesorabilmente verso la colpa e la disperazione.

Mike Willmington, Roman Polanski's "Chinatown", "Velvet Light Trap", n. 13, autunno 1974

 

La critica americana ha apprezzato, ma con riserve, questo film di Polanski, sceneggiato dallo stesso Robert Towne a cui si deve L'ultima corvé (The Last Detail) di Hal Ashby. Tutti hanno rilevato la somiglianza di questo detective con il Marlowe di Raymond Chandler, di cui Gittes ripropone lo stile e il mondo morale. Secondo Jay Cocks (Time), 'il film è diretto da Polanski con una sorta di calma tensione, interrotta sa momenti di improvvisa violenza [...] Il meglio del film è nell'interpretazione. Il Gittes di Nicholson è un intelligente saggio di recitazione, divertente e insieme avvincente, anche se Polanski e Towne non gli consentono di utilizzare in pieno il suo talento [...] Chandler faceva di Philip Marlowe un idealista paladino. Per Polanski e Towne, invece, Gittes è semplicemente un protagonista che non mette niente in gioco, una specie di geniale guida per attraversare il ginepraio del racconto [...] Polanski e Towne hanno realizzato una pungente ed elegante ricostruzione dell'ambiente. Ma la sceneggiatura implicava anche delle questioni morali e delle implicazioni politiche che non vengono mai approfondite fino in fondo'. Il limite del mestiere, o del puro gioco dei colpi di scena, è rivelato anche dal critico di Variety (Murf.), che loda soprattutto l'interpretazione di Jack Nicholson, Faye Duneway e John Huston. Sullo stesso piano valuta il film anche Mitchell S. Cohen (Take One), il quale fra l'altro rileva: 'Gli ingredienti consueti al cinema di Polanski: la giovane donna in pericolo, le scene scioccanti di violenza e l'umorismo macabro, sono posti ai margini di Chinatown, con risultati incoraggianti [...] In ultima analisi Chinatown, che è nello stesso tempo insieme un omaggio agli ambienti del passato e un'originale variazione formale [...] evidenzia in Polanski un talento più complesso di quello apparso finora'. Secondo Alberto Arbasino (Corriere della sera), con Chinatown Polanski 'ha messo a punto una trionfale trama nera che è l'epitome di tutti i John Huston e Howard Hawks, di tutti i Bogart e le Bacall, di tutti i Grandi Sonni e i Misteri del falco, film però intorno agli anni Quaranta. Ma qui ha spostato tutto indietro di una decina d'anni. Così ottiene due scopi. Offre al designer Richard Sylbert e a sua moglie, superbi nel rivivere con eleganza spasmodica i caratteri stilistici di un'epoca visti attraverso i film più significativi di quella stessa epoca, la grande chance di emulare con successo gli struggenti lussi onirici e prenatali del Conformista di Bertolucci. Ma rimescola intanto nella trama nera e nello chic storicizzato un forte elemento rooseveltiano-sociale ricavato dalla letteratura populista tra Depressione e New Deal che piaceva a Vittorini [...] Chinatown è in definitiva un film dei Quaranta girato nel Settanta in ambienti del Trenta'.
Il film sembra inquadrarsi nella moda del 'revival', nell''operazione nostalgia' programmata dai cineasti hollywoodiani e di cui è testimonianza anche il recupero di uno scrittore tipicamente 'anni trenta' come Raymond Chandler (di cui non a caso è stato ripreso l'anno scorso Il lungo addio, ridotto per lo schermo da Robert Altman); e Chinatown promette di ripetere in tutto il mondo un successo commerciale paragonabile a quello raggiunto dallo stesso Polanski al tempo di Rosemary's Baby.

Aldo Bernardini, Chinatown, "Rivista del Cinematografo", n. 9, settembre 1974.

 

Chinatown appare come un ultimo grande film hollywoodiano. Fatto da un europeo, Polanski, mitteleuropeo come tanti altri grandi di Hollywood, da Lang a Sirk a Siodmak a Wilder a Curtiz. Un grande film hollywoodiano per la coscienza spettacolare che dimostra, per l'uso dei mezzi a disposizione, attori compresi,. Hollywoodiano perché non è un film 'su Hollywood' (se mai è sull'America), perché è un film di genere che non si riduce a strizzare l'occhio al genere e perché è il primo film che supera il genere nostalgico rétro (Bogdanovich, Pollack, Roy Hill) pur adottandone alcune convenzioni: è insomma sì un film in costume, che rifiuta però di soffermarsi pesantemente sull'operazione. Il genere rétro è qui un lontano sfondo, come il West di Duello al sole di King Vidor.
[...] Polanski usa l'armamentario rétro come se fosse l'unico, in un certo senso, per fare un film 'contemporaneo', cioè che sia definibile tale nel confronto con film che partono da scenografie e materiali simili, e non contemporaneo solo perché la vicenda si svolge nel 1975 o nel 2345. Quanto al 'poliziesco' solo Moravia può scandalizzarsi per le 'licenze sottoculturali' di Polanski, essendo abituato a considerarlo un autore-feticcio del 'cinema d'autore'. Non è un caso se questo è (con Rosemary's Baby) il migliore Polanski.

Enrico Ghezzi, Note su "Chinatown", "Il Falcone Maltese", n. 6, 1975

 


Tutto trasparente, tutto chiaro. Un film ironicamente ma impeccabilmente d'atmosfera. Un film di splendidi luoghi comuni splendidamente ironizzati, recuperati e ribaltati ad ogni piè sospinto. Un'occasione per far soldi (soprattutto negli Stati Uniti) ma anche di dimostrare ancora una volta che un regista che sa girare, e ha gusto per far del cinema non riesce a rinnegarsi neppure se se lo impone. Personalmente, a dispetto dell'opinione della maggioranza, preferiamo il Polanski di Chinatown a quello di Che?, tipico film enigmatico per intellettuali, gradito anche dal pubblico perché Sydne Rome lo attraversa allegramente a più riprese, da una capo all'altro, senza vestiti; e, in fondo, alla maggior parte degli altri film di Polanski (Repulsione, così volutamente 'anglico' nella sua gelida compostezza allucinata, tipico film di virtuoso; Cul-de-sac provocatorio e sfrontato nelle sue evoluzioni snobistiche; lo stesso lavoratissimo Macbeth, a cui Polanski teneva tanto, persuaso come deve essere sempre quando lavora, di farne un capolavoro fuori dall'ordinario [in quei tempi egli diceva del Macbeth di Orson Welles: 'È una tragedia di cattiva idraulica, una cloaca universale riempita di stregoni incestuosi']).
In realtà, forse solo il film d'esordio, il sottile e cattivo ed elzeviristico Coltello nell'acqua è così altrettanto disperatamente personale, felice, slegato e insieme coordinato. Il gusto di Polanski per la ferocia e per la crudeltà vi ritrova la stessa scioltezza ammiccante, senza il diavolismo 'thriller' di Rosemary's Baby; là il divertimento di un irregolare quasi geniale, ancora esistente ma già aggressivo - cosmopolita per istinto, e per vocazione e per costrizione - che all'interno di una cinematografia tutta patetica e rammentante, tutta intesa a rilavorare all'infinito le nevrosi della 'tragedia polacca', si diverte a intessere un maligno triangolo, di gusto, si scrisse all'epoca, palesemente 'occidentale'. Qui, dopo tanti anni di esperienze di cinema e di vita, intense e spesso tragiche, il piacere di far del cinema di memoria e al tempo stesso di smitizzarlo e di rovesciarne malignamente le proporzioni: il detective privato J. J. Gittes, non è soltanto sguinzagliato da una cliente misteriosa su una pista illusoria e pericolosa; non soltanto s'accorge di essere strumento d'una macchinazione che per troppo tempo gli sfugge e dietro la quale si nasconde la nera e ghignante volontà di potenza del terribile Noah Cross, uomo ricchissimo che vuol diventar ancor più ricco; non soltanto viene doverosamente picchiato, come accadeva appunto, di solito verso la metà del racconto, ai 'private eyes' del miglior cinema americano a cavallo tra anteguerra e dopoguerra, ma è costretto a portare a spasso un naso sconvolto e acciaccato.
E vede puntualmente sfumare ogni sua speranza di giustizia: Cross, tiranno incestuoso, che ha voluto una figlia dalla figlia, e vuol assicurarsi anche la bambina, riesce a liberarsi del genero e della donna con una irridente facilità, in cui il critico di istinti più strettamente sociologici vedrà soprattutto la natura, come dire, para-politica e super-capitalistica. Ma che l'annotatore meno propenso a mitizzare gli intenti di Polanski riconoscerà prevalentemente dei suoi elementi di voluto 'pastiche', nei suoi gorghi di tortuosa 'detection' continuamente rovesciata e contraddetta, nella sintomatica apparizione di John Huston in un ruolo che Walter Huston avrebbe probabilmente rifiutato per eccesso di cattiveria ma non per eccesso di virtuosismo; un John Huston ghignante e laidamente patriarcale che sembra - proprio lui che esordì dirigendo Humphrey Bogart nelle vesti di Sam Spade ne Il mistero del falco - voler ricordare la fine di tutta un'epoca della sofisticazione 'hard boiled' da lui stesso inaugurata e rigenerata.

Claudio G. Fava, Chinatown, "Rivista del cinematografo", n. 3, marzo 1975


 

Chinatown è il più delicato dei film noir sulla superficie, ma il più oscuro nella sostanza, e ci attira sulla soglia del nichilismo (...). Il film di Polanski si muove nella tradizione di Lang: costruisce una morsa chiusa e ingegnosa che intrappola. L'universo malefico riduce il detective a una nullità. Quando il detective è del tutto impotente, allora il mito è definitivamente esaurito. Il seguito di Chinatown, Two Jakes [Il grande inganno in Italia, N.d.R.], diretto sedici anni dopo dallo stesso Nicholson, non è servito di certo a rivitalizzare un genere ancora sconvolto dai due capolavori dei primi anni '70 [Chinatown e Il lungo addio, N.d.R.]. Robert Towne aveva previsto in origine una trilogia di Jack Gittes, ma il film realizzato da Polanski preclude di fatto questa possibilità: non vi può essere un seguito all'inferno.

Donald Lyons, Flaws in the iris, "Film Comment", n. 4, luglio-agosto 1993.



 

I titoli di testa imitano graficamente quelli della vecchia Hollywood e ci introducono a un primo livello di lettura del film: la rievocazione minuziosa della detective story anni Quaranta, con un investigatore privato hardboiled (più Hammett che Chandler), una donna menzognera, un intreccio di corruzione politica e segreti familiari, la classica scena in cu il protagonista sviene in seguito a un pestaggio, e così via. Evidentemente, è un film che si riallaccia al revival anni Settanta del detective privato e più in generale alla cosiddetta operazione nostalgia sul cinema classico hollywoodiano, che è in realtà qualcosa di più complesso di un semplice fenomeno alla moda: come s'è già detto, c'è infatti di mezzo una questione d'identità del nuovo cinema americano, che cerca di definirsi attraverso la rilettura del suo passato. Nella sua autobiografia, Polanski dice però due cose interessanti: da una parte di aver voluto inizialmente come direttore della fotografia Stanley Cortez, collaboratore di Welles in un'esemplare rievocazione d'ambiente come L'orgoglio degli Amberson; dall'altra, di aver rifiutato l'immagine ostentatamente rétro richiesta dal produttore Bob Evans. Risulta così chiaro l'atteggiamento del regista, che con Stanley Cortez (e con la scelta di John Huston, autore di Il mistero del falco) intendeva apertamente riallacciarsi al cinema dei primi anni Quaranta, ma nello stesso tempo voleva staccarsi dalle operazioni di ricalco più superficiali. Chinatown appare così come un film fondato sull'idea di scarto rispetto al modello citato. [...]
Tale scarto avviene innanzitutto mediante una serie di aggiornamenti: il dettaglio crudo del naso tagliato; il finale che ostentatamente rovescia le consuetudini, facendo trionfare l'orco John Huston e lasciando la ragazzina indifesa nelle sue braccia. Un altro aspetto sottolineato all'uscita fu quello politico: l'intera storia di Los Angeles, e di tutta l'America, viene posta esplicitamente sotto il segno di un potere economico che si esercita ferocemente anche sugli elementi primari della vita (l'acqua, la paternità). Inoltre, Polanski utilizza alcuni motivi canonici del noir facendoli rientrare all'interno della sua poetica e delle sue ossessioni, come l'acqua e l'uccisione della Madre, ma anche la castrazione simbolica del protagonista (la ferita al naso) o il grottesco di certe caratterizzazioni laterali. Va poi ricordato che la Chinatown del titolo è il leit-motivo ossessivo del film, ma viene narrativamente giustificata solo dalla scena finale, scritta tra l'altro all'ultimo momento: si tratta apertamente di un luogo mitico, al quale il protagonista non può sfuggire, ma dove anzi è costretto a ritornare per essere ancora una volta soggiogato da forze più grandi di lui. Un simbolo sia interiore che cinematografico, quindi, dove non a caso trionfa il patriarca John Huston: Chinatown è anche il cinema hollywoodiano, e può essere significativo il fatto che questo film segni il ritorno di Polanski a Hollywood, luogo di cui ci mostra il potere, la seduzione e la falsità.

Renato Venturelli in Poliziesco americano in cento film, Le Mani - Microart's Edizioni, Genova, 1995



 

Insistendo col suo scenografo, Richard Sylbert, e con la costumista, Anthea Sylbert (cognata di Richard), sottolineando 'una scrupolosa ricostruzione del décor, degli abiti e della parlata', Polanski voleva evitare una nostalgica parodia della tecnica cinematografica degli anni Trenta.
Voleva 'un operatore che poteva identificare quel periodo' e si appoggiò a uno dei maestri del biancoenero, Stanley Cortez, che aveva lavorato nel cinema americano dal 1937, casualmente l'anno di ambientazione del film, e aveva partecipato (tra i molti) a La morte corre sul fiume di Charles Laughton nel 1955 e, indicato da Polanski come una 'splendida evocazione di un periodo scomparso', L'orologio degli Amberson di Welles nel 1942.
Polanski era meno soddisfatto della prima settimana di riprese: 'tutto risultava in tonalità ocra e salsa di pomodoro'. Scoprendo poi che ciò era dovuto alle indicazione date da Evan al laboratorio, gli parve che la scelta di un operatore veterano, considerata 'piena di fascino rétro', fosse stata un errore: 'totalmente estraneo allo sviluppo tecnologico cinematografico, iniziò a chiedere apparecchiature non più in uso da tempo [...] Usava molta luce ed era estremamente lento, tanto che, se l'avessimo tenuto con noi, non avremmo mai finito il film'.
Era certo un direttore della fotografia che era arrivato tardi alla fotografia a colori e forse era poco pratico del formato anamorfico Panavision. Si può anche insinuare che quello che all'inizio era un film in studio (circa due terzi del film sono stati girati negli stabilimenti Paramount) con una sequenza buia non era riconducibile al suo metodo di lavoro. Così dieci giorni dopo l'inizio delle riprese Polanski lo licenziò, sostituendolo con John A. Alonzo.
Alonzo scrisse poi un breve articolo sul suo approccio nel quale dichiarava di 'evitare scrupolosamente i trucchi', usando, per esempio, vari tipi di lenti quando riprendeva la star femminile. Era solito usare lenti da focali tra 2,8 e 4 per dare al film quella che definisce un aspetto 'classico', completamente privo di trucchi, che non attira l'attenzione su di sé in alcuna maniera espressionistica (come invece molti dei noir 'classici') e che, aggiungerei, completa perfettamente l'impianto classico della sceneggiatura. È interessante che Alonzo citi nello specifico l'influenza di due operatori associati al periodo in cui Cortez stava emergendo: James Wong Howe e Gregg Toland, entrambi pionieri della profondità di campo in bianco e nero.
Tutta questa praticità tecnica serve solo a dimostrare, se non altro, quanto in errore possano essere i teorici. Fredric Jameson, in un altrimenti puntuale intervento sulla contorta definizione del termine 'post-moderno' (un concetto che, a oggi, sembra già un concetto del passato), identifica Chinatown come un 'recupero stilistico degli... anni Trenta americani', vedendo il film come un tentativo di 'mettere sotto assedio o il nostro presente e il nostro passato prossimo, o una Storia più remota che rifugga la memoria individuale'.
Nonostante questo film possa essere visto in definitiva come un prodotto del suo tempo, i suoi temi dominanti non possono essere semplicemente ridotti a quelli di una posticcia riflessione sul passato. Basti pensare a come esso eviti tutte le insidie di una colonna sonora retrospettiva. Se c'è una riflessione da fare su Chinatown non è certo per la sua nota evocazione di un passato, ,a piuttosto la sua romantica ansia per il presente. La somma questione di questo film per me non è il complice ammiccamento al post-moderno ma l'imperturbabile sguardo di un classico.

Michael Eaton, Chinatown, BFI Publishing, London 1997



 

Tra Nascita e Morte, si sviluppa il grande discorso del simbolismo marino, gettando le sue reti fino a livello di nomi dei personaggi (Noah, Crabb ecc.) o di emblemi (l'Albacore Club), e si incardina poi definitivamente sul tema della perdita: perdita delle acque (oltre che le dighe, perde acqua, a un certo punto, anche il radiatore della macchina di Gittes, bucato da una fucilata), perdita nelle acque (cui lo stesso Gittes sfugge per miracolo).
[Un tema costante] in Polanski, dai finti annegamenti del Coltello nell'acqua (sceneggiato da Skolimovsky, poi regista di altri film acquatici come Deep End e La nave faro), alla marea che periodicamente circonda il Castello di Cul-de- sac, fino alla villa sulla scogliera di Che?, e altri film acquatici verranno, da Pirati a Luna di fiele, per non parlare di quell'altra villa sulla scogliera in cui si dilanieranno i personaggi di La morte e la fanciulla.
J.J. Gittes, detective dal nome doppio, è sempre in scena, ma non senza qualche momento d'invisibilità. A un certo punto, ciò che scompare sotto un cerotto è il suo naso, tagliato dal coltello del maligno genietto Polanski, e questa castrazione simbolica viene esplicitamente confermata dalla spiritosaggine pesante che Gittes indirizza al poliziotto che scherza sul suo naso.
Il Padre, Noè, Signore delle Acque, ha fondato il suo sogno di scacco alla Morte sull'usurpazione, sulla violenza: è stato Padre, e assieme Marito, e dunque al suo posto, nella catena simbolica, non può che risultare il vuoto, la mancanza, il nero, e la cascata di simboli corrispondenti, squadernati fin dall'inizio con chiarezza didascalica: i due orologi, di cui uno infranto; la lente rotta degli occhiali di Gittes durante la visita agli aranceti; la lente rotta degli occhiali trovati nella vasca del giardino; l'osservazione, altrimenti incomprensibile, della macchia scura nell'occhio di Evelyn; l'occhio nero della moglie del pescatore; Gittes che 'acceca', infrangendolo, uno dei lampeggiatori della macchina di Evelyn; infine, l'orbita vuota dell'occhio di Evelyn uccisa, la Ferita sanguinante e mortale, nell'orrore del suono del clacson, nella tristezza dell'allontanarsi senza ritorno di Gittes in campo lungo sulla strada di Chinatown.
Abbiamo già detto, nel capitolo apposito, del rapporto di Chinatown con il genere detective-story, ed elencato alcuni precedenti (altri senza dubbio se ne potrebbero trovare). Qui ribadiamo: Chinatown è un film sulla disperazione e sull'ambiguità, ma anche su Bogart, sulla Bacall, sull''uomo invisibile', sul marinaio O'Hara, su Marlowe, su Sam Spade: è evidente che, nel 1974, ogni gesto, ogni tic di Jack Nicholson è se stesso ed è citazione, che i suoi cappelli e gilè, i suoi completi all'ultima moda, i fazzoletti nel taschino, il portasigarette d'argento, la scarpa su misura, sono suoi come di Marlowe o di Sam Spade, che il viso bianco e tirato di Faye Duneway è suo come di Lauren Bacall, che John Huston è Noah Cross, ma è anche il regista del Mistero del falco, che le inquadrature dal basso coi soffitti in vista sono di Polanski e assieme di Welles che 'Chinatown' è 'Shanghai' ecc. Welles, 'riducendo' e manipolando il giallo di Sherwood King If I Die Before I Wake per La signora di Shanghai, confessava candidamente di non essere mai riuscito a capire niente della trama, e a Chinatown, tanto per cambiare, 'non si sa mai bene quello che sta succedendo'. Forse è questo il marchio di certi autori, che non riescono mai a capire bene quello che fanno, o fanno certe cose credendo di farne altre. Il gioco degli specchi infranti distruggeva anche l'immagine della lady from Shanghai, Elsa Bannister/Rita Hayworth, ridotta finalmente da corpo glorioso di star a spoglia mortale - un diverso gioco di specchi (moglie/figlia/sorella) acceca Evelyn Mulwray (Faye Duneway) - e, in tutti e due i casi, al marinaio O'Hara e al detective Gittes non resta che allontanarsi sconfitti, annichiliti dalla complessità d'un reale irriducibile: solo che Polanski fa morire Evelyn, sapendo che Elsa Bannister è già morta. Dunque, Evelyn torna a morire, nella gran giostra d'un genere alla cui innocenza non è più possibile credere.
Così, è evidente che Polanski cerca, con più intelligenza del vecchio tentativo di Robert Montgomery (Una donna nel lago, del 1946), di stabilire l'equivalente filmico della 'prima persona' chandleriana, facendoci identificare con lo sguardo di Gittes. Noi scopriamo sempre le cose con i suoi occhi, da dietro una finestra, in uno specchietto retrovisore, dall'alto di un tetto. Non ne sappiamo mai più di lui, e quindi ne sappiamo sempre poco, com'è d'obbligo in quella grossa Chinatown che è la Los Angeles del film. Si può dire che Gittes, da buon detective sia sempre in scena, anche se a volte lo è in modo 'invisibile', con le bende e gli occhiali neri alla Claude Rains, o addirittura sotto le specie d'una spirale di fumo: si veda il suo incontro decisivo con Noah Cross, nella casa di Evelyn; Gittes fuma fuori campo, e sapremo che si tratta di lui solo quando Cross, che arriva frontalmente alla macchina da presa, lo saluterà. Nell'inquadratura, per lungo tempo vuota, vediamo solo il fumo, che viene da un angolo e designa ancora una volta, in impalpabili volute, il luogo di un'assenza.

Alessandro Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Recco 1997

 


Possiamo già identificare i temi principali del film. Le prime due scene sottolineano il tema delle relazioni illecite, di sposi che hanno storie extraconiugali. A film concluso comprendiamo che questo è uno dei temi dominanti che si dipana per tutta la pellicola, che in definitiva evidenzia l'incesto tra Evelyn Mulwray e suo padre, Noah Cross, e qualcosa di simile tra Hollis Mulwray e la sua figliastra Catherine. Se [ci] domandiamo di cosa 'parla' Chinatown, qual è la sua 'sostanza' o 'il concetto di fondo', una risposta può essere l'infrazione di una legge fondamentale della società, il tabù dell'incesto, una legge che genera precisi limiti identitari e sociali. I legami familiari definiscono l'identità, e così l'attenzione del film alle relazioni è anche un'attenzione al tema fondamentale dell'identità, e al dolore causato da relazioni illecite.
La prima tematica è connessa alla seconda: la corruzione politica. Questa è affrontata alla fine della terza scena, quando un coltivatore accusa Hollis Mulwray di corruzione. Jake comunque ignora questo indizio e, successivamente, è un falso indizio, Hollis cerca di spiegare la sua implicazione. Dopo che Hollis è ucciso, il tema della corruzione è trattato in maniera più acuta, come quando Jake suggerisce a Evelyn che suo marito è stato ucciso perché voleva confessare. Jake continua l'investigazione per trovare chi l'ha incastrato e chi Evelyn stia nascondendo. All'inizio sospetta di lei per l'omicidio, poi scopre il suo 'segreto' è che sua figlia è stata procreata da suo padre, Noah Cross. Più avanti, Evelyn suggerisce a Jake che suo padre possa essere implicato nel caso di corruzione politica (come nella morte del marito). È solo verso la fine del film che Jake è in grado di collegare tra loro il primo tema, le relazioni illecite e l'identità, al secondo, la corruzione politica, e capire che Noah è coinvolto in entrambe le cose. Forse, allora, anche noi possiamo collegarle e intuire che il tema centrale di Chinatown è 'la corruzione del patriarcato', del padre nella famiglia e nella politica.
Chinatown
racchiude molte tematiche ricorrenti del cinema di Polanski. L'eroe è estraneo alla società per la natura del suo lavoro (un investigatore privato che si occupa di casi matrimoniali), ma è comunque lontano dal classico investigatore alienato da film noir. In ogni modo, Jake è incapace di porre una qualunque convinzione o valore dietro l'etica del suo lavoro, come esprime sostenendo che la motivazione del suo indagare sulla morte di Malwray sia strettamente personale, e dimostrandosi disinteressato alla politica. Il mondo contemporaneo è violento, la vita di Jake è minacciata in diverse occasioni e il suo naso gravemente tagliato. Inoltre, Cross in particolare è rappresentato come uno sfruttatore spietato dai comportamenti illeciti; la trama del film non conduce a una risoluzione o a un lieto fine (Polanski riscrisse il lieto fine di Robert Towne), ma è circolare, perché alla fine i personaggi non risultano migliori di com'erano all'inizio - anzi alcuni sono peggiorati, Evelyn è uccisa, Jake è ferito, perde la sua licenza e la donna che amava, e Catherine è affidata a Noah Cross che pare evitare il processo. Proprio per il finale, il film passa da una forte colpevolezza a un cupo pessimismo, mentre il personaggio principale scivola dalla presuntuosa e cinica sicurezza di sé alla confusione morale e inettitudine professionale.

Thomas Elsaesser, Warren Buckland, Studying Contemporary American Film, Arnold, London 2002



 

"Il più profondamente disturbante e purgativo lavoro di Polanski", come lo definì Virginia Wexman, canta la morte del genere senza nessuna tenerezza. Sfuggito al conflitto del bianco e nero, il male si stempera nei colori autunnali di una Los Angeles arida e assolta, confondendosi dietro i volti, il trucco, le fotografie. Polanski non vuole i colori accesi di Il Padrino (The Godfather, 1971), recente successo di Evans, ma toni freddi sulla pelle dei suoi eroi e una dominante beige sugli ambienti, simile al pastello in cui già si bagnava Rosemary's baby, ma meno brumosa: se Rosemary è un film senza nero, Chinatown scivola, lentamente, verso le tenebre. Il quartiere cinese è filmato come un'architettura di luci impalpabile, uno spettro nel buio.
La tracotanza di Cross è una sfida alle leggi della natura, incarnazione di una barbarie inedita nel microcosmo polanskiano. Come ha notato Avron, il gioco di parole sul nome di questo personaggio, Noah-Noé, contribuisce a immergere la storia nella dimensione del mito, inquinando la struttura del noir con quella del western, in quanto alla fondazione della civiltà comincia con la ricerca dell'acqua. Se il futuro sognato da Cross ('I want the future', grida a Gittes gettando la maschera) non è altro che il presente corrotto del Watergate, la catarsi dello spettatore è possibile. Da quest'ultimo Polanski ricerca l'indignazione; era dunque indispensabile non punire il cattivo e adottare i codici visivi e sonori del dramma, dilungandosi qualche secondo sulle grida spasmodiche dell'innocente Katherine, in una delle inquadrature più disperate: il sangue brilla nell'auto, risaltando sull'abito bianco della ragazza.
[...] Per sfuggire alle forze del male, gli eroi di Polanski seguono sempre una linea retta verso il fondo del quadro. Ma come il corridoio di Rosemary's baby e i cunicoli di Per favore... non mordermi sul collo, la strada di Chinatown offre solo l'illusione della fuga. L'unica via d'uscita, quando esiste, è verticale (Che?, La caduta degli angeli). In Chinatown Polanski ci mostra raramente i soffitti preferendo piuttosto un'angolazione dall'alto verso il basso, come a voler schiacciare i corpi contro la loro vertigini: si pensi agli strapiombi sull'oceano o allo stesso finale, con il dolly che rende ancora più claustrofobico il paesaggio di Chinatown.
[...] Determinante ai fini dell'organizzazione dello spazio è inoltre la combinazione del grandangolo con il formato Panavision, che sembra contraddire la stessa insistenza sui volti. Quando Gittes apprende la verità dell'incesto, non può fare altro che scagliare Evelyn contro il divano, relegandola fuori dal centro del quadro, in compagnia della sua ombra sul muro. Per la prima volta, i due non sono più uniti nella stessa inquadratura. Lo svelamento della verità è messo in scena come la perdita del centro, con lo spazio che affoga nel vuoto del non senso. Vuoto è anche il discorso della donna, pieno di buchi e di sottintesi che Gittes avrebbe dovuto capire molto prima. Il tic-tac iperrealistico di chissà quale orologio, udibile anche nella camera da letto, contrasta con il pathos del momento ma lascia emergere i silenzi, i sospiri e i singhiozzi, che cedono spazio al languore malinconico della musica di Goldmisth solo alla fine. Quando tutto è stato detto.
Ma il vuoto più perturbante è forse quello che emerge nella variazione sulla figura del triangolo. Questa volta, in mezzo ai profili dei personaggi, il nulla.
Il triangolo mélo lui (Gittes) - lei (Evelyn) - l'altro (Cross) è spezzato in due spazi e tempi diversi. Quando al detective e la donna escono al ristorante, in una delle scene preferite da Polanski (forse per l'ironia di Nicholson: 'Al mio naso ci tengo, mi piace respirare') l'usciere è l'unico personaggio al centro del quadro, ma solo per qualche secondo. Evelyn rifiuta il passaggio di Gittes e manda il ragazzo a prendere la sua auto, lasciando che la luce soffusa di Los Angeles rischiari i loro volti. Una composizione identica organizza più avanti il dialogo notturno nel guardino. Il sistema dei personaggi non è chiuso nemmeno in occasione della confessione di Cross, nel giardino della villa. Gittes occupa ancora il lato sinistro del quadro, ma nessun testimone guarda la scena. Chinatown è fatto di anelli che non tengono, di geometrie spezzate come gli occhi.

Alberto Scandola, Roman Polanski, Editrice Il Castoro, Milano 2003