Sguardi d'autore: Zanzotto e Haneke sul film

Sguardi d'autore: Zanzotto e Haneke sul film

Michael Haneke

In Balthazar, come in tutti i film di Bresson, si percepisce un'avversione quasi fisica dell'autore contro qualsiasi forma di menzogna, e in particolare contro ogni forma di inganno estetico. Questa rabbiosa avversione sembra essere la forza motrice di tutto il suo lavoro e porta a una purezza del mezzo narrativo che cerca dei pari nella storia del cinema.
In un lettore che non conoscesse l'opera di Bresson potrebbe insinuarsi, nel leggere la precedente descrizione dell'inizio e della fine del film, l'impressione di "poesia", di ricercata bellezza, di pretenziosa stilizzazione, delle immagini "belle", ovverosia piacevoli (che si potevano ancora trovare qua e là nei suoi primi film e che oggi dominano il "cinema d'arte" così come i film americani di serie A e gli spot pubblicitari).
Si potrebbe addirittura dire che Bresson è l'inventore dell'immagine "sporca" nel campo del film d'arte: accanto alla volontà, sembra avvertibile, di mostrare le cose del mondo più chiaro e semplice possibile, un istinto infallibile lo preserva dal pericolo di una sterile stilizzazione - le sue immagini, nonostante la precisione della messa in quadro, danno sempre l'impressione di essere come sfilacciate, lasciate aperte alla rottura della regola da parte della realtà. (Penso che le sue note dispute con i direttori della fotografia, come De Santis, famosi per la "bellezza" delle loro immagini, potrebbero aver avuto in ciò la loro causa.)
Invece che "bellezza", dunque, precisione - ogni immagine mostra solo ciò che è strettamente necessario, ogni sequenza è compressa nella forma più concisa e nel tempo più breve necessario, e nondimeno le inquadrature e il montaggio sono insolitamente lenti, anche per la data di nascita del film, il 1965. Non ci sono mai pause che danno spazio al sentimentalismo. Tutto dà l'impressione, nella sua semplicità, di crescere naturalmente; ogni cosa, anche al servizio di un disegno estetico rigoroso, non ne diviene mai vittima.

Michael Haneke, Terrore e utopia della forma, in Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovanni Spagnoletti e Sergio Toffetti, Lindau, Torino 1998



Andrea Zanzotto

Au hasard Balthazar dispiega una lunga serie di contiguità metonimiche sulla linea metaforica di base. L'attenzione a un animale tanto disprezzato da diventare un insulto e, allo stesso tempo, tanto necessario da costituire una delle basi dell'economia, specialmente mediterranea, e quando una delle fonti della vita, si presta a più di una rievocazione o considerazione al riguardo. Si pensi, se non altro, al nome di asino come insulto clamoroso, nota del tutto negativa a proposito di certe caratteristiche dell'animale che avrebbero potuto anche essere lette al positivo.
[…] Nella storia di Balthazar noi siamo posti di fronte all'oltrazionismo di una prospettiva che si affaccia sempre più insistentemente quanto più sprofonda la paradossalità. Chi mai sarà l'asino? La figura di un "salvatore" che risolve, in silenzio, molte cupe situazioni, e si dà fino a un estremo sacrificio. Resta quindi una metafora cristica quella che di insinua con forza maggiore, perché Balthazar è colui che viene assolutamente incolpevole al mondo, percorre innocente tutta la sua strada, muore per l'onerosa croce delle colpe umane, facendosene carico. Il tessuto metaforico è suggestivo, ma non pienamente esplicito, sebbene la madre di Maria, a Gérard che lo chiede in prestito per l'ultimo servizio risponda che è vecchio e stanco e che «è un santo»: una rapida sequenza tra due dissolvenze lo mostra incensato durante una processione religiosa.
L'intuizione di fare dell'asino l'asse portante di un movimento tematico più profondo si radica nel cristianesimo delle origini. È noto infatti un antichissimo graffito in cui appare una testa d'asino e qualcuno che le si inchina, con la scritta Alexamenos sebete (sèbetai) theon (Alexamenos adora il suo Dio). Viene cancellata in questo caso la rappresentazione che si ha di tutti i personaggi carismatici, potenzialmente trionfanti anche nella sofferenza. E si ha l'azzeramento dell'uomo nelle sue pretese di privilegio e di sovranità rispetto al vivente, anche dell'uomo che si propone come carismatico e profetico. Ciò è terribilmente evidenziato, lontano da ogni irriverenza e ogni facile intenzione didattica, dall'insistita esemplarità con cui viene esposto un animale collocato al grado più basso della gerarchia del vivente. Ecco che l'asino allora diventa più che umano nel ricollegarsi, col suo portamento, alle fonti stesse di una misteriosa etica che tiene in piedi il mondo.

Andrea Zanzotto, Il divino Balthazar, in La bellezza dello sguardo. Il cinematografo di Robert Bresson, a cura di Luciano de Giusti, Il Castoro, Milano 2000