Antologia critica

Antologia critica

“Au hasard Balthazar” è il motto dei conti di Baux-de-Provence che si proclamavano discendenti del Re Magio Baldassarre. Bresson dichiara di aver avuto voglia di utilizzare un asino come creatura principale di un film perché durante la sua infanzia ne aveva visti parecchi, non soltanto dal vivo ma anche sui capitelli delle chiese romaniche. Infatti l'asino è un animale molto presente nella religione cristiana, spesso rappresentato nelle Natività e nelle Domeniche delle Palme; inoltre il Medio Evo conosce il miracolo dell'asina di Balaam (l'indovino chiamato dal re di Moab a scacciare gli ebrei) e dell'asino sul quale si metteva alla rovescia l'effige del vescovo di Parigi durante la festa dei folli a Notre-Dame. La scelta di Bresson, seppur sorprendente, non è allora del tutto incongrua, e Balthazar prende il suo posto nella galleria degli asini che già appaiono nella letteratura e nelle arti plastiche. D'altra parte, vi è nel film un vero e proprio bestiario: cani, pecore, cavalli, galline e animali da circo in una bella sequenza in cui, dopo aver servito gli uomini, Balthazar si ritrova a trasportare il cibo per le bestie. Vi saranno altri animali anche il Mouchette, questa volta associati all'idea della caccia. Il processo di Giovanna d'Arco, Au hasard Balthazar e Mouchette rappresentano d'altra parte un trittico dove si ritrova “lo spirito d'infanzia”: perduto – ma evocato – nel Processo di Giovanna d'Arco, qui si incarna con felicità tanto più che Bresson ci fa sapere nelle interviste che in Balthazar evoca precisamente la propria infanzia e in modo particolare le vacanze nel Sud della Francia.
[…] Il percorso di Balthazar è meno lineare di quello delle opere precedenti, perché più destini (Marie, suo padre, il giovane teppista, Arnold...) vengono seguiti contemporaneamente, ma una sceneggiatura rigorosa, che prende come punto di riferimento la storia dell'asino, evita la dispersione del film in sketch: il cammino dei vari personaggi incrocia e frantuma in continuazione la linea diretta seguita da Balthazar. In questo modo, i diversi gruppi si incastrano gli uni negli altri, gravando con tutto il peso della casualità sull'asino sempre identico a se stesso. Lo sguardo così posato sul mondo moderno è impregnato di una grande tristezza che si spinge fino al più nero pessimismo. Orgoglio, crudeltà, umiliazione, stupidità, violenza e sensualità sono presenti ovunque e fanno soffrire Balthazar, che rappresenta l'insieme delle creature. Con pudore Bresson cancella le asperità del racconto che potrebbero provocare lacrime o strette al cuore, ma solo per far pesare un'angoscia metafisica più autentica di fronte alla scomparsa di quasi tutti i valori cristiani. Infatti, qui è impossibile cogliere la benché minima trascendenza; i sacrifici non hanno alcun senso, alcuna capacità redentrice; non si scorge nessuna reversibilità dei meriti. Il parallelo con Pickpocket è particolarmente demoralizzante: Michel viene toccato dalla grazia (Pickpocket); Gérard, il teppista, no. Abbandonata da Jacques in Pickpocket, Jeanne trova Michel; qui Marie incontrerà solo la disperazione in un mondo che sembra votato al male.

René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini & Castoldi, Milano 1998





In quest'asino “prigioniero”, come tutti i personaggi bressoniani, di molti doppi, oltre che di quell'orrendo Doppio che è il mondo che lo rinchiude dentro una natura non sua, diventa allora riconoscibile, come nel Fontaine di Un condannato a morte è fuggito o nel Michel di Diario di un curato di campagna, più che la vocazione al martirio, la vocazione al nomadismo. È una vocazione che cresce, in loro, con l'educazione sempre più raffinata dallo sguardo. Fontaine “viaggiava” moltissimo dentro e fuori la “clausura” della propria cella, ossia guardava e imparava moltissimo, prima di mettere a segno la fuga. Così Michel, che “viaggiava” altrettanto intensamente, dentro e fuori la “clausura” della propria stanzetta, come dentro e fuori le “clausure” dei portafogli e delle borsette altrui, prima di mettere a segno il colpo finale, il colpo della propria stessa reclusione/liberazione. Allo stesso modo Balthazar “viaggia” moltissimo, dentro e fuori l'armatura di un corpo non suo – è troppo più saggio delle persone che deve servire –, e dentro e fuori le esistenze di quelle stesse persone, prima di mettere a segno il colpo finale, il colpo d'arma da fuoco che gli trapassa il fianco e lo conduce a morire nel medesimo luogo dov'è nato.

Sergio Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma, Le Mani, Genova 1998




Au hasard Balthazar
(1966) introduce una novità nella filmografia di Bresson. Il film narra la storia di un asino dalla nascita fino alla morte. Il regista che non vuole attori sul set, ma modelli, non persone che recitino, che fingano di essere quello che non sono, ma persone che siano disposte a posare, restando esattamente quello che sono, trova nell'animale l'interprete ideale. Nulla e nessuno è capace di manifestarsi per quello che effettivamente è, senza finzioni, più di quanto sappia farlo un asino. La fedeltà a se stesso è per lui un dato fuori discussione. Il film si presenta con una struttura particolarmente complessa. La vita dell'asino è legata a quella di un gruppo di esseri umani, i quali rappresentano i vizi (orgoglio, avarizia, lussuria, ubriachezza, violenza...). L'asino è colui che subisce, con una capacità di sopportazione pressoché illimitata, tutte le conseguenze, per lui dolorose, dei vizi altrui. La vita dell'asino è come una linea che attraversa il film e che può essere percepita per segmenti. C'è un'evidente analogia tra la vita dell'asino (battezzato con il nome di Balthazar) e la vita di un essere umano. Il film ne coglie le tappe fondamentali: l'infanzia, i giochi, le carezze, l'età adulta, il lavoro, la resistenza alla fatica e ai maltrattamenti, uno sprazzo di genialità che illumina la piena maturità, il momendo mistico che precede la morte.

Virgilio Fantuzzi, L'anima nella prigione. Osservazioni sul cinema di Bresson, in Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, a cura di Giovanni Spagnoletti e Sergio Toffetti, Lindau, Torino 1998