Antologia critica

Antologia critica

 

In un calcolatissimo impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e nel fumetto, così Amarcord cresce e tempera le ombre, le smargina d'ogni scoria verista, e le muove nel grembo della leggenda. Intrecciati ai timbri d'argento, alle risate a piena gola, i rintocchi della malinconia minacciano d'avere il sopravvento. La trappola della memoria è scattata ancora una volta? In realtà siamo feriti, ma salvi. Forse il Pinocchio che è in noi esce dal buio, smette i calzoni alla zuava e brucia con i ricordi il suo mondo piccino. Tutta la sua vita, domani, sarà una lotta contro il Borgo, contro la tentazione di rifugiarsi nel tepore dei miraggi. Aiutato nella sceneggiatura dal conterraneo Tonino Guerra, col quale ha anche firmato un libro in cui, ma da lontano, si respirano i fatti del film, dallo scenografo Danilo Donati, dal fotografo Giuseppe Rotunno, dal musicista Nino Rota, da attori quasi tutti sconosciuti, il cantastorie Federico Fellini ha detto con Amarcord, sull'Italia degli anni fascisti, forse più e meglio di tanti storici di professione. Dobbiamo essere grati al suo talento. Dobbiamo sperare che i nostalgici, confrontandosi col passato, misurino l'abisso di puerilità, di appetiti repressi, di smanie e cafonerie in cui naufragarono, petti in fuori e pancia in dentro. E anche i giovani ne ridano, ne ridano, ne ridano, con un'unghia di pietà per i loro padri indifesi.
Giovanni Grazzini
, "Corriere della sera", 19 dicembre 1973

 

 

Federico Fellini ha evocato con maestria un universo di fantasmi, tirati fuori dalle tasche del tempo senza allegria né ferocia, in un'operazione mentale alla fine elegiaca. I passi più riusciti di Amarcord hanno al centro Gradisca: la sua vicenda erotica ha un tono di qualità espressionistica di alto stile, mentre la finale cerimonia nuziale all'aperto ha qualcosa di derisorio che sottolinea la vanità dei nostri impegni rituali. Alternando il mesto al sardonico, il trionfalismo delle 'fogarazze' e della corsa automobilistica all'ospedale e ai funerali, Fellini ha descritto un epos provinciale che non traligna mai nella sguaiataggine o nel patetico. Giunto al sommo dell'arte sua, Fellini ha imparato a fermarsi a tempo servendosi di un montaggio severo e implacabile.
Morando Morandini
, "Il Giorno", Milano, 19 dicembre 1973

 

 

Molte delle inquadrature di Amarcord sembrano l'edizione per così dire critica del 'kitsch' fascista, della sua iconografia rurale, della sua propaganda industriale, colta nel momento piccolo-borghese, con la cultura delle nostre zone depresse. Forse solo Il conformista, prima di Amarcord, ci aveva restituito un fascismo visto così dall'interno, al di fuori delle solite, oziose decalcomanie. È utile aggiungere che il film funziona anche sul piano del puro e semplice spettacolo e che tutto vi è al proprio posto: a cominciare dal numeroso stuolo degli attori, noti e sconosciuti, professionisti e occasionali (con particolare riguardo al folgorante intermezzo di Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio pazzo). Rispettiamolo, dunque questo Amarcord: questo film intenzionalmente modesto, ma molto più realizzato, concluso di tante altre opere felliniane, partite con maggiori ambizioni.
Callisto Cosulich
, "Paese sera", 19 dicembre 1973

 

 

Quel che ha giovato a Fellini, stavolta, è stato forse il defilarsi un poco rispetto all'argomento, il mettersi in una posizione di autobiografismo non più diretto come ne I vitelloni, ne La dolce vita, in Otto e mezzo, ma mediato. È vero che Titta, l'allegro, scanzonato ginnasiale che fa da testimone degli eventi e da filo conduttore della vicenda, è una nuova proiezione dell'autore, come il giovane Morando incarnato a suo tempo da Interlenghi, come il giornalista e il regista impersonati da Mastroianni; ma è anche vero che egli adombra al tempo stesso una persona reale, un ex compagno di scuola di Fellini; e questa è una cosa che ha il suo peso. Dietro Titta poi c'è la sua famiglia: è anzi questa famiglia la vera protagonista del film. Il padre, un sanguigno e manesco capomastro di fede anarchica; la madre, una donna di casa teneramente scorbutica; lo zio fascista e fannullone, noto col nomignolo di 'Pataca'; il fratellino minore di Titta ed il nonno incorreggibile, che allunga di continuo le mani sulla servotta procace, concorrono a comporre un microcosmo tipicamente romagnolo, nel quale può bene specchiarsi e riconoscersi quell'altro microcosmo che è il Borgo.
Dario Zanelli
, "Il Resto del Carlino", 19 dicembre 1973

 

 

Amarcord, in romagnolo 'A m'arcord', mi ricordo, la chiave di tutta la poetica felliniana, la cifra di un autore che, da quando fa cinema, nei suoi momenti più alti è sempre andato alla 'ricerca del tempo perduto', trovando nei ricordi, nella memoria, la fonte più viva della sua ispirazione, unico Poeta nella cultura italiana, che abbia saputo trasporre dalle lettere al cinema il mirabile congegno di Proust.
Gian Luigi Rondi
, "Il Tempo", 19 dicembre 1973

 

 

Amarcord è un film da amare senza ulteriori riserve. Fellini approfitta della riconquistata serenità per tendere a un racconto quasi oggettivo. Tornando alle radici provinciali e beffarde della propria formazione, il regista di I vitelloni recupera spregiudicatamente la struttura della barzelletta, si sforza di non commuoversi e di non tirare conclusioni. Tutto il film porta la sigla di un maestro, ma alcune pagine si impongono con maggiore evidenza: un pranzo-litigio in famiglia degno di Eduardo, la gita in campagna con lo zio matto (un sublime Ciccio Ingrassia), il ballo degli studenti davanti al Grand Hotel chiuso per l'inverno, la magica apparizione notturna del transatlantico Rex: un simbolo dei miti di un'epoca stupidina, così pregnante che sarebbe piaciuto a C.G. Jung.
Tullio Kezich
, Il mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, volume primo, Il Formichiere, Milano, 1977

 

Fellini in realtà ha voluto fare i conti col subconscio non ancora risolto di alcune generazioni di italiani che hanno seppellito per sempre dietro di sé il passato in camicia nera. La modestia alla portata dei sogni collettivi di un paese che di lì a poco a poco parte per andare alla conquista del mondo è raccontata attraversando sempre intrecci di sentimenti contraddittori e componendo forse il più armonico e grandioso affresco e concentrato di sogni, ricordi, emozioni, speranze, riti individuali e collettivi sulla vita italiana tra le due guerre che sia stato realizzato.
Amarcord
è il punto di confluenza tra i ricordi autobiografici e l'ingrandimento dei sogni e desideri dell'italiano popolare che viaggia attraverso il fascismo cercando di difendere un proprio nucleo autentico di personalità, vivendo il momento più grottesco e vestendo le maschere più tragiche di tutta la storia più recente. Ma al di là delle parate, dei riti più ridicoli, al di là dei travestimenti imposti dal regime, il regista riesce a rappresentare anche negli aspetti positivi il senso della festa collettiva, vuole far giungere fino a noi le radiazioni di calore umano che si sprigiona dalla miriade di forme di vita associativa della provincia, al bar, al cinema, al circo, in piazza, in un teatro in cui piccole compagnie di guitti mettono in scena uno spettacolo. Nel teatrino della memoria ogni personaggio recita la sua parte ed è indispensabile alla riuscita dell'architettura complessiva. Per la prima volta si sollecita dallo spettatore un coinvolgimento diretto, e un riconoscimento di proprietà comune di quel patrimonio di immagini.
Gian Piero Brunetta
, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni Novanta, Editori Riuniti 1998

 

 

Amarcord è il film con cui Federico Fellini giunge a una sintesi fra le istanze di autobiografismo onirico presenti in opere come I vitelloni, La dolce vita o 8 1/2 e le pulsioni verso una poesia cinematografica fra sublime e grottesco di La strada (1954), Le notti di Cabiria (1957), Fellini Satyricon (1969), Roma (1972). Il titolo fa immediatamente pensare a un film sulla memoria, ipotesi avvalorata dall'aneddotica che vuole il personaggio di Titta modellato sull'amico d'infanzia Luigi Benzi e dal riscontro nella realtà che la maggior parte dei personaggi ha trovato. [...] In realtà, il regista ha sempre cercato di minimizzare questo lato del film. Per lui il film è innanzitutto una sorta di analisi psicosociologica, condotta con i mezzi che più gli sono congeniali, sulle ragioni profonde del fascismo, inteso più come categoria dello spirito che come preciso e delimitato periodo storico. Amarcord sarebbe allora una pellicola sull'innato provincialismo del popolo italiano, sulla sua irrisolvibile immaturità e sul suo bisogno di deresponsabilizzarsi affidandosi a figure forti di riferimento, idoli di cartapesta, per poter continuare a vivere in una patologica sospensione fra le meschinità di una vita reale angusta e gli illimitati orizzonti del sogno. [...] Fellini parte da un dato politico e ideologico, poi lo abbandona progressivamente. Il suo talento cinematografico prende il sopravvento e, complice la disciplina poetica impostagli da Guerra, il film impone le proprie ragioni. Amarcord finisce così per essere fedele al suo destino di affresco corale (tecnicamente, per la molteplicità dei punti di vista, e in senso più ampio, per la sua universalità sancita da un successo senza confini) sul paese incantato dei ricordi e sulla commovente dolcezza del passato.
Giacomo Manzoli, "Amarcord", Enciclopedia del cinema. I film, Treccani 2004